Sandra Parolin
Meditazione e relazione
Esperienze di vita comunitaria

 


 

INDICE

 

L'inferno e il paradiso
Il coraggio di dire no
L'apprezzamento
Scoprire i propri limiti
Sofferenza e umiltà
I nemici diventano amici
L'apertura del cuore
Comunicazione non violenta e Community Building
Partire da me
Come dire le cose
Insieme
La relazione che guarisce
Natura e poesia
Nuove forme di vita

 


 

PASSI SCELTI

 

SOFFERENZA E UMILTÀ

Sofferenza e umiltà sono intimamente legate.

Questa mirabile connessione può sembrare a prima vista strana, contorta, esagerata, se non ne abbiamo fatto reale esperienza. Chi ha sofferto molto lo sa: ci sono numerose strade che possiamo percorrere quando siamo di fronte al dolore, e molte di queste conducono soltanto a più dolore. Rabbia, avversione, chiusura, vittimismo non sono risposte sagge: sono controproducenti, non intelligenti e non compassionevoli. Ma in genere sono le nostre prime risposte abituali, frutto di condizionamenti e di una cultura che separa e crea dicotomia; la sofferenza è sinonimo di fallimento e incapacità, qualcosa da sfuggire a tutti i costi, forse perfino di cui vergognarsi; il piacere invece è da rincorrere con tutti i mezzi, insaziabilmente e senza esclusione di colpi. Fortunatamente esiste un'altra risposta, un altro modo di vedere e di sentire le cose. Nel mio incontro con la sofferenza, dopo aver anch'io sperimentato molte strade controproducenti, mi accorsi che in realtà mi trovavo a un bivio. C'erano solo due possibilità, due direzioni possibili: la chiusura o l'apertura. Più precisamente compresi che nella sofferenza siamo chiamati sempre a una scelta. Non ci è possibile, in un certo senso, stare fermi. O ci chiudiamo di più o ci apriamo di più. La prima scelta è un rischio che corriamo sempre nei momenti di difficoltà, la seconda è un'immensa possibilità che ci viene offerta, una occasione da non perdere e anche un nuovo senso da dare al nostro soffrire. La sofferenza non è mai gratuita. Ciò che offre in cambio a noi e alle nostre vite è un'occasione di apertura (è facile essere aperti quando stiamo bene!) e l'incontro con l'umiltà. La vera umiltà non è quella imposta o superimposta da noi stessi o dall'esterno, ma quella che scaturisce come risposta naturale al dolore, dall'esperienza del dukkha. Quando sono in contatto profondo con la sofferenza non posso non sentirmi umile, quasi umiliata, ma non è un'umiliazione che mi ferisce, anzi. Mi sento presente e radicata nel mio essere, umana, e al tempo stesso sento che tutto ciò che avevo costruito può tranquillamente essere lasciato. è la capacità di restare immobili nelle proprie umiliazioni di cui parla Benoit: "Non appena riesco a restare immobile nel mio stato umiliato, scopro con sorpresa che è "l'unico posto sicuro, l'unico luogo al mondo dove trovo perfetta sicurezza".

Di fronte al dolore mi sento impotente. Ma è un'impotenza sana, non quella che mi fa essere passiva e vittimista, ma che fa invece diminuire l'altra impotenza cioè il mio "delirio di onnipotenza", la mia convinzione di poter controllare la realtà, l'ossessione al controllo. Mi accorgo che non posso controllare veramente nulla, o molto poco; vedo che i miei piani per il futuro, ad esempio, possono svanire in un secondo, sono fragili e insignificanti di fronte a un'improvvisa malattia, al dolore fisico, alla perdita di una persona cara. Davanti a una perdita tutto ci appare insignificante. Di nuovo, è il significato che il mio io dava alle cose, che stabiliva un ordine, un senso, che aveva certezze. Cosa si può dire di fronte alla morte o alla separazione di una persona amata se non: "Non so nulla, non sono nulla, non posso nulla che non sia questo mio essere, qui". Questa sofferenza mi riduce all'essenza, restringe tutto il mio grande "straessere" in un piccolo, semplice sentire. Il sapore di questa umiltà è dolcissimo. Dentro la sofferenza posso catturare, per qualche istante, questa dolcissima certezza: io non sono nulla (non nel senso di non valere nulla, ma nel senso di nulla di solido, separato, di intrinsecamente esistente). E in ciò sentire la libertà e la grazia di un simile stato di cose. Proprio nel momento in cui mi sento più impotente e povero, trovo libertà e ricchezza. La frase del Vangelo: "Beati i poveri di spirito" mi era sempre sembrata incomprensibile, e a causa di questa poca chiarezza mi infastidiva anche, era un'affermazione così scoraggiante ed enigmatica. Adesso la trovo di una semplicità superiore: è l'umiltà, l'impoverimento delle sovrastrutture mentali e di tutto ciò che ricopre e complica la semplicità dell'essere, che ci rende umili e grati di fronte al mistero della vita. Questa umiltà non ha niente a che vedere con l'umiltà cattolica di farsi piccoli e insulsi, di non esaltare mai le proprie qualità o simili atteggiamenti controproducenti, ma piuttosto si trova in questo spontaneo sentirsi tranquillamente piccini; un rimpicciolimento che poi è un allargamento dell'essere, che attraverso la sofferenza si libera da essa, si ri-dimensiona, intuisce una diversa prospettiva, più umile e più ampia, nei confronti dell'universo intero. Corrado Pensa la chiama una "vetta di ecospiritualità", quando una "condizione di imprigionamento può generare libertà. Tutto è grazia, tutto è interrelato, tutto è utile e utilizzabile".

Forse non mi libero dal dolore fisico in quel momento, ma mi libero dalla morsa, dalla stretta, dalla costrizione dell'io-mio, che vuole possedere anche la sofferenza e proprio perché sta soffrendo è, come si diceva prima, "costretto a fare un salto", a entrare in una dimensione più profonda e più ferma, a penetrare nel silenzio, nel vuoto, nella semplicità. La vera umiltà cristiana e il non sé buddhista hanno molto in comune. Parlano della stessa grande liberazione: la liberazione da me.

 

 


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