Elisabeth Libraire
Prefazione
T.K.V. Desikachar
Dhâranâ
Anand Nayak
Dhâranâ, concentrazione che risveglia la felicitŕ
André Padoux
La nozione di dhâranâ nei testi tantrici
Jean Papin
Riflessioni intorno alla dhâranâ: benefici, inganni e sbandamenti
dellaconcentrazione
Salim Michaël
L’unificazione dei tre aspetti della natura umana necessaria alla
concentrazione
Pierre Etévenon
Risveglio, attenzione, concentrazione, trasformazione
Ysé Tardan-Masquelier
Yantra e mandala
Eveline Grieder
Mantra-yoga: dalla parola al silenzio
Mumon Yamada
Zazen: l’unitŕ tra il corpo e la mente
S.N. Goenka
Introduzione alla meditazione vipassanâ: una meditazione per la vita
di tutti i giorni
Adrien Demoustier
Saggio di presentazione degli Esercizi Spirituali di Ignazio
di Loyola
Maurice Gloton
La concentrazione nell’Islam
François Roux
La contempla-azione
Bibliografia
PASSI SCELTI
Dhâranâ deriva dalla radice dhâ che significa «tenere». Si tratta della sesta tappa dello ashtânga-yoga; viene considerata come un dato a sé stante, oppure la si sottostima in quanto tappa essenziale verso dhyâna, la meditazione. Il successo di dhyâna dipende da dhâranâ, come la riuscita di uno studente dipende dal professore che sceglie. Fare un errore in dhâranâ equivarrebbe a mettersi in cammino sulla strada sbagliata
Gli Yoga-sűtra di Patańjali sottolineano le
condizioni essenziali per giungere a dhyâna:
1) aver preparato la mente a dhâranâ
2) determinare la buona direzione richiesta per dhâranâ
Faremo una breve esposizione di questi due punti.
Preparare la mente
Mio padre, Shri T. Krishnamacharya, paragona le pratiche preliminari come âsana, prânâyâma e il regime alimentare, alla pulizia di un recipiente. Proprio come il recipiente utilizzato per cuocere il riso ha bisogno di essere pulito prima che possa servire di nuovo alla cottura, la nostra mente ha bisogno di essere purificata. Egli chiama questo processo samskâra.
Samskâra č l’azione attraverso cui uno strumento viene reso utilizzabile per un uso futuro. Se, per cucinare un piatto a base di latte si utilizza, senza pulirlo, il recipiente in cui sono state cotte delle cipolle, la portata sarŕ impregnata dall’odore della cipolla, e, nell’eventualitŕ peggiore, sprecata. Succede lo stesso con la mente; in essa si imprimono tutti i ricordi, ed č sottomessa alle conseguenze di azioni rivolte verso l’esterno. Quando deve venire diretta verso qualche cosa di profondo, le pratiche che la distolgano da ciň devono essere evitate.
Tutto l’obiettivo del sâdhanâ-pâda degli Yoga-sűtra di Patańjali consiste nell’identificare e ridurre questi ostacoli per dhâranâ. Il prânâyâma č il mezzo essenziale per questo scopo. Questo metodo, consistente nel regolarizzare coscientemente il respiro, č cosě importante che il prânâyâma č la tappa preliminare obbligatoria di ogni rituale induista.
Patańjali stesso ha detto che la pratica del prânâyâma prepara la mente a dhâranâ (dhâranâsuca yogyata manasah: 2,53).
La Bhagavad-gîtâ, nel quinto capitolo, introduce l’idea della respirazione prima di affrontare il dhyâna-yoga nel sesto capitolo:
Rigettando al di fuori ogni contatto con l’esterno, fissando l’energia visiva tra le due sopracciglia, rendendo uguali le inspirazioni e le espirazioni che camminano all’interno del naso. (5, 27)
Proprio come la mente deve essere preparata con pratiche di yoga quali il prânâyâma, la scelta del luogo, dell’ambiente č ugualmente importante. In questo stesso testo, il Signore Krishna insegna:
L’asceta deve raccogliersi incessantemente, ritirato in disparte, solitario, controllando la mente, senza aspirare a nulla, privato di tutto, dopo aver sistemato in un luogo purificato un seggio stabile, né troppo alto né troppo basso, ricoperto di stoffa, di pelle d’antilope o di erba sacra. (6, 11).
Nel Vangelo di Matteo (18, 23), Gesů risponde all’uomo ricco che gli dice di avere osservato tutti i comandamenti della Legge: «Te ne manca tuttavia uno. Vendi tutto ciň che possiedi e distribuisci le tue ricchezze ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli». Di fronte alla tristezza del ricco, Gesů continua e gli dice: «č piů facile a un cammello passare per la cruna di un ago, che a un ricco entrare nel Regno di Dio».
Determinare la buona direzione per Dhâranâ
Non č sufficiente pulire il recipiente. Un recipiente pulito non svolge alcun ruolo in se stesso. Non č neppure saggio cercare di guardarlo senza riempirlo con qualche cosa da cuocere. Allo stesso modo, disporre di una mente libera da distrazioni non č che un inizio, anche se un inizio significativo. La mente deve essere allora orientata. Questo processo grazie al quale si fornisce una direzione alla mente si chiama dhâranâ.
Ciň implica la scelta di un desha, un oggetto su cui la mente possa appoggiarsi. L’oggetto stesso non deve essere una fonte di distrazioni. Non ci si allontana dal serpente per gettarsi nelle fauci del lupo! Il desha deve essere shubha, vale a dire benefico per la persona. Dovrŕ anche essere abhimata, accettabile per la persona. Se non ho alcun interesse per una divinitŕ, per quanto grande essa sia, non potrŕ essere abhimata. Anche se si tratta di un oggetto che mi piace, ma che mi crea delle difficoltŕ nel corso del tempo, esso smette di essere shubha.
Una volta che questa scelta č stata fatta, l’accesso a dhyâna rappresenta molto semplicemente la tappa successiva. Cosě dhâranâ conduce a dhyâna. Tuttavia, se in dhâranâ la scelta č possibile, in dhyâna non lo č piů. Dhâranâ rappresenterebbe cosě il momento in cui si sceglie di prendere un biglietto aereo per una destinazione. In dhyâna, il viaggio č cominciato. Per questo č molto importante avere una buona guida nella scelta del desha.
Bisogna anche aggiungere che desha, vale a dire l’oggetto scelto in dhyâna, influenza la persona. Non č esagerato dire che «la persona agirŕ presto come il desha sotto l’effetto di dhyâna». In effetti, samâdhi, l’ultima tappa dello yoga, č quella in cui la persona «diventa» l’oggetto stesso.
Dhâranâ non č un processo completamente privo di attivitŕ mentale. Questo processo, inoltre, non č possibile senza che sia fissata una direzione. č quindi necessario riconsiderare l’opinione che ritiene che dhyâna, o la meditazione – che č la conseguenza di dhâranâ – sia caratterizzata dall’eliminazione delle attivitŕ della mente.
Patańjali introduce inoltre un’altra pratica mentale chiamata samyama, in cui la persona decide di centrare la propria mente su un oggetto particolare e rimane con esso fino alla fine. Qui la prima tappa č dhâranâ. Questa pratica rende la persona non solamente padrona dell’oggetto scelto, ma le permette anche di ottenere certi poteri straordinari conosciuti sotto il nome di vibhűti. Il terzo capitolo degli Yoga-sűtra si chiama infatti Vibhűti-pâda. Sapere se tali poteri siano da ricercare č un’altra questione. Patańjali stesso ammette che essi possono manifestarsi ma che non devono essere perseguiti. Con il tempo diventeranno causa di sofferenza.
Un altro uso interessante del termine dhâranâ figura nella Katha-upanishad. Lo yoga vi viene definito come «sthiram indriya dhâranâm»: la capacitŕ di trattenere i sensi in presenza di stimoli molto forti. La nozione č simile a ciň che Patańjali chiama pratyâhâra. Tuttavia, se la mente non č collegata a qualche cosa di profondo e non vi resta legata malgrado le provocazioni, pratyâhâra non puň esistere.
Lo Yoga-yajńavalkya, un antico testo sullo yoga, tratta di dhâranâ nell’ottavo capitolo. Il Maestro vi divide il corpo in cinque parti rappresentanti i cinque bhűta.
Orientando la mente su queste cinque parti, si producono differenti effetti, tra cui la regressione di certe malattie. Le tecniche comprendono la visualizzazione di alcune divinitŕ, la recitazione e la meditazione su sillabe che rappresentano i cinque elementi. L’orientamento della mente viene fatto attraverso tecniche respiratorie particolari come viloma-krama-prânâyâma.
Per concludere si puň dire che dhâranâ č la tappa piů importante in grado di condurre a dhyâna, lo scopo principale dello yoga. Il successo o il fallimento - dell’antaranga yoga dipende da questo.
T. K. V. Desikachar
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