Selene Calloni
Energia e armonia nello Yoga Integrale

 


 

INDICE

Introduzione

L'energia

La vibrazione
L'azione dei prânâyâma
La Shakti e la Kundalinî Shakti
I piani dell'esistenza
La vera Materia
L'essere psichico
I movimenti nei piani dell'esistenza
Le nâdî
I chakra

I movimenti della coscienza: la salita e l'espansione

Shavasana, posizione per un perfetto rilassamento
Il rilassamento (1)
Il rilassamento (2)
Il rilassamento interiore
Il rilassamento e il prânâyâma
Il mantra
I bîja-mantra correlati ai chakra
La consapevolezza del respiro
La respirazione yoghica completa
Il kumbhaka
L'autoregolazione nel prânâyâma
Il kumbhaka e i bîja-mantra
Le posizioni sedute
Il canto dei bîja-mantra
Il kumbhaka nella consapevolezza del respiro
Il canto di OM nella respirazione yoghica completa
Perfezioniamo la respirazione yoghica completa

Una nuova espansione

Il respiro circolare: prima fase
Il respiro circolare: seconda fase
Quanto a lungo restare concentrati sul respiro?
Uddiyâna-bandha
Jâlandhara-bandha
Mûla-bandha
Ujjâyî-
prânâyâma
Il rilassamento (3)
Il rilassamento (4)
Il rilassamento (5)
ll rilassamento (6)
Il tridente
Bhrâmarî-prânâyâma
Il loto del cuore

L'armonia

Il mantra della Madre
La danza della coscienza
La danza della coscienza: i movimenti
La danza della coscienza: il significato

L'accettazione di sé e la meditazione

Essere se stessi
La respirazione circolare protratta
La meditazione
Tracce per la meditazione

Conclusione

  


 

PASSI SCELTI

  

INTRODUZIONE

 

Questo libro espone tecniche yoga di respirazione controllata, metodi di rilassamento e di concentrazione e procedimenti di interiorizzazione.

Le tecniche di respirazione controllata fanno parte di un’arte yoghica chiamata prânâyâma. I processi di rilassamento e di concentrazione sono più difficili da collocare. Alcuni li vedranno come sistemi della yoga-nidrâ, altri come strumenti della meditazione. Ma questo non ha una grande importanza.

I procedimenti di interiorizzazione che vengono presentati in questo libro mostreranno al lettore già iniziato allo Yoga un certo carattere di novità. Tali procedimenti vengono chiamati kriyâ. Il kriyâ-yoga è assai meno diffuso e conosciuto del prânâyâma e della meditazione stessa. Eppure è uno Yoga altamente creativo e appassionante. Strumento delle kriyâ può essere il respiro, come avviene nel prânâyâma, ma anche l’immaginazione, come nel rilassamento, e l’abbandono, come nella meditazione. Generalmente una kriyâ si serve proprio dell’azione combinata di questi tre strumenti. Il suo scopo è quello di interiorizzare la coscienza. Si capirà come la «danza della coscienza» che viene presentata in questo libro sia a tutti gli effetti una kriyâ.

Prânâyâma, tecniche di rilassamento e kriyâ vengono generalmente assunti quali metodi dello hatha-yoga.

Lo hatha-yoga è lo Yoga che ha conosciuto la maggiore diffusione in Occidente. L’aspetto più evidente dello hatha-yoga è generalmente costituito dagli âsana, le posture fisiche. Noi ci occuperemo di questo aspetto solo per ciò che concerne quelle posizioni del corpo la cui conoscenza è indispensabile per praticare le respirazioni controllate e i processi di rilassamento e di interiorizzazione.

La preoccupazione principale di chi scrive non è esporre quante più tecniche possibili dello hatha-yoga, ma è andare alla ricerca del significato nascosto dentro le tecniche. La loro efficacia, infatti, dipende da questo significato in maniera pressoché totale.

Questo significato nascosto è, in realtà, così naturale da non poter essere visto se non viene di proposito cercato ripulendo la ragione dalla polvere dei propri artifici. Senza la conoscenza di questo significato, lo hatha-yoga può darci solo le briciole delle proprie possibilità d’azione e di trasformazione.

Lo scopo dello Yoga è, infatti, quello di giungere, attraverso una progressiva evoluzione, alla realizzazione nell’adepto di un «nuovo uomo».

Per praticare lo Yoga non è necessario imporsi aprioristicamente determinati costumi o particolari atteggiamenti culturali. è però importante assecondare quei cambiamenti a cui la pratica stessa conduce spontaneamente attraverso il risveglio della coscienza di sé.

L’uomo tende a disperdere l’unità dell’essere in un’infinità di particolarismi, di carattere sia temporale che geografico che etnico, immedesimandosi orgogliosamente in una particolare epoca, come in un paese, in una etnia, in una corrente di pensiero, rifiutando tutto ciò che se ne allontana. In questo modo egli perde di vista quell’unità del tutto che lo Yoga porta a recuperare, sfrondando i particolarismi fino a metterne a nudo il nocciolo comune. Attraverso l’unificazione dell’apparente molteplicità della vita, lo Yoga ci porta a scoprire quell’unica verità che ne è fondamento. «In verità tutta la vita è Yoga» dice Shrî Aurobindo. Ed è proprio alla luce dello Yoga di Aurobindo e della Madre, il pûrna-yoga, lo Yoga integrale e lo Yoga cellulare, che questo libro intende esaminare le tecniche dello hatha-yoga alla ricerca del loro significato profondo.

Praticare lo Yoga integrale significa innanzitutto riportare «integralmente» nel vivere quotidiano quelle conquiste spirituali cui si arriva attraverso la pratica degli esercizi; non già un mero ampliamento delle tecniche da eseguire, piuttosto un allargarsi del campo d’azione dello Yoga, il quale non può essere costretto in un’asettica pratica quotidiana, avulsa dalle reali difficoltà della vita.

Lo Yoga infatti, attraverso le varie tecniche, risveglia una capacità di auto-osservazione che è la chiave di volta dell’evoluzione dell’individuo, in quanto porta a raggiungere la piena coscienza di sé.

A poco varrebbe, però, questa possibilità se si fosse pienamente coscienti di sé solo durante la pratica degli esercizi, e si perdesse tale coscienza durante tutto il resto della vita.

Vivere lo Yoga nel quotidiano significa esprimere pienamente e liberamente le nostre energie, ottenendo il meglio da noi stessi in modo spontaneo e senza sforzo.

 


 

L’ ENERGIA

La vibrazione

Il prânâyâma è una scienza psicofisica che ci proviene dall’antica filosofia tantrica.

Lo strumento principale d’azione di cui il prânâyâma si serve è il respiro, o meglio, la possibilità da parte dell’uomo di controllare coscientemente il proprio respiro.

Grazie al controllo del respiro il prânâyâma riesce a farci conseguire ottimi risultati dal punto di vista della salute fisica e psicologica. La migliore ossigenazione del sangue, la purificazione del sistema nervoso, l’eliminazione delle tossine e quindi, fondamentalmente, la circolazione libera ed armonica dell’energia vitale attraverso i nervi, sono risultati conseguibili con la pratica delle tecniche del prânâyâma. Prâna è, infatti, quell’energia vitale che presiede a tutte le nostre attività fisiche e mentali. Ayâma, invece, significa «controllo». Il prânâyâma è dunque la scienza del controllo dell’energia vitale.

Tutte le malattie, in maniera più o meno diretta, hanno origine da una rottura dell’equilibrio dei flussi pranici, dall’indebolimento dell’energia vitale. Una forma di questo indebolimento è la tensione. L’ansia, lo stress nervoso, sono equivalenti ad una disarmonia del flusso pranico, ne sono, al tempo stesso, la causa e la conseguenza sempre più evidente. Le tecniche del prânâyâma, ristabilendo l’armonia naturale dei flussi pranici, combattono la tensione psicofisica. Ma c’è dell’altro…

Una visione energetica dell’universo è una visione unitaria; vi è una sola energia che assume infinite forme e funzioni. Nell’essere umano l’energia assume ora l’aspetto di prâna fisico, per manifestare il corpo e le sue attività, ora l’aspetto di prâna psichico, per manifestare la mente e le sue operazioni.

Dall’energia fisica all’energia mentale, tutto ci appare una unica vibrazione che muta incessantemente.

Nella natura questa vibrazione, ad un certo punto, si manifesta come mente, dalla più rudimentale alla più evoluta, e, nella mente, ad un certo punto, si manifesta come coscienza e come amore o, se vogliamo, come coscienza d’amore. La coscienza non avrebbe ragione di divenire senza l’amore e l’amore non potrebbe divenire senza la coscienza, giacché esso è volontà d’amare). è nella mente, infatti, che la coscienza si riconosce, gradualmente e non ancora in maniera totale. E come potrebbe questa vibrazione manifestarsi come coscienza d’amore, se non fosse coscienza d’amore fin dall’inizio, in tutta la materia? Questo divenire della vibrazione è un viaggio senza distanze, è il divenire dell’Esistenza che è già, poiché il Divino, nel suo aspetto di Creatore, è il movimento nella immobilità assoluta. Egli diviene nell’Esistenza.

E noi? Ebbene, noi siamo questa immediatezza del movimento nella distanza del tempo e dello spazio. Siamo l’Assoluto nell’individualità. Siamo pura Esistenza nell’esistenza dell’io, Vita nella vita. E questo rispecchia l’incomprensibilità della vibrazione…

Siamo un momento dell’esistenza all’interno della totalità dell’energia. Siamo la mente nell’anima. E proprio in questa mente, dove la vibrazione è cosciente di sé, un io è chiuso in sé. Tanto più questo io imprigiona entro i propri limiti la coscienza d’amore della vibrazione, quanto più quello che lo circonda gli appare come un mondo di materia incosciente.

Nella nostra mente un’intelligenza superiore anela alla dissoluzione di questi confini irreali e un io vive di questi confini, vuole questi confini, perché la loro dissoluzione sarebbe la sua stessa dissoluzione. Ancora qualcosa di incomprensibile: una volontà di infinito nella volontà del finito.

Questa volontà dell’io, la volontà del finito, è in tutta la mente del mondo; è nella mente fisica, nella mente che sente gli impulsi fisici, li distingue, li giudica, ed è nella nostra mente pensante che da quella mente dipende.

Nella mente la coscienza comprende la propria unità, l’unità della vibrazione, e la volontà cerca un uomo che si apra totalmente all’energia universale, mentre un io stringe e chiude i passaggi. Questi passaggi, questi circuiti energetici dell’uomo, lo Yoga li chiama chakra, i fisiologi li chiamano plessi nervosi. Sta di fatto che questi circuiti sono parte di un’energia infinita, ma si nutrono, invece, solo delle sue briciole, fino a chiudersi persino a queste.

Noi usiamo, consumiamo e infine esauriamo un’energia individuale, una vita individuale, che esiste solo in virtù di una chiusura, non nella Realtà. Esiste in virtù di un rifiuto, di un «no!» colossale.

Più ci restringiamo nella nostra individualità, più le disarmonie sono evidenti, quasi il rifiuto si rendesse palese con lo squilibrio, la paura, o qualche altra malattia, per chiedere di essere risolto. L’intelligenza si accorge di questo rifiuto. Però che fare? Il rifiuto è insito nella mente fisica, il «no» è radicato nel corpo. Come estirparlo?

La mente sensoria, questa mente del corpo, recepisce solo l’impatto del corpo, essa esiste per tradurre in sensazioni gli impulsi che il corpo riceve, comprende solo gli impatti più strettamente fisici. L’intelligenza, per lei, è come un soffio che neppure si avverte. Figuriamoci se questo soffio può cambiare qualcosa laggiù, nella materia pesante!

Il prânâyâma rappresenta un punto qualunque (ce ne possono essere molti, davvero molti…), un punto qualunque che l’intelligenza può agganciare per scendere ed agire nel corpo.

C’è una disarmonia nel corpo, uno squilibrio, una tensione, una paura (o anche solo il sospetto di una paura): il flusso dell’energia è stato chiuso da qualche parte.

Bisogna scendere e aprire, bisogna ristabilire l’equilibrio. O, semplicemente, bisogna impedire la chiusura, bisogna mantenere l’armonia.

C’è una volontà di pace nella ragione superiore, una volontà di crescita, di apertura. Questa volontà va messa nel corpo, e il prânâyâma lo fa servendosi del respiro.

Il prânâyâma è il controllo cosciente del respiro. è la ragione che si impossessa della funzione del corpo e la tiene sotto il suo controllo per riempirla, caricarla della propria volontà. Il soffio dell’intelligenza diviene il soffio del respiro, si rende più denso, più fisico, e va a ripulire il corpo dai suoi «no». Raggiunge dapprima la vita emotiva più evoluta e cosciente e mette equilibrio, quindi piano piano scende ancora e trova ciò che è più inconscio, più denso. è qui che i «no» sono più resistenti, più sordi. L’intelligenza soffia, soffia coscienza dove la materia è più densa e più buia, ma è pur sempre energia, è pur sempre coscienza. Aumentare questa coscienza della materia affinché essa possa sentire, rendere il corpo sempre più cosciente affinché possa capire: ecco il lavoro dell’intelligenza quaggiù nel corpo.

Aumentare la coscienza ovunque: questa è l’azione dello Yoga. Si può farlo con la meditazione, con un mantra1, oppure con il respiro. Si può farlo in tanti modi, e lo si fa, più o meno consapevolmente, vivendo, lavorando, giocando, mangiando o dormendo. Il corpo impara! Il corpo, se e quando l’intelligenza glielo permette, si evolve.

Se e quando l’intelligenza glielo permette: infatti, l’intelligenza stessa deve essere disposta, in questo movimento di crescita, ad evolversi e ad aprirsi sempre di più.

A mano a mano che la mente emotiva e sensoria si fa armonica, limpida e duttile, l’intelligenza si trasforma, poiché essa dipende da quella mente, trae origine da quella mente.

L’intelligenza e la sua volontà sono al tempo stesso soggetti e oggetti del processo di trasformazione.

Esse incominciano a ripulire ciò che sta immediatamente al di sotto di loro, ma la luce deve filtrare da più in alto; la vibrazione prosegue oltre la mente pensante. è lì che la coscienza d’amore è veramente cosciente di sé, nel senso che non solo conosce la propria unità ma la diviene, è l’unità.

Pulire la mente pensante dalle sue divisioni, dalle sue chiusure, dai suoi rifiuti, è difficile, perché la ragione è attaccata ai suoi «no». Il corpo è più sordo, ma la ragione è affezionata ai suoi limiti. La mente del corpo non sente, ma la mente pensante non vuole sentire.

La ragione sa che non può vivere la propria irrealtà se non all’interno dei limiti dell’io ed è attaccata a questi limiti. Tuttavia il lavoro che essa compie sul corpo prepara la strada al superamento della sua vita individuale.

Più il corpo, la materia tutta, si fa cosciente, più la divisione tra ciò che è cosciente di sé e ciò che non lo è, fra «io» e «tu», si indebolisce.

Nella Realtà tra la coscienza della mente pensante e la coscienza dell’atomo non c’è nessun percorso, non c’è distanza, essi sono uno, sono già insieme. La separazione, la chiusura, esistono solo nella mente. Come se si dovesse venire a un dunque dell’incomprensibilità, questa chiusura non è neppure un’illusione, un errore; semplicemente, non essendo pura Esistenza, non esiste.

Pur se la mente rifiuta la Realtà in nome della propria individualità, tuttavia, vivendo, essa ne prepara il trionfo.

Tutti i limiti che la mente deve affrontare sono le impossibilità che essa stessa manifesta a sostegno della propria esistenza individuale.

Lavorando contro le proprie impossibilità, con la scienza, la religione, l’arte o lo Yoga, la mente lotta per venire superata - o meglio, aperta e dissolta - in qualche altra cosa che essa ancora non può figurarsi, come la mente della scimmia non poteva prefigurarsi la mente dell’uomo.

 

L’azione del prânâyâma

Vediamo adesso più in dettaglio l’azione del prânâyâma sul prâna fisico e psichico.

Il prâna, la vibrazione, l’abbiamo detto, è coscienza nella mente come nel corpo, anche se è solo nella mente che ciò si manifesta. Tuttavia, proprio perché coscienza, il prâna, sia nel suo aspetto fisico che nel suo aspetto psichico, può sempre ricevere la volontà dell’intelligenza, purché questa si faccia sentire.

Il respiro nasce dalle profondità del corpo nella sfera vegetativa, passa attraverso la vita emotiva, di desiderio (tutte le manifestazioni si ripercuotono in alterazioni del respiro) e giunge alla mente pensante che lo può controllare. Guidando il respiro in un ritmo calmo e completo, l’intelligenza coinvolge in questo ritmo la mente pensante, la vita emotiva e vegetativa. I moti del prâna fisico e psichico vengono equilibrati e acquietati nel prânâyâma.

Contemporaneamente la distanza fittizia tra la mente pensante e la mente fisica viene accorciata da un aumento del grado di coscienza di quest’ultima, e la volontà di pace e di apertura dell’intelligenza può scorrere lungo tutti i flussi del prâna e venire recepita.

La nostra aspirazione alla calma e all’apertura è dunque l’atto fondamentale, il proposito che si realizzerà con la stessa intensità con la quale l’abbiamo formulato.

Quando eseguiamo il prânâyâma dobbiamo ricercare l’abbandono di tutto il corpo: un rilassamento perfetto che, partendo dai muscoli, raggiunge le viscere in profondità; dobbiamo ricercare l’abbandono dei moti di desiderio e di pensiero, affinché la mente possa divenire un’unica volontà di pace. Nel tempo dedicato al prânâyâma dobbiamo essere in grado di non chiedere più nulla, alla fine nemmeno chiedere di rilassarci, perché ogni desiderio è comunque una tensione, una chiusura.

Dobbiamo aprirci, dobbiamo creare un movimento verso l’esterno, non verso l’esteriorità dell’io, ma all’esterno dell’io. Se creiamo un movimento d’amore, di apertura, l’energia entra, ma se vogliamo succhiarla, chiudiamo i passaggi. Lasciamoci andare.

Progressivamente l’acquietamento dei moti pranici contribuisce a creare uno stato di quiete nella sfera dei desideri, delle emozioni e delle sensazioni.

Quando si fa prânâyâma, cercare di tenere lontani dalla mente i pensieri disturbanti è la cosa che appare più difficile. Non dobbiamo sforzarci. Se ci sforziamo di scacciare i pensieri o le emozioni, ne diveniamo preda. L’atteggiamento migliore è quello di un abbandono totale, come se ci apprestassimo ad entrare in un sonno d’oblio. Se i pensieri arrivano, dobbiamo osservarli con disinteresse, dobbiamo evitare di identificarci con essi, osservarli come oggetti estranei che sopraggiungono dal di fuori, dall’esterno del nostro spazio mentale, e non dall’interno di esso. Bisogna lasciare che essi attraversino questo spazio senza turbarlo e poi farli scivolare via…

Allo stesso modo, se vogliamo riempire il nostro spazio mentale con un’immagine, una sensazione che ci ispiri un senso positivo di calma, non dobbiamo sforzarci di creare questa sensazione, dobbiamo restare passivi, abbandonati, e lasciare che la sensazione nasca da sé, assorbendo la nostra attenzione.

La nostra aspirazione è verso la pace. Adesso che l’abbiamo formulata, mettiamo tutto da parte, rendiamo la mente passiva e abbandonata, e sentiamo la pace salire dal profondo sempre di più, mentre il tempo dedicato al prânâyâma trascorre.

I pensieri sfileranno dinnanzi alla coscienza come immagini su di uno schermo, dapprima in numero assai elevato, poi, a mano a mano che respiriamo, l’acquietamento progressivo del prâna psichico determinerà una diminuzione graduale dei pensieri e un aumento sempre crescente della tranquillità dell’essere pensante.

 

La Shakti e la Kundalinî-Shakti

Purusha è l’anima universale che si esercita nella natura (Prakriti) mediante una forza infinita.

Shakti è questa forza esecutrice del Purusha: un’energia pranica che pervade di sé l’universo in un’unione sostanziale celata dietro l’apparenza delle molteplici forme individuali.

La Shakti pranica nutre tutto il nostro essere. La possiamo sentire intorno a noi e dentro di noi allo stesso modo.

Questa Shakti è nell’universo nella stessa misura infinita in cui è in noi e noi possiamo attingere a questa energia per quanto siamo in grado di contenerne.

La Kundalinî è, nello Yoga, una forza infinita che giace allo stato latente dentro di noi, avvolta come un serpente alla base della nostra colonna vertebrale. Il risveglio della Kundalinî, la sua ascesa lungo la colonna vertebrale, verso la sommità del capo, rappresenta il risveglio dell’uomo che si fa uno con l’energia dell’universo.

In questa luce, il nostro respiro è un momento di un’onda che attraversa il cosmo, e tutte le nostre azioni sono frutto della Shakti che, operando attraverso di noi, muove verso i suoi fini: «In realtà noi non possiamo nulla nel nostro essere separato e individuale, che è soltanto una formulazione personale dell’unica Shakti.»1

 

I piani dell’esistenza

«Se esistesse solamente l’universo materiale, se il piano materiale fosse solo il piano del suo essere, l’uomo, il Purusha individuale, non potrebbe mai giungere alla perfezione e alla pienezza, e nemmeno ad alcun genere di vita che non fosse quella degli animali.»2

Noi abbiamo più modi di esistere: esistiamo con il corpo, con i desideri e le emozioni, con la mente e con lo spirito. Questi nostri modi di esistere sono il riflesso di altrettanti mondi di esistenza in ciascuno dei quali l’uomo è prevalentemente ora essere fisico, ora essere emotivo, di desiderio (che Aurobindo ha definito essere vitale), ora essere mentale, ora essere spirituale (che Aurobindo ha definito essere psichico):

essere fisico, a cui compete il piano o mondo dell’esistenza fisica;

essere vitale, a cui compete il piano dell’esistenza vitale, o mondo dei desideri;

essere mentale, a cui compete il piano o mondo dell’esistenza mentale;

essere psichico, o essere intimo, a cui compete il piano dell’esistenza spirituale, o mondo dell’anima.

Ogni mondo è il riflesso del mondo immediatamente ad esso superiore, cioè è risultante da una specie di proiezione del mondo ad esso superiore.

Così, ad esempio, il mondo fisico deriva da una proiezione del mondo vitale. Tutto ciò che accade nel mondo vitale si riflette nel mondo fisico, ma gli eventi del mondo fisico possono riflettersi nel mondo vitale e modificarlo.

I piani fondamentali dell’esistenza hanno, a loro volta, altri piani che li costituiscono. Ad esempio, il mondo vitale avrà piani più bassi legati al mondo fisico, piani più elevati legati al mondo mentale e piani altissimi sotto la diretta guida dello psichico. A sua volta il mondo mentale avrà piani bassi legati al mondo vitale e piani più alti «supermentali» sotto la diretta guida dello psichico.

«Noi - dice Aurobindo - non ci serviamo normalmente che dei nostri mezzi corporei, e viviamo quasi interamente nel corpo, nel vitale fisico e nella mente fisica.»1

E come nel nostro corpo fisico noi siamo un po’ vitali e un po’ mentali, così nel corpo vitale saremo un po’ fisici e un po’ mentali, e nel corpo mentale un po’ fisici e un po’ vitali.

Infatti ogni essere ha un proprio involucro, un proprio corpo, e tutti questi corpi si interpenetrano.

Questi involucri sono chiamati kosha:

Annamâyakosha è l’involucro fisico o alimentare.

Prânamâyakosha è l’involucro del soffio vitale o corpo di energia nervosa

Manomâyakosha è l’involucro mentale iniziale (manas = attività psichica a carattere strettamente sensoriale ed emotivo).

Vijñânamâyakosha è la mente superiore, la buddhi, l’intelletto, «l’intelligenza che discerne e la chiara volontà»2.

Ânandamâyakosha è il Jîvâtman o Spirito. Esso non scende nella manifestazione individuale dell’esistenza, ma sta al di sopra di essa, sovrasta la vita ed è precedente alla sua creazione, dunque non partecipa al processo dell’evoluzione, non nasce e non si evolve. Non è da confondersi con l’anima che è una scintilla dello Spirito e che discende, invece, nella manifestazione della vita per sostenere l’evoluzione e, a tal fine, si serve di un essere intimo, l’essere psichico, che essa sviluppa lungo il percorso evolutivo per fare esperienza nel mondo.

L’essere psichico, lo spirito in noi, è il rappresentante nell’esistenza individuale dello Spirito Supremo. Esso è dietro i piani dell’esistenza: dietro il piano fisico è il vero essere fisico (annamâya-purusha), dietro il piano vitale è il vero essere vitale (prânamâya-purusha), dietro il piano mentale è il vero essere mentale (manomâya-purusha). Anche l’intimo, dunque, ha una forma fisica, vitale e mentale, le quali forme sono le vere forme dell’esistenza. Dietro i piani esteriori dell’esistenza vi sono i piani intimi propri dell’essere psichico. Non si tratta di piani interiori (cioè della parte più profonda dei nostri esseri esteriori), ma di piani che stanno dietro l’esteriorità. Non si tratta di una ragione profonda o di un sentimento profondo, ma di un’altra ragione e di un altro sentimento. L’intimo non è l’interiorità di questa vita, ma è l’espressione della vera Vita, della pura Esistenza dell’anima. Non è il nucleo del riflesso, ma la Realtà.

L’involucro vitale è, scrive Aurobindo, «il più strettamente unito all’involucro fisico o “involucro di nutrimento” e forma con quest’ultimo il “corpo grossolano” dell’esistenza completa».

Oltre l’involucro grossolano vi è un involucro sottile che è «l’involucro mentale, o corpo sottile in cui vive il nostro vero essere mentale»1. Un vero mentale esistente in un vero fisico, animato da un vero vitale.

 

La vera Materia

Questo involucro sottile è la «vera Materia» come hanno scoperto Aurobindo e la Madre, ciò che sta oltre i riflessi di questo corpo, di questo vitale e di questa mente.

Aurobindo e la Madre sono arrivati a questa «vera Materia» realizzando se stessi nei piani più alti dell’esistenza mentale, piani che l’evoluzione della natura non ha ancora manifestato e che essi hanno definito «supermentali».

In questi piani l’esistenza è improntata direttamente sotto la guida dell’essere psichico e la materia è cosciente dell’intimo, cioè è cosciente di sé. è la «vera Materia», la Materia che vede la propria unità e diviene, è questa unità.

«E dopo aver parlato del “fisico sottile”, Shrî Aurobindo e la Madre hanno finito col parlare di “fisico vero” e poi di “vera materia”. Qualcosa che sta qui, dietro al “velo dell’irrealtà”. Cioè il mondo reale, la terra reale, senza la trama.»1

 

L’essere psichico

L’essere intimo, l’essere psichico, è oltre tutti i piani dell’esistenza e sorregge, guida l’esistenza in ogni suo mondo. Nel mondo in cui siamo abitualmente, nel mondo fisico, le direttive dell’essere psichico giungono in modo tutt’altro che diretto, essendo filtrate e distorte dal passaggio attraverso tutti i piani dell’esistenza che si accumulano sopra il nostro essere fisico. Passando di riflesso in riflesso, le direttive dell’essere psichico scendono al nostro mondo e vi giungono come un sussurro ovattato e distorto da un’individualità, una prigione angusta, che ci impedisce di sentire e vedere direttamente quell’essere intimo e la sua, la nostra Realtà.

 

I movimenti nei piani dell’esistenza

L’ampliamento e il superamento dell’individualità sono il movimento della coscienza attraverso i piani dell’esistenza.

A sua volta tale ampliamento è sostenuto dall’ascesa attraverso i vari piani, dall’aiuto di poteri appartenenti ai piani più elevati. In altre parole, salendo nei vari piani dell’esistenza l’uomo acquista le potenzialità necessarie al proprio sviluppo.

Questa salita è contemporaneamente un movimento di espansione verso il nostro essere intimo. L’intimo dell’uomo, infatti, non è contenuto nel suo piccolo io, ma è infinitamente più vasto di questo: è l’io che si espande e, infine, si dissolve nella totalità dell’Esistenza.

A questo intimo umano appartiene un piano vitale intimo che non è la spinta al soddisfacimento dei desideri della vita, com’è il vitale riflesso nell’esistenza individuale.

In questo riflesso, appena ci apriamo un po’, possiamo percepire il vitale intimo come un’aspirazione all’Assoluto, una volontà di Assoluto.

Il movimento di sviluppo dell’uomo attraverso i piani dell’esistenza, perciò, deve essere duplice: verso l’alto nei piani dell’esistenza individuale (sempre meno individuali mano a mano che si sale), e in espansione verso l’intimo.

Esiste un terzo movimento decisivo: la discesa dall’alto della forza evolutrice. Ma l’aspirazione che può far discendere la forza non è quella dell’io, bensì quella dell’essere intimo. Perciò, soprattutto bisogna aprirsi all’intimo.

Bisogna che l’individuo assecondi la volontà del vero uomo in lui. è questo uomo centrale che riceve dall’alto le intuizioni che aprono la strada.

Questa forza evolutrice è la Shakti, l’energia esecutrice dell’Anima, del Purusha universale all’interno della natura, l’energia divina che manifesta e muove la natura nella sua evoluzione. Nell’evoluzione ci sono piani mentali che ancora devono manifestarsi e che la mente attuale non può concepire, quei piani «super-mentali» di cui abbiamo parlato. La Shakti è la Kundalinî dei Tantra, l’energia che dorme alla base della nostra colonna vertebrale, ma è altresì l’energia attraverso la quale la natura intera diviene. Questa energia, l’abbiamo detto, è infinita dentro di noi come al di fuori di noi. è in ogni atomo della materia come è in tutto l’universo.

Il movimento evolutivo è uno, ma assume un triplice aspetto: l’aspetto della salita, l’aspetto dell’espansione e quello della discesa dall’alto.

La salita è anche un’espansione verso l’intimo che rende la natura in grado di accogliere la discesa della forza.

Questo processo deve essere cosciente poiché, scegliendo la conoscenza, l’uomo e la natura tutta hanno scelto di volere Dio. Questo «peccato originale» è la nostra volontà di amarLo come Egli ci ama. Ed è la conferma (se mai c’è bisogno di una conferma) della nostra più alta intuizione: So ’ham, «io sono Lui».

La mente dell’io che manifesta tutti i limiti del mondo è, al tempo stesso, indispensabile all’evoluzione cosciente. Non bisogna rinnegare la mente, non bisogna limitarsi ad essa. L’uomo che sale nei piani dell’esistenza, non appena si stacca dal suo essere vitale di desiderio, trova proprio nel piano mentale la volontà di aprirsi al suo intimo.

Questa spinta è nell’intelligenza: per assecondarla, per non metterla a tacere, bisogna che l’influenza del vitale inferiore sull’intelligenza non sia obnubilante. Elevarsi dalla schiavitù del vitale è il primo movimento.

L’intelligenza deve porsi al servizio dell’essere intimo la cui esistenza è pura Esistenza. La nostra vita è ben lontana da questa condizione. è, più che altro, un crescente e insaziabile movimento di possesso. Il desiderio di vita, che sta alla base di questo movimento, si trasforma nel desiderio di possedere tutto ciò che i nostri occhi possono vedere e le nostre mani toccare. Per continuare a definirsi tale, l’intelligenza deve cessare di asservirsi a questo movimento della vita e aprirsi all’essere intimo.

Questo è il secondo movimento, inseparabile dal primo e ad esso contemporaneo.

A questo punto le basi dello sviluppo sono poste. Che esso si attui tramite la scienza, l’arte, la religione, lo Yoga o altro, avrà il carattere che hanno sempre avuto tutte le conquiste umane: una discesa dall’alto di qualche cosa: intuizione scientifica, inspirazione artistica, rivelazione mistica. Nello Yoga si chiama semplicemente evoluzione ed è tutte queste cose insieme senza essere nessuna di esse. è l’evoluzione in nome dell’evoluzione. E tutto è buono, tutto va bene, perché tutto ci evolve, anche ciò che proprio non ne ha l’aspetto.

L’evoluzione è sempre una discesa dall’alto che fa salire. Bisogna aprirsi per accogliere questa discesa.

« è proprio così - diceva la Madre - sarà qualcosa d’altro a compiere il lavoro. Non c’è bisogno di “fare” il sovra-uomo; bisogna solo lasciarlo fare.»1

 

Le nâdî

Nâdî (letteralmente «canali») sono i flussi della Kundalinî Shakti, i flussi di scorrimento dell’energia cosmica negli involucri umani. Tutti gli involucri sono nutriti dalla Shakti universale che presiede alle loro attività fisiche, vitali, mentali e psichiche.

Le nâdî sono assai numerose, ma tre sono le principali: sushumnâ, idâ e pingalâ.

Nel corpo fisico esse scorrono al centro della colonna vertebrale (sushumnâ) e nei due nervi-canali situati ai lati della colonna vertebrale (idâ e pingalâ). Il canale pranico idâ sbocca nella narice sinistra ed è correlato all’energia lunare. Il canale pranico pingalâ sbocca nella narice destra ed è correlato all’energia solare.

Dalle narici le due nâdî scendono lungo la colonna vertebrale fino al mûlâdhâra-chakra. Questo tragitto, secondo la fonte antica a cui si fa riferimento, è ritenuto sinusoidale (le due nâdî si incrociano in determinati punti della colonna vertebrale), o anche lineare (ai due lati della spina dorsale).

Il movimento dell’energia in questi due canali laterali dà origine alla visione dualistica propria dell’individuo: il bene e il male, la gioia e la sofferenza, il positivo e il negativo. Il prânâyâma tende a riportare l’energia nella sushumnâ, risolvendo gli opposti nella tranquilla e sicura coscienza dell’unità.

Ma, all’interno della colonna vertebrale, due sono i flussi possibili: uno ascendente verso il capo, verso il sahasrâra-chakra, il centro che riceve direttamente dall’alto, dallo Spirito, le intuizioni, e l’altro discendente verso la base del tronco, verso il mûlâdhâra-chakra, l’apertura sull’inconscio. Il compito dello Yoga è causare l’ascesa dell’energia verso lo Spirito, al di sopra del capo, determinando l’evoluzione dell’uomo, la sua realizzazione nei piani più alti dell’esistenza.

Il movimento dell’energia che si raccoglie nella sushumnâ, tramite la pratica del prânâyâma, è guidato dalla volontà dell’intelligenza e dei più alti sentimenti. Tale volontà deve essere sufficientemente aperta e forte da fungere quasi da calamita per attirare il prâna verso l’alto.

Aurobindo e la Madre consigliavano di concentrarsi e lavorare sui chakra alti. Se i chakra della mente e l’anâhata (il centro del petto) sono sufficientemente aperti all’intimo, l’energia non può che essere attirata verso l’alto.

 

I chakra

I chakra (letteralmente «ruote») sono i «circuiti» dai quali l’energia cosmica viene captata e poi distribuita attraverso le nâdî.

Nâdî e chakra formano il sistema energetico che sostiene la vita. La «vera Materia» è dietro il riflesso di questa materia, il «vero fisico» è dietro il riflesso di questo fisico.

Nella «vera Materia», dove la vibrazione è pienamente cosciente di sé, nâdî e chakra sono un sistema d’energia cosciente, una pura coscienza d’amore che muove la vera Vita secondo le direttive più immediate dell’essere psichico.

In questa materia, i chakra esistono nella dimensione psicologica dell’uomo: sono, anzi, i punti dove l’attività psichica entra in contatto con l’attività fisica e agisce su di essa, o viceversa. Le nâdî sono i flussi dell’energia psichica. Nella dimensione fisiologica ciò che corrisponde ai chakra e alle nâdî è il sistema nervoso. I gangli spinali sono il corrispettivo dei chakra nel corpo. Gangli e nervi sono la concretizzazione del riflesso, per così dire. Cioè la concretizzazione della nostra vita psichica. Ma il vero Psichico resta dietro questa vita...

Possiamo parlare di «involucro psichico» inglobando in esso la nostra attività psichica conscia e inconscia nella sua più vasta comprensione, ma il vero essere psichico resta dietro questa attività.

In questa materia, nervi e gangli spinali sono un sistema d’energia incosciente, chiuso entro i muri di una prigione individuale. In questa prigione non c’è modo di vedere, non c’è possibilità di sentire le direttive dell’essere psichico che guida il cammino dello Yoga e della Vita, se non aprendo uno spiraglio, un foro verso la luce.

L’essere psichico è dietro la nostra vita e la sorregge, la indirizza in maniera sottile. Riuscire a sentirlo e riuscire ad abbandonarsi alla sua guida senza travisarne o obnubilarne le direttive rende più semplice il compito dello Yoga e della vita.

Incominciare a stimolare un chakra significa incominciare a scavare nei muri della prigione, creare un foro, un’apertura verso l’intimo.

Secondo la definizione di Aurobindo, l’essere psichico è «il sacerdote del Divino». Esso ci parla attraverso il centro del petto (anâhata-chakra): è qui che noi possiamo aprirci a lui.

Esso è lo Spirito Supremo che si adatta alla nostra individualità per guidarci e farci da Maestro, come Aurobindo ci insegna.

La vera sede dello spirito supremo è al di fuori della nostra testa, fuori dall’individualità.

È questo il duplice aspetto del Purusha, dell’Anima: personale e universale.

«In noi ci sono due centri del Purusha, l’Anima interiore attraverso cui ci tocca e risveglia il Purusha nel loto del cuore, (= anâhata-chakra) «che apre verso l’alto tutti i nostri poteri, e il Purusha nel loto dai mille petali (= sahasrâra-chakra) mediante cui i lampi della visione e il fuoco della divina energia discendono nel pensiero e nella volontà aprendoci la visione del terzo occhio (= âjnâ-chakra1.

I chakra sono i punti in cui idâ e pingalâ si incontrano e comunicano con la sushumnâ. Inoltre essi sono i punti in cui gli involucri dell’essere sono in contatto fra loro, delle vere e proprie porte attraverso le quali deve passare la coscienza per muoversi da un piano all’altro dell’esistenza.

Particolari punti del corpo (plessi, organi o ghiandole) hanno nei confronti dei gangli spinali (che corrispondono ai chakra principali) una funzione ricettiva e trasmittente, essendo fisiologicamente in diretto contatto con tali gangli.

Questi sono i punti del corpo sui quali ci si concentra al fine di stimolare i chakra. Sono i punti che, ad esempio, gli âsana, le posture fisiche dello hatha-yoga, tendono a stimolare, e i punti che il nâda-yoga, lo Yoga del suono, cerca di raggiungere tramite vibrazioni sonore.

Così, per ciò che concerne, ad esempio, lo svâdhisthâna-chakra, gli organi sessuali sono ciò su cui noi possiamo agire direttamente, con delle contrazioni: sono, per così dire, il punto nel quale possiamo esercitare un primo, rudimentale contatto con il chakra. Per fare un altro esempio, si dice che l’anâhata-chakra è il chakra del cuore, ma il cuore altro non è che l’unico punto del quale noi possiamo avere una percezione fisica, è la cosa che più abbiamo sottomano e che meglio ci possiamo raffigurare. Il centro di risonanza del chakra è il plesso cardiaco, pertanto ci si concentra sull’anâhata-chakra, ponendo l’attenzione non sul cuore fisico, ma concentrandosi nel centro del petto, dov’è collocato il plesso cardiaco. Tuttavia, il plesso non è ancora la sede fisica del chakra che è invece collocato nella colonna vertebrale. E la sede fisica non è ancora il chakra, è il suo riflesso nel corpo fisico, ma il chakra propriamente detto è nell’involucro psichico, all’interno della sushumnâ-nâdî.

Dalla corrispondenza gangliare dei chakra all’interno della colonna vertebrale fanno eccezione il chakra più basso e i due chakra della testa, dei quali, però, come vedremo, il sahasrâra non è un chakra vero e proprio.

I chakra corrispondono ai vari piani dell’essere e in essi si accentrano determinate energie psicofisiche.

Mûlâdhâra, svâdhisthâna, manipûra: presiedono alle energie praniche che nutrono le attività fisiche e gli impulsi sensoriali-emotivi. Tali attività sono le più strettamente elementari ed istintive per ciò che concerne il chakra più basso e si fanno progressivamente più sottili ed evolute salendo ai due chakra più alti: dall’attività alimentare che si genera nel mûlâdhâra, all’impulso sessuale che si genera nello svâdhisthâna, all’ira che fa capo al manipûra, per fare un esempio.

Anâhata: presiede alle energie praniche che nutrono le attività vitali. è il centro che comanda i desideri e le emozioni più complesse e sottili. è la porta che si può aprire sul vitale intimo attraverso cui ricevere le direttive del Maestro dello Yoga, l’essere psichico.

Vishuddhi, âjñâ: corrispondono al piano dell’esistenza mentale e presiedono alle energie praniche che nutrono le attività mentali. Dal più basso al più alto sono in correlazione con attività a carattere sempre più elevato.

Sahasrâra . È situato all’estremità della sushumnâ-nâdî nel corpo sottile. Non è propriamente un chakra, in realtà esso è il passaggio attraverso il quale la coscienza può salire alle vette dello Spirito Supremo la cui sede è situata al di fuori e al di sopra della testa. Attraverso questo passaggio la forza, la Shakti divina, può scendere nell’uomo risvegliando tutti i suoi piani d’essere fino alla materia, fino agli atomi del suo corpo.

Il fatto che i chakra siano il centro delle differenti operazioni psicologiche dell’uomo è assai importante. Ad esempio, gli squilibri nell’ordine delle attività emotive possono essere recuperati intervenendo sull’anâhata-chakra.

Un fluire armonico del prâna nella sushumnâ-nâdî e l’armonioso funzionamento di tutti i chakra, che lungo questo flusso sono collocati, significa un perfetto equilibrio psicologico dell’uomo. Questo è quanto può essere conseguito attraverso la pratica del prânâyâma. Blocchi, impurità, aritmie nella circolazione del flusso pranico, dal mûlâdhâra al sahasrâra, vengono rimossi dal prânâyâma a vantaggio di un corretto funzionamento dei chakra. Attraverso il prânâyâma il corpo grossolano si fa puro e armonico, capace di aprirsi all’intimo, diviene così possibile una maggior ricezione del prâna cosmico. L’uomo si fa in grado di attingere in più larga misura all’oceano infinito della Shakti pranica. Mentre si verifica un maggior assorbimento di ossigeno da parte del corpo fisico, contemporaneamente si produce un aumento pranico nel corpo psichico di cui l’uomo può usufruire per tutte le sue attività psicologiche. Come dice Svâmî Shivananda, «è attraverso il prânâyâma che potete controllare le vostre circostanze e il vostro carattere, e armonizzare coscientemente l’universale vita individuale con la vita cosmica».

Nella tavola 1 sono riportati i centri di risonanza dei chakra.

Nella tavola 2 potete vedere la disposizione dei chakra.

La tavola 2 è piuttosto insolita. Abitualmente, infatti, il percorso delle nâdî idâ e pingalâ è raffigurato internamente al corpo umano sia che questo percorso venga concepito come lineare ai lati della colonna vertebrale, sia, ed è il caso più frequente, che venga concepito a spirale.

La nostra tavola raffigura le nâdî uscenti dal corpo. Ci si perdoni quello che potrebbe sembrare un azzardo. Il fatto è che lo Yoga integrale è, in un certo senso, la tradizione che si fa futuro. È uno Yoga avveniristico, il che non significa una rivoluzione dello Yoga, al contrario, esso è una sintesi dell’antico sapere che, rispettandone pienamente i contenuti, li potenzia al punto da aprire un nuovo mondo in quello. Lo Yoga integrale è la nascita del futuro nel passato. Non assomiglia affatto a quelle novità che sorgono rompendo tutti i ponti alle loro spalle, è esattamente l’opposto di ciò. La sua forza, la sua grandezza, la nostra passione, non sarebbero tali se così non fosse.

Abbiamo cercato una figura che potesse interpretare questo futuro nascente da un passato pienamente rispettato e soprattutto tanto amato. In questa figura il percorso delle nâdî esce dal corpo fisico, perché l’involucro pranico dell’uomo, le sue energie elettriche e magnetiche, sono infinitamente più vaste dei suoi confini fisici.

Non solo, ma il corpo stesso perde i suoi limiti mentali. È un corpo cosciente di essere oltre il sapere mentale, una vita libera dai domini della mente.

Sotto il mûlâdhâra e sopra il sahasrâra sono stati disegnati altri centri di energia che vengono considerati nello Yoga integrale. Parlare di questi chakra ci porterebbe ben oltre i termini entro i quali abbiamo deciso di contenere il nostro discorso per ciò che concerne il breve spazio di questo libro.

Volevamo solo che il lettore sapesse che questi centri sono riconosciuti dallo Yoga integrale, perciò li abbiamo inclusi nella tavola.

Il lettore non penserà che le nâdî nascano e finiscano tra il mûlâdhâra e il sahasrâra. In realtà la loro sorgente e la loro foce sono ben più in là, là dove tutto diviene uno con l’infinito. Così, le linee punteggiate che rappresentano le nâdî si perdono nell’infinito, dopo aver toccato in basso il mûlâdhâra e in alto l’âjnâ-chakra. Ma lungo il loro percorso ci sono altri chakra, altri centri di energia. E quelli, fra questi, che lo Yoga integrale conosce noi li abbiamo segnati. Le zone dei chakra sono state marcate mediante la raffigurazione dei mandala, cioè dei simboli evocativi che la tradizione lega ai vari chakra.

 


 

UNA NUOVA ESPANSIONE

 

Il respiro circolare: prima fase

Il respiro circolare nasce dal sentire l’inalazione e l’esalazione come un unico processo ininterrotto. Quando il movimento della coscienza all’interno del corpo non sosta tra un atto respiratorio e il successivo, la separazione tra espirazione ed inspirazione scompare e il respiro diviene un moto circolare in grado di imbrigliare e unificare i moti del prâna vitale.

Il respiro circolare genera uno stato di calma e di forza che nasce da questo imbrigliamento del prâna vitale in un moto senza dispersioni. Tutti i flussi nei quali normalmente l’energia è mossa verso l’esterno vengono attratti in questo cerchio, convogliati in un movimento unico che tende a rivolgerci verso l’intimo.

Bisogna andare al di là della dimensione fisica del respiro e scoprire la sua «dimensione sottile».

È preferibile svelare il grande potere di gesti naturali quali il respiro, piuttosto che cercare chissà quali magici rimedi o tecniche segrete. Infatti non c’è niente che ci possa aiutare a progredire che non si celi dietro al nostro semplice respiro.

 

Postura: eseguite le respirazioni circolari sdraiati in shava-âsana, seduti, a occhi chiusi. Ricordate che una posizione seduta è sempre preferibile, poiché permette di mantenere a lungo la colonna vertebrale diritta e quindi, come abbiamo già visto, facilita il percorso dell’energia verso l’alto. Tuttavia, se non ci siete abituati, essa può procurare dopo breve tempo delle tensioni al corpo. Allora cambiatela, sdraiatevi. Nessuno vi impedisce di cambiare posizione durante l’esecuzione dello stesso esercizio. Certo, questo distoglie per un po’ l’attenzione, ma voi dovete stare comodi, dovete poter rilassare il corpo e abbandonare ogni tensione fisica.

Cercate di mantenere all’inizio il ritmo lento e profondo della respirazione yoghica completa, ma se anche questo dopo un po’ vi disturba, lasciate che il respiro si muova seguendo un ritmo spontaneo. Continuate a seguire il respiro.

Dovete sentire che il respiro si muove in maniera circolare dentro al corpo e cercare di visualizzarne il percorso.

In genere si sente l’energia salire lungo la parte anteriore del corpo. Potete farla arrivare alla gola, o fino alla sommità del capo; poi, senza interruzione, l’energia scende nella parte posteriore del corpo e, raggiunta l’altezza del mûlâdhâra-chakra, si riunisce al flusso ascendente. Se però, dopo un po’, il senso della rotazione si modifica, se l’energia prende a scendere davanti e a salire dietro, va bene ugualmente. Continuate.

Per aiutarvi a visualizzare il movimento potete colorarlo: esso può essere un ovale di luce bianca, rossa, gialla, come preferite. I colori solari sono certamente i più adatti.

Al movimento del respiro abbiniamo la ripetizione mentale del mantra SO ’HAM. Ripetiamo mentalmente SO quando il respiro sale. Le vibrazioni mentali della S salgono fino a metà percorso dell’inspirazione (fino all’altezza dello sterno), le vibrazioni della O compiono l’altra metà del percorso (dallo sterno fino alla gola, o fino alla sommità del capo).

Ripetiamo ’HAM quando il respiro scende. le vibrazioni mentali della ’HA scendono fino a metà percorso dell’espirazione, le vibrazioni della M compiono l’altra metà del percorso.

Non c’è interruzione fra SO e ’HAM: è il mantra dell’unione, il suo significato è «io sono Lui». SO e ’HAM sono uno.

Dal momento in cui abbandonate il ritmo completo della respirazione yoghica e lasciate il respiro fluire liberamente, potete continuare a visualizzare il cerchio e a ripetere il mantra quanto a lungo volete.

 

Ad un certo punto il respiro circolare, da sistema per il controllo dell’energia vitale diviene anche un processo di interiorizzazione (kriyâ). Progressivamente bisogna scivolare al di sotto dell’essere esteriore, ritrarsi dai suoi moti fisici, vitali e mentali, per ripiegare verso l’essere centrale (questo ritiro è chiamato pratyâhâra). Bisogna lasciarsi andare, lasciarsi cadere verso quel nucleo centrale che ci attira non appena cessiamo di stare aggrappati alla crosta esterna.

Questo nucleo è infinitamente più vasto dell’essere esteriore, eppure per trovarlo bisogna penetrare dentro ad esso in profondità, abbandonando quella presa, rappresentata dai sensi e dai pensieri, con la quale ci teniamo ancorati alla superficie per creare una formulazione personale, esteriore della vita. Bisogna rinunciare a questa presa e lasciarsi cadere.

Più ci si avvicina all’intimo e più dall’intimo sorge spontaneo un senso di gioia, quasi l’essere centrale ci venisse incontro in questa maniera.

E realmente egli si muove. Non appena incominciamo a cercarlo, egli ci cerca. Non appena noi lo cerchiamo dietro al respiro, egli ci cerca nel nostro respiro, secondo quell’infinito movimento della coscienza d’amore che è il divenire della vera Vita. In virtù di questo movimento si è tanto più coscienti quanto più si ama, perché proprio non vi è motivo di conoscere, non vi è motivo di evoluzione per la coscienza, se non l’amore. Non c’è altro modo di divenire coscienti della «dimensione sottile» del respiro che non sia amare l’intimo in noi.

La ricerca di questo amore è oltre la ricerca di qualunque segreto o rimedio, è la via adulta che supera i tentativi dell’età infantile.

 

Il respiro circolare: seconda fase

Dopo diversi minuti in cui si è restati concentrati sulla prima fase del «respiro circolare», comincia a subentrare un piacevole rilassamento.

Lasciamo che il respiro si faccia spontaneo e continuiamo a visualizzare il cerchio. Il rilassamento rende il respiro sempre più breve, leggero e superficiale.

Aiutiamo questa trasformazione del respiro con la nostra volontà: cerchiamo di renderlo più leggero possibile.

Quando il respiro si è fatto molto corto, cerchiamo di concentrarlo all’interno del torace, in un’area sempre più ristretta.

Alla fine la nostra concentrazione mantiene la sensazione del respiro unicamente al centro del petto, in corrispondenza della zona di risonanza dell’anâhâta-chakra.

Per tutto questo tempo non abbiamo mai perso il senso di circolarità del respiro. E adesso ci sembra che il respiro sia come una piccola pallina che ruota su se stessa al centro del petto.

Pratichiamo il rilassamento interiore che abbiamo già avuto modo di imparare (vedi p. 36), e contemporaneamente continuiamo a percepire il respiro, a visualizzarlo e a ripetere mentalmente il mantra SO ’HAM che adesso è leggero e veloce come il respiro: SO durante l’inspirazione, ’HAM durante l’espirazione.

Presto ci accorgiamo che la concentrazione non è più necessaria per dare al respiro un’immagine di circolarità. È come se avessimo impresso la spinta iniziale alla pallina e adesso essa continuasse a girare per suo conto.

Allora poniamoci al di fuori del respiro stesso. Come abbiamo fatto con i suoni esterni e con i pensieri, facciamo anche con il respiro. Lo guardiamo senza identificarci, testimoni della vita che si muove in noi e non ci coinvolge. SO ’HAM, io sono Lui, è il mantra che riempie la mente.

Dietro il movimento del respiro, attraverso l’anâhâta-chakra, l’essere intimo inizia ad entrare nella nostra individualità, nel silenzio e nella quiete della nostra individualità. E anche se apparentemente non succede niente (niente di simile succede mai all’apparenza, ma solo nella realtà), l’intimo in noi acquista forza.

Cerchiamo di amare ciò che sta dietro al nostro respiro.

Sentiamo che questa pallina che ruota su se stessa è la nostra vita con tutta la sua agitazione, i suoi pensieri, le sue domande, le sue paure, le sue impossibilità.

Affidiamo questa pallina al nostro essere psichico affinché la illumini e la elevi.

Bisogna essere molto rilassati per ridurre il pensiero ad una pallina che gira al centro del petto. Le prime volte sarà forse necessario un notevole aiuto dell’immaginazione, poi diverrà sempre più facile, finché vi basterà volerlo e rilassarvi per sentirlo distintamente.

Se all’inizio non riuscite a creare l’impressione del moto circolare, non importa. Qualsiasi movimento vi sembra che abbia il vostro respiro, affidatelo all’essere psichico, fatevi da parte e affidate a lui il controllo. Egli, come ci insegna Shrî Aurobindo, è il Maestro dello Yoga e della vita.

Questa concentrazione, questa aspirazione verso l’intimo, apre progressivamente, dapprima in maniera del tutto impercettibile dalla coscienza ordinaria, l’anâhata-chakra. E impercettibilmente, molte cose cambieranno, fino al giorno in cui tutto sarà un po’ più evidente, sempre più evidente. Mentre le grandi cose avvengono non le si nota quasi mai, poiché le cose veramente grandi hanno sempre l’aspetto di cose di poco conto in superficie.

Avere fede nel nostro essere intimo, amarlo e abbandonarsi a lui, significa sottrarsi alla presunzione della mente che ci agita nel tentativo di trovare dei perché e delle soluzioni da essa inafferrabili. Non è un allontanarsi dalla vita, ma un cercare la vera Vita in questa vita e in questo corpo.

Se avremo il coraggio di sollevarci al di spora di tutti i problemi mentali per assumerci questo compito di ricerca, uno dopo l’altro, mentre l’essere psichico acquista forza e potere dentro di noi, tali problemi si dissolveranno, come si dissolve la notte al sopraggiungere del sole.

Rimanendo entro i limiti dell’io, chiusi nelle impossibilità del nostro essere esteriore, possiamo solo cambiare nome e aspetto ai piccoli problemi: perché darci tanta pena?

Questo compito di trasformazione è assai difficile perché si tratta di levarsi il velo di una mentalità che è nata con noi e si è rinforzata in ogni momento della nostra vita. Si tratta di ripulirsi da tutte le abitudini mentali e fisiche, non per assumerne altre, ma per restare liberi.

Tuttavia è solo questo che va fatto realmente, perché tutto il resto verrà fatto di conseguenza dal nostro essere intimo.

Nell’essere esteriore, in questo io, bisogna trovare il coraggio di iniziare. Iniziare per la mente significa riconoscere la propria impossibilità di azione reale e farsi da parte. Questo non significa diminuire l’impegno che ci è richiesto personalmente, ma, semplicemente, sarebbe assurdo pensare di attuare una simile trasformazione con le nostre sole forze, è l’essere intimo che se ne sobbarca il compito, se gli diamo la possibilità di farlo.

Non c’è proprio niente che non possa essere risolto o fatto dall’essere intimo risvegliato alla vita. Perciò, ogni volta che rischiamo di farci trascinare nell’agitazione della mente, ricordiamoci della pallina e diamola a lui.

«A Te, a Te, a Te», diceva la Madre.

La mente rinuncia progressivamente al proprio dominio se continuiamo a darle sfiducia e rinunciamo a pensare, rifiutiamo di farci prendere ed agitare inutilmente in mille modi. Chiaramente questo richiede tempo. Bisogna lavorare molto su noi stessi. È proprio nei momenti più difficili che ci sembra indispensabile pensare. Invece, è soprattutto in questi momenti che bisogna che la decisione venga presa oltre la mente. La difficoltà di ciò sta nel fatto che questo «oltre la mente» è percepibile a fatica dal piano fisico nel quale viviamo prevalentemente. Confondiamo ciò che ci appare concreto con ciò che è reale e, specie nei momenti difficili, ricorriamo a ciò che abbiamo più a portata di mano, invece di espanderci ci limitiamo al minimo delle nostre qualità.

La paura ci spinge a rinunciare alle doti di volontà, di fede, di amore, delle quali l’intelligenza si impregna nei suoi momenti migliori. E più diventiamo piccoli più diviene grande l’angoscia.

«A Te, A Te, a Te»: è l’unica cosa da fare, è tutto ciò che bisogna saper fare. Allora si può fare tutto: si può essere super attivi nella vita e agire nel mondo con l’energia di molti uomini in uno. L’agitazione è solo esteriore, non ci tocca e non ci consuma. Come si può consumare o dare pena all’essere psichico che esiste nell’energia infinità?

L’essere psichico è il soggetto che va fatto agire nella vita quotidiana così come nella ricerca della vita divina. Persino cercare il Signore con l’essere esteriore, significa cercarlo per se stessi e non trovarlo mai veramente. Soprattutto bisogna abbandonarsi all’intimo in noi. Cercare l’identità con esso, lasciando quella con l’essere esteriore.

 

Quanto a lungo restare concentrati sul respiro?

Spesso ci si chiede quanto a lungo debbano durare gli spazi di concentrazione e di rilassamento quali quello del «respiro circolare».

Da questi spazi si deve uscire non solo rilassati ma con un senso di gioia che è la vera «terapia». L’insoddisfazione cronica, non il consumo delle energie, è il problema. Se non ci fosse questa insoddisfazione, questa tristezza che sempre ci accompagna, l’energia entrerebbe a fiumi nel corpo e nella mente.

Ci sono molti modi e metodi per rilassarsi, ma la fatica non è il vero problema.

Per raggiungere la gioia, l’intelligenza ha bisogno di doti che generalmente vengono considerate straordinarie e nel processo di crescita di un individuo sono dimenticate allo stadio infantile. Queste doti sono: l’ingenuità, la fede, l’amore, l’umiltà, la capacità di abbandono.

Tutto diviene estremamente più facile quando si può riconoscere di aver bisogno di uno sviluppo globale, di riprendere maturazioni interrotte, di assimilare intuizioni trascurate.

La presunzione della mente rende difficile il compito e, addirittura, ci fa credere che per il nostro vicino orientale la cosa sia più facile che per noi. Questa è una delle colossali menzogne che sostengono la nostra ignoranza. È un chiudere ciò che è già chiuso, un rimpicciolire ciò che è già piccolissimo, un limitare ciò che è già impossibile.

Lo sviluppo è un ampliamento di ciò in cui ci si può identificare. Come tutte le divisioni, anche quella tra Occidente ed Oriente appartiene a una visione puerile di noi stessi.

Decisamente, se possiamo accettare di aver bisogno di uno sviluppo globale, tutto diviene estremamente più facile. Gli spazi di concentrazione e di rilassamento quali quello del «respiro circolare» devono rispettare i tempi della nostra crescita e adattarsi ad essa. All’inizio sono brevi, ma quando la gioia si fa anche solo sentire da lontano, essi incominciano ad allungarsi e, alla fine, divengono indiscindibili da qualsiasi momento della vita.

Allora, qualunque cosa faremo per rilassarci, dal coltivare i fiori al bere una birra, sarà veramente una pausa dall’insoddisfazione cronica. Alla fine, persino il fare qualcosa per rilassarci sarà indifferente, perché tutto sarà quella pausa.

Bisogna accettare di lasciarsi trasformare dal maestro che è in noi. E poiché la vita non è fatta di momenti ben separati tra loro, bisogna lasciare che tutta la vita si trasformi piano piano. Per questo ci vuole una grande umiltà: veramente lasciar fare è la cosa più difficile.

Sdraiamoci.

Rilassiamoci dal corpo. Respirando profondamente, ad ogni espirazione abbandoniamo il corpo sul pavimento, fino a perdere l’identità con esso e lasciarlo molle e immobile.

Poi, rilassiamoci dalla mente, osservandone l’agitazione e prendendo le distanze da essa.

Infine, rilassiamoci dalla vita, respirando superficialmente e prendendo le distanze dal respiro. Questa non è ancora la gioia.

Identifichiamoci con l’essere centrale e sorridiamo accondiscendenti a tutti i movimenti della vita; noi siamo questa energia senza fine. Quali paure, quali problemi, quali insoddisfazioni potremmo mai avere?

Questa è una gioia immensa.

Se oggi riusciamo a stabilire l’identità con l’intimo per un solo istante, possiamo stare certi che un domani essa diverrà definitiva. Nessuno sa quando sarà questo domani, ma ripuliti dalla crosta di tutte le nostre certezze, solo questa dobbiamo conservare. Un giorno di questa esistenza, questo corpo, questa mente, questa vita sapranno di essere Lui e, riconosciuta la loro vera identità, la diverranno.

Ci sembra di vedere la madre parlare:

«È la certezza assoluta [la Madre chiude i pugni] che non c’è che una porta di uscita da tutto ciò, una sola, una sola, non ce ne sono due, non esiste una scelta, non ci sono diverse possibilità, c’è solo questa: è la Porta suprema. La Meraviglia delle Meraviglie. Tutto il resto… non è possibile.»

Questa certezza è, come tutto lo Yoga, un’esperienza; o la si fa, o non la si fa. Pensarla o crederci non ha valore, non è importante, non ha senso credere in una certezza.

 

Uddiyâna-bandha

Bandha significa unire, legare, afferrare e si riferisce, nello hatha-yoga, ad una contrazione del corpo a seguito della quale gli organi interni vengono serrati, mossi e, quindi, stimolati. Uddiyâna significa «spostarsi verso l’alto». Uddiyâna-bandha è il movimento, la contrazione e l’elevazione degli organi addominali.

Per imparare questo movimento la posizione consigliata è in piedi con le gambe un po’ divaricate e le ginocchia leggermente piegate. Le mani sono aperte e appoggiate sulle cosce a metà altezza tra le ginocchia e il bacino (fig. 7). Tale posizione facilita l’esecuzione del movimento dell’addome.

Uddiyâna-bandha, all’inizio, si esegue in ritenzione esterna del respiro, poiché a polmoni vuoti è più facile contrarre il corpo.

Inaliamo ed esaliamo lentamente e profondamente con una respirazione yoghica completa.

A polmoni vuoti tratteniamo il respiro.

Portiamo all’indietro, verso la colonna vertebrale, e contemporaneamente spostiamo verso l’alto, tutta la regione addominale.

Manteniamo lo spostamento dell’addome per quanto a lungo riusciamo a trattenere il respiro a polmoni vuoti senza fare fatica, quindi…

Prima rilassiamo l’addome riportandolo in posizione normale.

Alla fine inspiriamo.

Continuiamo così, sempre inalando ed esalando lentamente e profondamente ed eseguendo lo spostamento dell’addome in ogni pausa del respiro a polmoni vuoti.

All’inizio limitiamoci a una decina di esecuzioni consecutive.

 

Benefici. Luddiyâna-bandha stimola e tonifica tutti gli organi addominali. Cura la stitichezza e accresce il fuoco gastrico. Inoltre, il diaframma che si muove verso l’alto massaggia il cuore. Ad un livello pranico, l’uddiyâna-bandha spinge l’energia nervosa verso l’alto.

L’uddiyâna-bandha è davvero una pratica fondamentale nel prânâyâma. Una volta che si sia appreso bene ad eseguirla nella posizione qui sopra indicata, essa può venire applicata a diverse respirazioni controllate. Noi la ritroveremo più avanti nel «tridente».

Con la pratica dell’uddiyâna-bandha il centro di risonanza del manipûra-chakra, il plesso solare, viene stimolato. L’energia che entra in questo chakra, ancora legato al piano dell’esistenza fisica, viene spinta verso l’alto e quindi messa a disposizione delle operazioni mentali più sottili.

Praticate l’uddiyâna-bandha per circa cinque minuti. Fate attenzione a non irrigidirvi quando muovete l’addome. Soprattutto controllate che restino rilassati i muscoli del viso e le dita delle mani.

 

Jâlandhara-bandha

Jâla significa rete. Jâlandhara-bandha agisce potentemente sulla rete delle nâdî.

Dopo l’uddiyâna-bandha, il jâlandhara-bandha è la seconda contrazione che esaminiamo. Le contrazioni sono momenti fondamentali nel prânâyâma anche perché hanno il compito di impedire le dispersioni del prâna durante le respirazioni e di veicolarlo nella maniera più giusta.

Il jâlandhara-bandha è la contrazione della gola. Tale contrazione preme, a livello della gola, i canali idâ e pingalâ, costringendo il prâna a passare entro la sushumnâ-nâdî e ne regola il flusso verso i centri alti: l’anâhata-chakra e i chakra del cervello.

 

Posizione seduta.

Contrarre totalmente la glottide in modo da chiudere completamente i passaggi dell’aria. Dovete ottenere lo stesso effetto che si produce nella gola quando si deglutisce.

Abbassare la testa e appoggiare il mento contro il petto. Per eseguire questa fase non bisogna incurvare le spalle, anzi si devono far rientrare le scapole e quindi le spalle devono essere spinte leggermente all’indietro. Portare il mento al petto comporta uno stiramento dei muscoli del collo. Più sono elastici tali muscoli e più il mento scende verso il petto. Per migliorare l’elasticità dei muscoli del collo e delle vertebre cervicali lo hatha-yoga consiglia di eseguire la postura detta sarvângâsana o «posizione sulle spalle» (fig. 8).

Potete anche fare il seguente esercizio. Sedetevi con le gambe distese in avanti e la schiena diritta. Reclinate il capo in avanti e premete con le mani sulla testa in modo da avvicinare il più possibile il mento al petto (fig. 9). Mantenendo salda la pressione delle mani, lasciatevi cadere all’indietro finché vi trovate completamente distesi. A questo punto allontanate le mani dalla testa, riportatevi seduti e ripetete. eseguite più volte e, al termine, fate delle rotazioni del capo in maniera lenta e stando attenti a mantenere immobili le spalle.

Eseguite il jâlandhara-bandha durante la ritenzione interna, al termine di un’inalazione completa.

Quando si pratica la ritenzione interna prolungata sdraiati in shavâsana si usa il jâlandhara-bandha limitatamente alla prima fase dello stesso: si contrae la glottide e si chiudono i passaggi dell’aria senza muovere il collo. Ciò può essere fatto anche durante ritenzioni interne di breve durata, in questo caso non c’è il tempo di eseguire completamente il bandha.

Il jâlandhara-bandha agisce sulle ghiandole endocrine della gola (tiroide e paratiroide) e stimola il plesso faringeo. Questa azione è di estrema importanza per l’organismo.

Tuttavia, per gli stessi motivi, gli ipertiroidei dovranno astenersi da tale pratica.

Al livello pranico, il jâlandhara-bandha agisce sul vishuddhi-chakra.

Praticate il jâlandhara-bandha, inserendolo, insieme alla ritenzione interna, nelle respirazioni yoghiche complete, per circa cinque minuti. Non irrigiditevi: quando contraete la gola controllate che viso, spalle, braccia e mani restino rilassate.

 

Mûla-bandha

Mûla significa radice, base, origine. Mûla-bandha agisce infatti in quella zona del corpo ove hanno origine i flussi principali del prâna, alla radice della sushumnâ-nâdî. Questa è la zona del corpo ove risiede addormentata la Kundalinî che, infatti, viene raffigurata come un serpente avvolto intorno alla base della sushumnâ, la quale, lo ricordiamo, nel corpo fisico è rappresentata dalla colonna vertebrale.

Mûla-bandha ha numerose ed importanti funzioni. Per quanto riguarda i suoi effetti igienici, questo bandha rende forte ed elastica la muscolatura nell’area perineale e nell’area addominale inferiore e migliora la circolazione del sangue in queste zone. I suoi effetti vanno a beneficio dell’apparato escretore e di quello genitale.

L’irrobustimento della muscolatura nell’area inferiore dell’addome dà un migliore sostegno agli organi addominali. Per quanto concerne la funzione del mûla-bandha sul sistema nervoso e sull’energia pranica, è da notare che, durante questa pratica, il plesso sacrale viene stimolato. Ciò si ripercuote, a livello sottile, in una stimolazione parallela del sistema delle nâdî e dei due chakra inferiori: mûlâdhâra e svâdhisthâna.

Il mûla-bandha, eseguito durante la ritenzione interna del respiro, «sigilla» l’energia all’interno del corpo e la sospinge verso l’alto all’interno della sushumnâ-nâdî.

Il mûla-bandha si effettua unendo simultaneamente la pratica di due mudrâ. La parola mudrâ significa «sigillo» e, in questo caso, si riferisce alla chiusura di aperture del corpo allo scopo di sigillare, appunto, l’energia all’interno del corpo stesso. Altrove la parola mudrâ indica gesti simbolici eseguiti con le mani. Queste mudrâ delle mani vengono impiegate nelle danze tradizionali indiane e sono assai numerose e complesse.

Le mudrâ che intervengono nella pratica del mûla-bandha sono ashvinî-mudrâ e vajrolî-mudrâ.

Ashvinî-mudrâ è la contrazione dello sfintere anale. Vajrolî-mudrâ è la contrazione degli organi sessuali e della parte bassa dell’addome.

Ashvinî-mudrâ è una pratica considerata preparatoria al mûla-bandha. Vajrolî-mudrâ, invece, generalmente non viene citata in riferimento al mûla-bandha, ma è una pratica utilizzata soprattutto nei processi che tendono alla trasformazione dell’energia sessuale in un’energia più sottile e indirizzata verso i centri alti che presiedono alle attività mentali. Comunque, questa stessa funzione è da attribuirsi pure al mûla-bandha.

Per praticare il mûla-bandha dobbiamo contrarre lo sfintere anale e contemporaneamente gli organi sessuali e la parte inferiore dell’addome. Il basso ventre va spinto all’indietro verso l’osso sacro e mosso anche verso l’alto.

Attenzione: è solo la parte bassa dell’addome che viene mossa nel mûla-bandha, e non tutto l’addome come nell’uddiyâna-bandha.

 

Praticate il mûla-bandha dapprima da solo, durante le ritenzioni interne nella respirazione yoghica completa, per circa cinque minuti. In seguito potrete, sempre durante le ritenzioni interne, praticare il mûla-bandha insieme al jâlandhara-bandha, simultaneamente.

Le contrazioni vanno eseguite, mantenute e sciolte durante la ritenzione del respiro, quindi dovete avere già completato l’inspirazione quando incominciate a farle e non dovete iniziare l’espirazione prima di averle completamente sciolte. La calma, la concentrazione sui muscoli che eseguono le contrazioni sono fondamentali per una buona riuscita. Dovete essere lì dove le contrazioni si effettuano e dentro di voi deve esserci un silenzio tale da permettervi di percepire l’energia salire lungo i nervi.

Poi dovete essere con il vostro respiro che, lento e profondo, vi prepara ad una nuova contrazione.

Dovete esserci perché questo è l’inizio di un’avventura da non perdere. Un giorno avrete imparato a sentire gli impulsi nervosi che si trasmettono nel corpo, che vi trasmettono le sensazioni della vita, allora sentirete dove nasce, per esempio, la collera, intendo il punto esatto del corpo dove la collera entra, e potrete rifiutare, deviare, trasformare l’impulso, oppure viverlo ed esaurirlo, qualunque impulso: lo sentirete e potrete scegliere.

Sentire, essere consapevoli, essere svegli, esserci, insomma... di qualunque cosa si tratti.

 

Ujjâyî-prânâyâma

La parola ujjâyî è composta dal prefisso ud che significa elevarsi (l’abbiamo già trovato in uddiyâna-bandha) e da aya che era, nell’India antica, una forma di saluto.

Ujjâyî è un saluto ad alta voce. Questo si riferisce al fatto che ujjâyî è un prânâyâma che produce un certo suono.

Questo suono è dato dalla contrazione parziale della glottide che frena il passaggio dell’aria attraverso la gola.

Prima di eseguire questo prânâyâma dovete imparare a produrre questo suono. Non è affatto difficile, fate alcuni tentativi. Dovete contrarre leggermente i muscoli della gola, in modo da restringere i condotti dell’aria. è la stessa tecnica che abbiamo già visto nel jâlandara-bandha, solo che adesso la contrazione è parziale e la gola non è completamente chiusa.

Dovete sentire il suono nella gola e non nel naso, fate attenzione perché, le prime volte, molti si confondono a questo proposito. Noterete che il restringimento dei condotti dell’aria permette di controllare e di rallentare il respiro con più facilità. Il controllo del respiro produce, a sua volta, un controllo del flusso pranico. Pensate ad un giardiniere che sta annaffiando delle siepi con una canna. Per allungare il getto dell’acqua e dirigerlo sulle siepi gli basta restringere con un dito l’estremità della canna da dove esce l’acqua.

Il suono di ujjâyî è usato in molte tecniche (prânâyâma o kriyâ) che hanno lo scopo preciso di controllare il flusso del prâna. Con queste tecniche (e ujjâyî-prânâyâma è una di esse, anzi è la base di tutte) il moto dell’energia viene reso calmo, ordinato, armonico. In seguito a ciò esso può venire guidato dalla concentrazione della mente e diretto verso i più svariati obbiettivi all’interno o all’esterno del corpo.

Con le kriyâ, ad esempio, esso viene diretto verso le regioni di risonanza dei chakra al fine di stimolare i chakra stessi. Il controllo del prâna agisce potentemente sul comportamento e, quindi, sulle circostanze della vita. Senza correre troppo, fin dall’inizio noterete che il semplice porsi in ascolto del suono del proprio respiro ha sulla mente un prezioso effetto calmante.

Ujjâyî-prânâyâma è talmente piacevole e semplice da poter essere praticato in qualsiasi momento, persino camminando o correndo. Per impararlo adottiamo la posizione di shavâsana oppure una delle posizioni sedute.

Prima fase: inspirazione completa a velocità spontane

Svuotiamo bene i polmoni, poi incominciamo con un’inspirazione profonda e completa ma eseguita a velocità spontanea, non rallentata. Facciamo partire l’inspirazione dalla zona pelvica e facciamola salire fino alle spalle in maniera continua, ma senza rallentare la velocità spontanea del respiro. Il tempo impiegato per questa inalazione è maggiore rispetto al tempo occorrente per inalare durante un respiro non controllato, questo, ovviamente, perché l’inspirazione è più completa e profonda di quanto avviene in condizioni automatiche.

fate attenzione: il fatto che non dovete rallentare la velocità del respiro non deve andare a scapito della sua completezza.

 

Seconda fase: kumbhaka a polmoni pieni di durata variabile

Al termine dell’inalazione tratteniamo il respiro. La durata di questa ritenzione varia secondo lo scopo che avete nell’eseguire la respirazione e secondo le condizioni in cui vi trovate. Se avete l’unico scopo di rilassarvi è bene restare in ritenzione per pochi istanti, anche un solo secondo, quanto basta per instaurare un piccolo stacco tra l’inspirazione e l’espirazione. Lo stesso vale se state facendo qualcosa e non siete intenti solo a respirare. (Per esempio, se state camminando, se siete alla guida dell’auto, o se state lavorando). Se invece volete aggiungere agli effetti della respirazione completa tutti i benefici della ritenzione a polmoni pieni, potete prolungare il tempo della ritenzione stessa, senza però arrivare mai allo sforzo.

 

Terza fase: espirazione completa e rallentata

Al termine della ritenzione, svuotiamoci con un movimento inverso a quello dell’inalazione; espiriamo a partire dalle spalle e scendiamo fino alla zona pelvica. Diversamente da quanto abbiamo fatto per l’inalazione, l’esalazione deve essere rallentata. L’esalazione deve durare almeno il doppio del tempo impiegato per l’inalazione.

Non vi è alcuna ritenzione del respiro al termine dell’esalazione.

 

Ujjâyî-prânâyâma, praticato per cinque, dieci minuti di seguito o più, calma la mente e dona un senso di tranquillità a tutto l’essere. Potete praticarlo prima dei bandha per trovare la concentrazione necessaria all’ascolto e alla perfetta esecuzione delle contrazioni, oppure dopo i bandha, per riposare e favorire l’armonia e l’ascesa dell’energia pranica.

 

Il rilassamento (III)

Per aumentare la concentrazione della mente e l’effetto rilassante della respirazione ujjâyî, potete colorare con l’immaginazione il respiro.

Sdraiati in shavâsana, o seduti in una delle posture meditative dello hatha-yoga, scegliete un colore intenso: il rosso corallo, il verde smeraldo, o il blu, per esempio.

Quando inalate, visualizzate il colore entrare in tutto il corpo e sentitelo portare dentro di voi energie nuove e positive.

Durante la ritenzione interna dell’ujjâyî, ogni cellula del vostro corpo assorbe questo colore e queste energie.

Quando espirate, il colore esce dal corpo attraverso tutti i pori della pelle, portando fuori di voi le tensioni e la negatività.

Ma apritevi anche, nell’espirazione, al vostro intimo che è ovunque, sostenuto dall’infinita Shakti pranica, ed è, al pari di questa, dentro e fuori di voi.

Dare il soffio personale alla forza della Shakti pranica è la sola via che porta la Shakti ad entrare in noi.

Si espira un limite e si inspira una possibilità. Si espira un po’ di identità con l’essere esteriore: ci si rifiuta di continuare a fare nostra la sua tensione. Si inspira un soffio di Vita vera, fermi e sicuri, per alcuni istanti immobili e silenti: ciò che succederà dopo si vedrà, adesso, in questi istanti, è così. Mai farsi domande su ciò che avverrà dopo nello Yoga, quando si fa lo Yoga. Mai giudicare quanto grande o piccolo possa essere il cambiamento di mentalità che si deve fare, né pensare a cosa questo porti, o dove noi si voglia arrivare. Non sappiamo neppure dove possiamo arrivare in realtà. Agire adesso è l’unica cosa che conta. Nello Yoga l’azione immediata è superiore a qualunque altra cosa. Adesso io sono qui e posso espirare me ed inspirare Lui. Perciò è assurdo che io giudichi o pensi qualcosa che Lui non pensa e non giudica. Oggi lo faccio perché è bello, domani, certo, avrò un altro motivo. Perché preoccuparmi oggi dei motivi di domani? La mente autocontraddice sempre domani i propri motivi di oggi. Per questo espiro.

Agire è l’unico modo per pensare di meno. L’azione continua oltre la mente fisica e oltre la mente pensante, sotto più alte guide. Agire da animali o da uomini non è l’unica scelta.

 

Il rilassamento (IV)

Sdraiati in shavâsana, respirate profondamente producendo nella gola il suono dell’ujjâyî. Saltate la fase della ritenzione del respiro e neppure preoccupatevi di rendere l’espirazione più lenta dell’inspirazione. Il respiro è solo un po’ più profondo rispetto al suo movimento automatico ed è accompagnato dal suono nella gola, leggero e prodotto senza alcuna fatica.

Restate immobili.

Inspirando, visualizzate un colore entrare nel corpo e portatelo al centro del petto.

Espirando, dal centro del petto, dirigete questo colore lungo il braccio destro, fino all’estremità della mano, sciogliendo tutte le tensioni del braccio e della mano.

Fate ciò per tre/cinque respiri consecutivi.

Quindi, per altri tre/cinque respiri, riferite la stessa immaginazione al braccio e alla mano sinistra.

Poi passate alla gamba e al piede destro.

Quindi alla gamba e al piede sinistro.

Poi ai glutei, alla schiena, alle spalle, all'addome.

Visualizzate il colore entrare anche negli organi addominali e rilassarli in profondità.

Portate quindi l'immaginazione sul torace e i suoi organi interni, sulla gola e l’interno della gola.

Quindi sul collo, la nuca, la sommità del capo, tutto il viso, infine il cervello.

Soffermatevi su ogni parte del corpo per tre/cinque respiri.

Poi lasciate fluire il respiro e cessate di produrre il suono nella gola.

Portate ora l’attenzione alla superficie di contatto tra il corpo e il pavimento. Sentite il corpo esercitare una pressione sul pavimento. Create una sensazione di pesantezza del corpo. Il corpo è tanto pesante che quasi pare dover sprofondare nel pavimento.

Dopo breve tempo immaginate che il corpo sia sostenuto da una grande massa d’acqua. Siete adagiati sulle acque di un oceano. Vi sentite cullare dal movimento delle onde, mentre il sole riscalda tutto il vostro corpo.

State molto bene. Lasciatevi andare. Visualizzate il vostro corpo disteso sull’acqua mentre inizia ad espandersi. Sentitelo dilatarsi in tutte le direzioni.

Vi state espandendo sempre di più e, contemporaneamente, divenite sottili, sempre più inconsistenti.

Vi state diluendo nell’acqua dell’oceano.

Toccate tutte le sponde dell’oceano e non vi è quasi più traccia del vostro corpo.

Adesso voi e l’oceano siete uno. La vostra mente è immobile. L’acqua non ha pensieri. Tutto il vostro essere è animato da un soffio che pervade di sé l’universo e che produce in voi il movimento delle onde.

Restate qualche istante in questa condizione e divenite consapevoli del silenzio, della pace e anche del benessere fisico che la accompagnano.

Ritornate al vostro corpo sdraiato sul pavimento. Sentitelo in tutta la sua completezza; immobile e pesante come una statua di marmo.

Riaprite gli occhi e lentamente riprendetevi.

 

Il rilassamento (V)

L’immaginazione è uno strumento assai utile ai fini del rilassamento, e non solo.

Con il suo aiuto possiamo sostituire al colore un suono, o una musica.

Possiamo ascoltare una musica, ovviamente rilassante, e immaginare le sue vibrazioni entrare e diffondersi nel corpo proprio come abbiamo fatto con il colore. Assorbiamo la musica attraverso tutti i pori della pelle e portiamola fino all’interno degli organi.

Allo stesso modo possiamo servirci delle vibrazioni mentali di un mantra.

Prima ripetiamo alcune volte un bîja-mantra ad alta voce, con la stessa tecnica adottata per il «canto di OM», così da renderci conto delle sue vibrazioni.

Poi, sdraiati in shavâsana, continuiamo a ripetere il mantra mentalmente, senza fare più caso al respiro.

Concentriamoci sulle varie parti del corpo, seguendo lo schema del rilassamento I o II. In ogni parte del corpo sentiamo più volte le vibrazioni del mantra come una sottilissima corrente. Percepiamo il corpo abbandonarsi sotto l’effetto di queste vibrazioni.

 

Il rilassamento (VI)

Al rilassamento del corpo e al rilassamento interiore può essere fatta seguire qualsiasi immaginazione che generi un senso di espansione dell’essere. La volontà di abbandono all’intimo resta fondamentale; essa porta con sé la capacità di perdersi completamente senza alcuna resistenza, senza tensioni che trattengano. Non ci sono tensioni nell’intimo, ma solo nell’essere esteriore.

Espandersi nell’intimo con l’aiuto dell’immaginazione è sempre un superare gli stretti confini dell’individualità. Perciò possiamo immaginare che il nostro corpo si trasformi in un uccello che vola, in un fiume che scorre, in un deserto, nella neve, in un albero, in ciò che vogliamo.

Ogni volta l’identificazione deve essere profonda.

Se immagino un albero devo essere l’albero. La mia mente è immobile, priva di pensieri, anche il mio corpo è immobile. Eppure, dentro di me c’è una vita che scorre senza posa: il movimento di una linfa bianca e pura. Resto in ascolto di questo movimento della vita. Ho molti e molti anni da vivere. Immagino l’alternarsi delle stagioni e sento il mio tronco immobile sotto la pioggia, il vento, il sole, la neve...

Immagino la montagna e divento la montagna.

Immagino lo spazio cosmico e divento lo spazio cosmico.

Immagino una farfalla, o un topolino, e lo divento.

Posso espandermi anche nel tempo.

Se mi unisco all’intimo dove non c’è la dimensione temporale, posso lasciare che il tempo del mio essere esteriore scorra dinnanzi all’occhio dell’immaginazione.

La mente è passiva, abbandonata, solo una volontà di ricordare o di anticipare qualcosa. Senza alcuno sforzo da parte mia, cominciano ad arrivare ricordi del passato, o anche immagini di sogni passati, oppure immaginazioni di qualche cosa che mi aspetto possa accadere in futuro. Tutto nasce spontaneo, nasce da sé e s’impone alla mia attenzione. Io osservo. Ma niente mi coinvolge, tutto resta lontano, in superficie.

Quante cose potremmo dire adesso!

Potremmo parlare di come ricordare i sogni del passato aiuti i sogni a venire… quanto sia importante allenare l’immaginazione ai fini comportamentali… quanto divenga più bella una musica ascoltata in una certa maniera… quanto tutto ciò accresca la nostra sensibilità.

Ma cerchiamo l’intimo, e tutto ciò non è l’intimo, è solo un modo diverso di essere sempre noi stessi.

Per quanto ci sembrino diverse le cose lungo il cammino, noi restiamo sempre uguali fino alla meta, perciò, se ci fermiamo per strada, tutto ciò da cui pensavamo di essere guariti ci ripiomba addosso. Ciò che ci faceva stare bene ieri, oggi non serve più. Abbiamo bisogno di altro. Consideriamolo uno stimolo a proseguire. Spesso si cambia strada; si passa di rimedio in rimedio, di cura in cura, da un tentativo all’altro. La musica che ci rilassava ieri oggi è noiosa, allora cambiamo musica, finché anche questa ci annoia. Alla fine persino stare sdraiati ci innervosisce, anziché rilassarci. Se la nostra meta sinceramente è l’intimo, non c’è modo di fermarci. Tutto il resto arriva, e non lo buttiamo via… semplicemente proseguiamo.

Cosa importa da dove siamo partiti? Alcuni partono con grandi intenti e vogliono fare meditazione. Dopo un po’, mesi o anni, si fermano, perché non erano sinceri con se stessi riguardo a ciò che cercavano. Alcuni partono senza uno scopo preciso, forse hanno solo bisogno di rilassarsi un po’, forse sono solo un po’ curiosi. Costoro possono incontrare qualunque scopo. Tutto, poi, dipende da quanto uno è prevenuto.

Ovviamente, per andare avanti bisogna innanzitutto essere liberi di muoversi.

 

 


Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione del testo in qualsiasi forma senza permesso dell’editore, salvo nel caso di citazioni o di recensioni, purché quanto in esse riportato sia conforme all’originale e se ne citi la fonte.

Ritorna alla pagina iniziale

Magnanelli Edizioni

Via Malta, 36/14 - 10141 Torino

Tel. 011-3821049 - Fax 011-3821196