Gianni Colombo

Spirito e polvere

Appunti di viaggio in India

 


 

PASSI SCELTI

 

GIORNO UNO

Il viaggio è un filo di ragnatela
che inventa bambini e città.

   

In un passato ancestrale ho vissuto la magia del volo. Viaggio tranquillo. Paesaggi e spazi fascinosi, lentamente incantati, modificati dall'inusuale prospettiva. Sono in arrivo a Bombay, alla soglia della porta dell'India, alla vigilia del cuore. Che sia stile, ora!

Ho vissuto l'impatto con l'aeroporto internazionale come un'appartenenza. Qualcosa di assolutamente normale, una sorta di déjà-vu, un passato che ritorna consapevole nella sospensione della memoria.

Amo l'insolito come qualsiasi situazione che risponde a una devianza o a una trasgressione intrigante, fascinosa. Sento con forza l'acre odore della città, mastodontica nella sua geometria. Vista dall'alto, avrei supposto, come pura forma speculativa, l'esistenza di uno strano collegamento che univa i Frères Massons ai costruttori di Jaipur. Entrambi si occuparono di uno schema in riferimento al territorio, entrambi di una dedizione astrologica.

I ragni percorrono miglia e miglia sospesi a invisibili fili sospinti dal vento, e un'idea d'amore può varcare i confini dell'universo così come il pianto di un bambino creare aridi deserti lontani o rugiada sui petali di una rosa. Strana impressione data dalla, penso, casuale disposizione delle luci osservate da un cielo immerso nella notte profonda.

Dopo aver raccolto i bagagli sento le impassibili e scure facce del sud confuse nella penombra con gli animali vaganti, una pandemica moltitudine che riempie il campo visivo. Pochi chiedono denaro, forse suggestionati da una mia apparente immobilità, molti offrono i loro servizi senza troppa insistenza, forse percependomi, forse rispettandomi. Il bus di trasferimento ai voli nazionali arriva fendendo con stridulo rumore la notte più buia dell'anno. Un altro anno è appena terminato e constava di tredici lune, fenomeno che si ripete, pare, ogni duecentoquaranta.

Ma la mia attenzione terrena si sposta ora sul bus. Nemmeno nei più reconditi ricordi dell'infanzia riesco a ripescare un simile mezzo di trasporto. Sedili di truciolato e porta forse un tempo pneumatica, e ora ad apertura di mano e piede. Mi siedo di fianco a una bambina musulmana di circa tre anni e d'incarnata, rara, bellezza. Mi osserva come se guardasse un animale senza possibilità di definirne la specie d'appartenenza. Io so, in silenzio, che sta vedendo con altri occhi e le sorrido e appoggio la mia mano sui suoi capelli sapendo che darei la vita per lei se mi fosse richiesto in questo preciso istante, nel continuum presente. La rivedo hic et nunc prima di salire sul volo per Bangalore, la rivedo con occhi appena velati da un'umidità nostalgica, ma lei non mi scorge: sono già nei suoi sogni_

Arrivo a Bangalore. Aeroporto stile magazzini del sale, pista sconnessa, trasferimento a piedi.

È l'inizio di uno stato alterato, inebetito, quasi automatico. Penpa dice, e tutti lo affermano, che questa città è tra le migliori dell'India. Il sapore è l'intuizione all'intenso odore percepito. Approdiamo in un lussuosissimo hotel la cui sfrontata opulenza genera ambivalenti pensieri, ma riesco ad accorgermi di una non manifesta sospensione mentale. Al conducente chiedo la rosa che vedo appoggiata al cruscotto dell'auto. Potrebbe essere referente di un segno futuro. Veniamo introdotti in una suite dove trovo, conoscenti dell'amico, una coppia con la quale d'acchito non mi sembra di possedere affetti di scambio. Altro pianeta. Mi auguro che l'impressione dipenda dall'eccessiva stanchezza, dalle innumerevoli endorfine liberate da un cervello sveglio da ore.

Potrei dire che i due rispondono al nome di Marco e Marta, e di loro immediatamente percepisco la situazione: ricchi, lui separato, lei appena tiepida. Si decide, dopo accordi a cui non partecipo, la partenza per il monastero di Sera-je. L'auto arriva in un tempo relativamente breve e inizia così l'avventura del suolo. Penso che il modus guidandi degli indiani sia simile, per tecnica, a quello adatto a un gigantesco autoscontro di luna park. Poi terra e la prima polvere. Sei ore di viaggio a una media di trenta-quaranta chilometri l'ora. Sorpassi mozzafiato che durano un'infinità e che terminano al culmine di dossi muso a muso con chi viene in senso contrario. La costrizione o il disagio obbligano a distogliere lo sguardo, e la vista si apre su stati di indigenza, sempre polvere che rende fioca la luce del sole, colore. Colore dei fiori, colore di terra e acque, colore di abiti indossati da donne finemente dignitose nella tolleranza. Ecco, quel dio che avrei soppresso in Occidente ha qui necessità di esistere nell'istante del colore: tendopoli, fango, animali, uomini sporchi opposti a stupende ed enormi buganvillee e piante di cangiante, violento colore. La gente stessa vive come riflesso di questo dio del colore, e non ha alcun senso una pretesa eleganza che non sia quella interiore.

Osservo gli istanti. I miei pensieri oltrepassano gli oceani ed entrano in me come un rivolo di acqua che scompare assorbito da una terra secca. Nei luoghi in cui sostiamo divento oggetto di richiesta, oggetto di un linguaggio che non ha appartenenze né di razza né di colore e che unifica un universale bisogno: la mano che ritualmente indica la bocca. Cerco di dare a tutti, che a me soprattutto si rivolgono forse a causa della cravatta che apposta non mi sono tolto e che di rado uso in Occidente. È incredibile come non avverto dolore. Che sia la stupida fortuna o il sottile piacere di essere dall'altra parte?

Victor Hugo, in un passo del suo saggio su Shakespeare cita stupendamente l'orrore timido di fronte al cratere dello spirito, probabilmente non ignorando che la compagnia teatrale del maestro poteva essere la stessa che sui muri della Parigi del 1622 si firmò Rosacroce.

Dopo il pranzo, a stomaco pieno, i due compagni si rivelano meno vuoti di quanto supponevo. Lui, a modo suo, è un entusiasta. Dubbia categoria nella nostra vecchia Europa, sempre e comunque a cavallo di un toro, ma necessaria in questo continente.

Lasciata Mysore in direzione di Kushinagar, dopo aver attraversato il campo profughi tibetano imbocchiamo una strada sterrata, sterrata da stupire, e arriviamo al monastero compiuto il tramonto. Polvere, polvere e luna nascente. Luna del sud. Sono ospitato a Sera-me in un'ottima stanza con una finestra che dà su una distesa valle al di sotto della collina sulla quale l'intera costruzione poggia autorevole nelle sue indescrivibili dimensioni.

In questa sezione diretta dal maestro di Penpa e abitata da circa cinquanta monaci, sono ospitati altri due occidentali. Uno dipinge tangka in religioso silenzio, l'altra studia medicina tibetana e vorrebbe organizzare un pronto soccorso. Non credo d'aver mai incontrato il pittore, ma la ragazza sì, e ora ricordo il luogo e il dialogo. È quasi irreale nella sua dimensione umana ed estetica, sola col suo grande coraggio, con la sua fede, la sua dedizione. La cena è parca anche nel sapore, ma attenta alla stanchezza; e poco prima del termine compare Beatrice, vero vulcano in eruzione continua, appena arrivata da Dharamsala. Quasi non la riconosco, è eccitata perché è stata ricevuta dal Dalai Lama in persona e si prodiga nel mostrarmi le foto che testimoniamo l'evento.

La cosa non mi importa più di tanto, comincio a non essere più niente, i miei occhi sono aperti da ormai trentasette ore, mi ritiro nella mia stanza. Prima di addormentarmi percepisco una sorta di sottile preoccupazione che riguarda la mia sorte: credo che Penpa voglia tentare una conversione, lasciandomi qui per tutto il tempo nel monastero. Vengo assalito da una specie di ansia del futuro, un mese rappresenta un tempo per me intollerabile. Penso quindi al modo di uscire con eleganza da questa ipotetica situazione e cerco di vagliare le possibilità, ma sono troppo stanco. Rimando i pensieri all'indomani mentre i monacirecitano in continuazione le loro preghiere come rane negli stagni d'estate e mi addormento con la sola luce della luna d'India che alita sul colore dei fiori.

   

GIORNO DUE

La mente è una cosa sola con le sue immagini.

  

Stamattina la sveglia mi ha accolto con una colazione a base d'uovo, tè, chapåt¤ e latte. L'ansia della sera è scomparsa, sfumata nella luce potente dell'alba, nello stridore di migliaia di corvi, qui incredibilmente numerosi. Vengo invitato ad assistere a una grande p¥jå che si recita anche in onore di Penpa, qui particolarmente considerato in quanto ex-monaco e benefattore di fondi raccolti in Occidente. Il pranzo, una sorta di buffet di cibi tibetani, ci viene offerto nel gompa principale. Nel primo pomeriggio, la jeep della Buddhist University di Sera ci accompagna a un campo profughi della zona. Beatrice lavora a un progetto che sponsorizza le famiglie più disagiate, e nostro compito è visitarne alcune. Quello che trovo è inenarrabile e non può avere descrizione se non nell'immagine. Venti metri quadrati per otto persone, buio che occulta terra all'interno delle abitazioni fatiscenti, polvere e ancora polvere e fango. Tuttavia le persone sono rigorosamente dignitose e rispettose del contatto che ricevono. Fuori, schiere di bambini animati dalla curiosità e da aspettative ci seguono con tenacia nei nostri spostamenti. Da una bambina acquisto un bambù tagliato in modo da poter equilibrare due secchi d'acqua, poi distribuisco delle noccioline che avevo gelosamente conservato. Dentro ho ancora vuoto e silenzio, cerco di mantenere una forma di distacco che non possiedo. La gente ci accoglie offrendoci ciò che per etica non possiamo rifiutare. Non riesco a fissarmi nei loro occhi, quella miriade di occhi che scrutano nella favola incarnata la storia dei miei inusuali gesti.

Ho conosciuto i genitori di Penpa, anziani dignitosi quanto le nevi delle altitudini. Nella loro casa si respira lo spirito, nel sapore di terra. Poi i saluti, per me quasi distaccati, ma i miei occhi, i miei soli occhi, per loro hanno fissato l'immagine indelebilmente nell'eterno. Il ritorno al monastero, il tempo per pensare, pensare la storia e la semantica di linguaggi che si uniscono alla comunicazione intuitiva dei mondi interiori.

Dopo il pasto la grande luna di Sera alita su cemento e fiori. La disputa filosofica dei giovani monaci continua ininterrotta, le recitazioni dei mantra riempiono l'atmosfera creando vibrazioni, il tempo si espande nella diacronia interiore ed è la notte complice del sogno. Sono stanco, ma Beatrice mi coinvolge. Ha forte desiderio di raccontarsi col favore della notte e in me trova trasparenza e possibilità nell'altra faccia del pianeta. Sta attuando un nobile quanto incomprensibile compito, ed è felice di essere stata accolta e di aver potuto parlare col Dalai Lama; così, nella curiosa ripetizione del mito e della storia, si incarna novella Alexandra David-Néel di fine millennio. Ha scelto di alloggiare nella mia stessa stanza, fianco a fianco, e le parole volano fino alle quattro del mattino; poi ci lasciamo scivolare lentamente all'interno del nostro sguardo verso l'universo del sorriso e del cuore.

   

GIORNO TRE

Dove capisco che il corpo
è un'estensione verticale della terra.

   

Questo è un luogo dove intuisco circolare molta energia. Sono riposato e corporalmente a posto. Vengo informato che posso visitare la scuola del monastero. E che scuola! Cemento e stuoie per terra, finestre prive di infissi per odorare il vento e colori unti dal tempo umido della loro estate. Mi accorgo che, durante l'intervallo, la palla rincorsa dai bambini è fatta di calze arrotolate, ma il gioco e il sorriso non hanno dimensione materiale. Essi sono forse quella parte di anima che compensa l'indigenza degli adulti. Non vi è in questo alcuna toponomastica: la terra è perfettamente uguale a se stessa, nella vita.

All'uscita dall'edificio preferisco non seguire i miei compagni in passeggiata e ritorno nella mia stanza. Qui si è soli con se stessi, ma mai materialmente a causa dell'elevato numero di persone che ruotano incessantemente. Mi cerca Daniela che passa in excursus buddhismo, medicina tibetana e i suoi studi sugli animali portatori di malattie e produttori di morte. È affascinante contattare il suo distacco e sento di esserle debitore di queste due ore. Poi il pranzo comune, alla fine del quale Duccio decide improvvisamente di sospendere la pittura di tangka per raggiungere le spiagge di Goa, meta di tanti diversi del mondo. La sua tempestività mi sorprende, ma il suo spirito è vento nelle mani nell'oblio del dolore. Senza riposo, con Beatrice e Penpa partiamo a bordo di un imparagonabile risciò a motore verso la sede del rappresentante della comunità tibetana in esilio. Per fortuna il percorso fortemente sconnesso è breve, e dopo varie zuccate raggiungiamo il luogo.

Verificato l'indirizzo delle persone destinate a ricevere il denaro portato da Beatrice, iniziamo la ricerca delle abitazioni sul vasto territorio suddiviso in sei campi. Nel numero due e tre la situazione non è meno abbiente del campo profughi visitato ieri. Qui un po' più di ordine e pulizia, fiori più curati, persone meglio vestite. I pali che reggono le bandiere di preghiera sono eretti al centro della piazza dell'acqua, sono suggestivi e mi offrono un po' di consolazione come un gatto che, autogratificandosi, si lecca il pelo. I sorrisi sono più efficaci e lo stato di pauperismo è lontano dagli eccessi del giorno precedente. Vedo delle rose, rose rosse che sono simbolo di forza. I pensieri si spengono improvvisamente. Ontologicamente non ho passato né futuro, sono qui semplicemente e ora, come l'ebete di turno in un campo appena arato ove non si scorgono più sentieri. Ed è durante il tragitto per arrivare all'ultima casa che mi assale una potente pressione interiore e da dietro gli occhiali scuri scendono, senza alcun apparente scopo, le lacrime che credevo perdute. Niente ora mi importa, il tempo è infinito, non possiedo forma; l'aria, la pura aria che respiro è la mia protezione. Arrivati, non riesco nemmeno a fissare il mio sguardo se non a un orizzonte.

A differenza di prima, qui la visione è a dir poco tormentosa. Il tugurio è ancora più ristretto di ciò che ho finora visto, forse più buio, oscuro, solo mattoni di fango e terra. Vivo tutto questo in un pietoso stato di silenzio, con lacrime ancora simili a preghiere. Una bambina tremendamente sporca è il prolungamento del suolo in senso verticale. I suoi occhi non hanno gioia, lo percepisco in senso periferico, a lei sento di dare una bambolina speciale che conservo nella borsa: la rimira e la stringe con mani temperate di vento e foglie. Ed è ancora intensità, ancora incontrollate lacrime. Piango per l'umano a cui appartengo, provando vergogna del simbolico che incarno. Quasi non riesco a salutare, sento solo che i miei compagni sono più sensibili di quanto supponevo all'inizio. Capisco che per loro, per il loro ricco mondo, l'impatto è visibilmente violento. Da quell'istante, una porta si apre per sempre oltre i confini di un io.

Sulla strada sterrata che riporta al monastero chiedo all'autista di fermarsi e proseguo a piedi. Ho bisogno di camminare incontro al digradare del sole oltre le colline. Con la sciarpa di stoffa che indosso quasi sempre copro naso e bocca, i pensieri scivolano nell'incontro delle pietre calpestate e della polvere che vela sensibilmente il tramonto. Oltrepassato l'arco d'ingresso incontro una bimba minuta che porta in testa una giara. Non so fare altro che offrirle il bracciale di pietre che Viviana mi aveva dato con altri oggetti prima della partenza. Lo prende con timidezza e reticenza, ma penso non possa fasciare polsi migliori, e allo spirito rendo la generosità di chi spontaneamente, senza conoscerne il destino, offre un dono.

Nel cortile riesco a farmi una doccia lasciando cadere acqua da un secchio, poi metto abiti puliti per la cena. Siamo invitati da un geshe che dirige un'altra sezione del monastero. A detta di Penpa è molto importante, ma so che per lui tutto è importante, soprattutto ciò che riguarda il suo popolo.

La cena è all'aperto con strano e ottimo cibo fino alla frutta immersa nello yogurt. I discorsi dei miei compagni occidentali sono ripetitivi, ma intendendo il loro bisogno riesco a non irritarmi. Mi accorgo, e verifico, di essere osservato dal geshe quando il mio sguardo è altrove. Chiedo a Penpa di domandargli che cosa ha potuto vedere in me e la risposta è stata: la felicità. Pensa!

La passeggiata della sera è irrorata dalla luna piena che osserva la curiosa ermeneutica dei monaci tibetani. Ora sono nella mia stanza e la candela si avvia alla fine. Scosto la tenda ed è l'ultimo sguardo al perfetto orizzonte notturno.

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GIORNO NOVE

Ovvero la perdita della collocazione
dell'individuo nell'universo.

   

Sveglia alle prime luci dell'alba. Sto appena meglio. Seguo Beatrice e Thubten verso un altro campo profughi che dista, mi dicono, circa un'ora da Sera. Il viaggio in jeep è allucinante, calcolando che all'inizio del tragitto abbiamo caricato altre sei persone tra cui una ragazza tibetana particolarmente bella con un bimbo in età da latte. In queste condizioni, avere del denaro è sempre una forma di potere gratificante. Beatrice svolge il suo lavoro diplomatico recitando con perfetta drammatizzazione la parte della persona grande, adulta. Ma se non esistessero questi spericolati soggetti, forse malati di protagonismo, niente qui o ovunque si sarebbe mosso se non foglie per il vento. La gente ha davvero bisogno di lei. Un po' come me.

Domani ripartirò da questi luoghi, l'ho deciso forse in un sogno forse in una farfalla cosciente come Lao-Tze all'iperbole di pensiero. Temo per le difficoltà di farmi comprendere, per il mio rifiuto quasi viscerale della lingua inglese qui comunemente parlata. Il problema è sempre capire, non farsi capire.

Solito ritorno. Dopo il pranzo nella guest house riusciamo a muoverci relativamente presto e ad arrivare a un'ora accettabile al monastero. Faccio, per modo di dire, la doccia e lavo le ultime cose prima della partenza. Tutto è pronto, anche la sottile, quanto vera apprensione. Dovrò lasciare Penpa e il monastero non senza difficoltà oggettiva, ma non posso fermarmi, non avendo deciso il ritmo di questo viaggio.

Verso sera vengo invitato a un party in cui sono presenti i più importanti dignitari. In questo l'Occidente e l'Oriente sono uno. Le persone sono importanti per il posto che occupano e questo non è sempre vero. Salutano un rappresentante che sostituisce quello uscente, destinato ad altri campi. Io non so che funzione ho o incarno, sono qui con discrezione e trasparenza in assenza di quesiti.

Vivo questi momenti in sospensione, in intervallo compositivo, senza particolari entusiasmi. I tibetani fanno giochi di società con i quali si divertono da pazzi. Passano una scatola contenente dei biglietti sui quali è scritta una specie di penitenza: si cerca di passarla velocemente e, nel momento in cui la musica finisce, chi ne resta in possesso estrae. Di ciò sorride anche un monaco che mi ha particolarmente colpito nel momento del suo arrivo. Fortemente dignitoso esprime rara intelligenza e suggerisce con l'aspetto una possibilità critica che in loco ignoro. Una sorta di precisione elegante e un distacco sicuramente non comune. Vengo a sapere che proviene da Sera-laci, che sovrintende ai due monasteri congiunti di Sera-me e Sera-je. Rappresenta qualche cosa, ma non so che cosa.

   

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GIORNO TREDICI

Dove capisco che i colori e le cose
sono coriandoli nella mente.

   

Il sole sorge dietro le colline di Goa. A piedi nudi cammino in direzione sud sulla spiaggia dove i pescatori sfilano il pescato dalle reti. Poi approdo in un'altra spiaggia popolata da hippies provenienti da ogni luogo, uniti da un idioma verosomigliante all'inglese. La mia è una ricerca poco convinta di essere tale ma, nonostante ciò, osservo attentamente volti e corpi. Nessuno tenta di coinvolgermi, il silenzio è totale, e sebbene potrei assomigliare a loro per aspetto esteriore ho certamente qualche cosa che mi differenzia, e qui in modo evidente.

Dopo aver vagato respirando l'aria del mare, ritorno alla mia camera. Il mio moto-driver è puntuale come da accordi, e partiamo alla volta di Mapusa che raggiungiamo dopo un discreto tragitto.

Io inizio a vagare per il mercato scrutando attentamente con sensi dilatati.

Tutti mi chiedono cifre spropositate per il luogo, è un gioco universale più antico del cielo. Il tanto decantato capitalismo non ha novità alla luce del sole, affonda le radici nella melma dell'essere umano e semina i rovi di un'ingordigia contraddittoria al benessere, e ogni giorno migliaia di innocenti vittime sacrificali pagano il prezzo dell'opulenza dei pochi. A volte mi domando in quale dimensione viva l'utopia di John Dee o l'amore di Giordano Bruno, e se lo spirito cessasse di portarmi aiuto penserei che niente vale, nemmeno la Visio Pauli tanto cara al Dante esoterico.

Comunque sia, riesco a godere dei più svariati odori delle spezie, delle stoffe del Karnataka, delle pietre e dei gioielli del Rajasthan, degli enormi occhi di bimbi che sorprendono il vento dei miei pensieri.

Ed ecco, preciso come sempre, prima di ricevere il compenso, arriva il mio accompagnatore. Ci muoviamo, secondo il mio desiderio, verso la spiaggia di Anjuna che è il rifugio artificiale per eccellenza dei freak. Ho la curiosa sensazione di incontrare qualche conoscenza, ma i personaggi propinati sono così antichi per la mia vista che non noto nessuno in particolare. Comincio a percepire una sorta di unità nella disperazione, do a chiunque chieda pezzi di carta edulcolorata, spargo coriandoli in aria densa di bisogno.

Verso mezzogiorno ritorno all'hotel dove trovo Beatrice e l'amico americano. Pranziamo in veranda a base di frutta e acqua, parlottiamo educatamente e, dopo aver fumato, se ne vanno. Leggo alcune pagine della Materia del nulla di Macedónio Fernandez e riposo fino a tardo pomeriggio. Poi nel tramonto dell'oceano, senza pensieri, cammino nel vento. Mi sento pulito quando al buio raggiungo il villaggio della sera precedente, prestando attenzione ad ogni incontro. Quelli che un tempo erano occidentali, ora sono tribalmente a sé. Molti sono riuniti nella piazza semibuia a fumare enormi cylum, dedicandoli a _iva. L'emanazione del profumo è suggestiva per i viaggi eterei. Goa ha offerto loro la possibilità di fermare un tempo congeniale regalando l'espressione irreale a un luogo che nella metamorfosi della libertà li accoglie. Per me è archeologia storica, quindi ritorno, disincantato, a sorseggiare un cognac nel giardino dell'hotel osservando luna e stelle come mio diletto, respirando un'aria di aristocratica incarnazione. Nascono in me alcuni pensieri sul futuro mentre ascolto un chitarrista che canta discrete melodie d'ambiente.

Quasi avvolto in un'aura ritorno a scrivere.

La rana e il geco mi attendono, abituali compagni di stanza. Alcune voci si spengono, ma non quella di un oceano che ritmicamente continua i soliloqui come una grande, gigantesca, titanica preghiera.

Ritornerò a essere? Percepirò ancora la profondità? Nulla materialmente mi manca su questa terra. Possiedo fin troppo. Questo solo conosco, solo questo, nient'altro.

   

GIORNO QUATTORDICI

Il nostro interlocutore siamo noi stessi
ribaltati all'esterno.

   

Passo la mattinata al mercato di Anjuna a comprare doni per il mio ritorno. La contrattazione per arrivare a prezzi accettabili è estenuante, ma può avere significati di reciproca conoscenza. Certo superficiale, però non si è venduto o acquistato da uno sconosciuto. Momento ludico che ha il suo culmine con due fratelli pakistani dai quali, in sole tre ore e mezza, acquisto due pietre, un'ametista e una black star di grande energia. L'accordo è siglato da un tè e da lunghi abbracci, siamo fin da ora fratelli sotto l'impronunciabile nome.

Qui vedo le più strane persone con l'incarnato che racconta troppe storie, ma niente assapora la diversità del poeta, né i lunghi capelli, né sapienti mani che trattano le sostanze. Niente può raggiungere la bellezza del suo antico entusiasmo, delle sue parole che salmodiavano Libertà e Altrove.

Per questo comincio a pensare che un altro azzurro, quello faticosamente agognato, lo stia ospitando ora. La mia non ricerca fatta del solo sentimento, fatta di chissà quale altra materia che impantana luce, credo volga più all'onda del mare che alla polvere di queste spiagge sferzate dal vento. Ancora una volta il mio è un melanconico ritorno, una rimpicciolita ruota del Dharma in moto perpetuo, dove gioia o dolore non alterano la consapevolezza di esserci come pulviscolo roteante in un'eterna aurora e il mio camminare diventa semplicemente significante a se stesso, senza apparente scopo, senza apparente meta.

Nel bagno della stanza lascio scorrere acqua sul corpo, a occhi chiusi, immobile, ascoltandone le variazioni sensibili del suono. Poi esco per osservare dalla collinetta il lento tramontare del sole e con Nick e Ciccio, costanti viaggiatori, scendo al paese invitato a cena in un ristorante di loro conoscenza. Usare il termine _ristorante" è un eufemismo che elargisce forte spirito di adattamento ma il cibo, il pesce in questo caso, è veramente ottimo cotto al tandoori. È una tranquilla serata fatta di scambi d'impressioni e di viaggio, dove approfondiamo la superficiale conoscenza. Sono persone che lasciano molto spazio al silenzio ed è un fluire di pensieri e parole, attimi, che si susseguono senza essere mai vuoti. Decidiamo così di andare l'indomani a visitare la capitale.

L'immagine che mi accompagna, prima del sonno, è quella di me e Nick seduti sulle stelle nel prato di fronte al cottage, mentre il fumo sacro di _iva dilata l'universo percepito al semplice battito di ciglia.

   

GIORNO QUINDICI

Angelo è chi danza al di là del dolore.

   

La lentezza di Nick è molto rassicurante. Da incallito viaggiatore abituato alle situazioni più estreme scruta e annusa l'aria e, sebbene niente conosce della lingua, sa usare un istinto finalizzato, sa dove dirigersi. Siamo a Panjim dopo un viaggio stipati fra vari umori corporali e un arrivo in mezzo ad animali sacri, vacche che per gli indù sono seconde solo agli uomini per gerarchia. Lui cerca una nave per Bombay, mentre mi sembra di respirare una buona brezza in questa città non così inquinata come quelle che finora ho visitato. Camminando il tempo scorre velocemente, ogni tanto ci soffermiamo attratti dai particolari interessanti del folklore locale. Mi viene alla mente Lauretta piena di spirito giocoso, la sua trasmissione di gioia, la sua risata che produce colore qui avrebbe più ragione d'esistere che oltreoceano ed è tanto preziosa quanto inconsapevolmente dedita alla pratica della generosità. "Fa' ciò di cui non ti pentirai, fa' ciò che ti porterà gioia", recita un verso del Dhammapada, e lei pare essere un'emanazione delle parole del Buddha.

Sulla via del ritorno osservo il paesaggio come un torrente che scorre più o meno veloce e so che chi ha occhi non conosce noia. Ancora sono qui in momenti che si susseguono, le cose più semplici legate alla necessità diventano le più importanti, non vi è identificazione passata o futura, sensibilmente senza meta, sento di _non essere".

A Goa gli occidentali esistono quasi tutti per l'identico motivo e le sostanze psicotrope sono presenti nella totalità delle specie. Dopo cena ci portano in un locale tipico d'incontro, il Prime Rose, un coacervo di stati liminali, non violento, a tratti triste, a tratti curioso. Fondamentalmente il luogo mi tedia, ma il pensiero di esserci per un vago scopo senza speranza mi solleva. Non trovo personalmente nessun senso, l'appiattimento è totale, nessuna mistica dell'eros, femmine o maschi agiscono col medesimo modo, nel martirio del corpo sublimato ad ammasso putrescente. Ciò che non comprendo vola su aliti di draghi che interagiscono nell'invisibile e nell'inconoscibile e, oltre ai diecimila mondi, angeli caduti danzano al di là del dolore. Il mio pianeta ignora questi umani, il mio popolo, con occhi velati calpesta terre ridondanti di fuochi e fumo, nel modo in cui si deve, tenendo la necessaria distanza per percepire calore. Gli invisibili saranno gentili e viceversa, le immagini percepite a occhi chiusi, le parole udite nel silenzio. È questo il roteare di una mente in sonno profondo?

Sono disteso o altrove? Si faccia buio, per favore_

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GIORNO DICIANNOVE

Dove i corpi degli altri
sono i nostri sentimenti incarnati.

  

Mi sveglio nel mare della notte agitato da un incubo. Ovviamente questo succede nel momento di maggiore passione e il ritorno alla così definita realtà oggettiva è una sicura difesa. Mi sta accadendo qualcosa di strano, eppure tutto è estremamente normale. L'incubo, certamente legato alla precedente serata, riguarda una situazione in cui sono presenti gli affetti e i sentimenti trasformati in materia dialogante sotto forma di corpi non chiaramente riconoscibili. Io, il mondo esterno e il coro delle antiche tragedie greche. Il dibattito è particolarmente acceso e verte sulla tranquillità, la serenità, la pace. Si stabilisce in me una consapevolezza che non è quella dei semplici termini. Intuisco la complessità ricercata nel profondo degli esseri, nella propria _coscienza deposito", per usare un termine del buddhismo yogâcâra. In un angolo, mia figlia si sta lentamente irrigidendo. Io mi dibatto angosciato. Mi dibatto in una dialettica che, nonostante il ritmo serrato, non ha alcun effetto. Lemmi svuotati del loro potere. Insisto mentre il coro implora il desistere. Continuando la diatriba con l'incarnato del sentimento, cerco mentalmente di spiegare al mondo che non esistono situazioni estreme, sebbene la storia psichica dell'interiorità sia complessa. Oltre vi è lo spirito che non possiede preoccupazioni soteriologiche o particolari escatologie. Ma non sono ascoltato. Incessante è il coro: "Non è preoccupante, nel quotidiano questo succede ogni singolo giorno, il virtuale aleggia nella mente". La ripetizione è infinitamente cantilenata. Si apre così una porta percettiva che è una visione fatta di termini e di silenzio, lunga quanto un'esistenza ma concentrata in un solo punto, un transfinito di Cantor, che contiene comprensione totale.

Ho costruito inaccessibili roccaforti per difendere la mia trasformazione, a volte farfalla, a volte fiore e nessuna persona altro ha visto se non la potenza delle mura. All'interno, unico signore mi sono abituato a osservare, disincantata vittima del mio stesso regno, consolato da un cielo cangiante. Qualcuno, di questo interno, ha pensato a una sontuosa dimora, ma per me è solo l'essenziale sobrietà: altri, niente hanno veduto. Alcuni, intuito. Sono in totale assenza di paura per quello che si riferisce agli atti materiali. Le responsabilità sono l'unico, pesante, atroce carico verso l'esterno, gli altri. Esistono? A volte, l'impenetrabile mio sorriso ha il potere di calmare animi, sebbene la sua attenta lettura semantica sarebbe di ben diversa interpretazione. "Non ho aperto la porta". Non ho voluto aprirla, sono qui e non ci sono. Non ho identificazione, non più. Questa e la coscienza, oltre alla più esasperata ignoranza al di qua della porta. Sento e respiro la vita più intensamente che mai, ma non ho emozioni né slanci. Mi sorprendo senza pensare a commuovermi per un colore, e gli istanti sono il puro presente. C'è molto silenzio. Tutto è l'antitesi di tutto, e il coro ripete la sua litania dell'abbandono mentre io rispondo col pensiero agli incarnati sentimenti che ho di fronte e vicino a me. Sono lì in attesa fiduciosi e questa è una percezione subliminale parallela. Poi tutto sembra essere destinato a un caos e di scatto mi sento seduto sul letto.

Mi ritrovo con una forte erezione e col pensiero che il mio ritorno sarà di lì a pochi giorni o che in verità non sono mai partito e questo, tutta questa strada è il sogno, il mondo sognato e che nessuna realtà esiste, tutto lo è in nuce. Lentamente mi riaddormento per svegliarmi ore dopo molto provato fisicamente. Thubten si è già alzato per le preghiere mattutine alle quali non deroga, nemmeno qui. Beatrice mi dice di aver passato una notte per niente buona, di aver riposato due ore soltanto. Stasera dormirà con noi, domani partiremo insieme per Calangute e successivamente per Bangalore. Ci divideremo tra due giorni, un'altra vita si sovrapporrà ad un'altra vita così come ogni fenomeno contiene impermanenza e trasformazione. Senza tristezza. Ora decido di rimanere in camera ad annotare la notte, mentre loro scendono in spiaggia. Penso a Giorgio, a Lorenzo, a Gabriella, a Pablo, miei intimi. Penso a un'ipotetica vita reale e alla sua imprevedibilità mentre ascolto il solo suono del vento tra le palme, mentre risento quelle mani sul mio capo e di nuovo piango senza ragione.

Quando il sole cerca di calare, di tuffarsi nel letto del mare raggiungo i miei angeli che trovo correre spensierati, giocare con l'aria. Ceniamo per l'ultima volta da Julie: il pesce è squisito, la sera rilassata e incredibilmente dolce. Ascolto il fantasticare di Beatrice, mentre l'attenzione di Thubten è completamente carpita dalle immagini di un video che lo porta in trance. Ogni tanto lo pizzico, lui ride gioiosamente come ogni giorno mi insegna a fare. Poi sento quella gioia nascere in me, sulla strada del ritorno e rido, rido, di cosa non so. È una notte eccessivamente calda per la stagione, fatichiamo a prendere sonno. Ogni tanto i miei due angeli si strusciano a vicenda inscenando vere colluttazioni fisiche, ridendo come puliti adolescenti. Il soffio spegne la candela, l'odore di cera è di un tempo già passato.

   

GIORNO VENTI

Dove capisco che la storia degli uomini
è un unico cuore.

   

Lasciamo l'albergo. Beatrice è un pozzo organizzativo, aveva programmato tutto già dalla giornata di ieri per l'ultima notte di Goa. La stanza che ci ha riservato è sobria ed essenziale, ha il tipico fascino di ciò che non si può dimenticare. Posati i bagagli ritorniamo al mare vissuto l'altro ieri, sempre in mezzo all'ombra delle grosse barche, mentre Thubten al villaggio si agita per le incombenze della partenza.

La giornata scivola lenta e senza tempo, il mare è sempre mosso e il mio angelo è ansioso di tornare quanto spiacente di lasciarmi. Mi ha permesso di vivere l'India. Col suo linguaggio mi ha introdotto in questo luogo per me difficile e sconosciuto. È stata un gioiello in una terra di baratto, un gioiello prezioso che, nello scambio, permetteva di acquisire altri doni. L'ho osservata annullarsi nelle onde del mare, sempre al ritmo del vento. L'ho vista pienamente immersa nella primordiale natura in una sensazione pura. Vorrei che il suo spirito perennemente regnasse su questo stato e serenamente glielo auguro.

Il ritorno è lento quando il sole è ancora alto. La mia fatica è un trascinarsi che rinvia solo un tempo. Sono qui, è vero, attraversato da inconsce sensazioni indescrivibili come la bevanda dei misteri eleusi, cariche di magia destinata a un perpetuo ritorno, ma fatica sono anche gli usuali pensieri che volentieri lascio al vento. La scrittura mi pervade in modo totale. Scrivo nella sabbia e nella mente, di continuo. Nessuna dimensione ha logica se non nella metafora essenziale, nel componimento senza sosta la cui traduzione in materia sarebbe un'infinita biografia pulsante, un unico grande cuore. La sospensione potrebbe significare la fine di questa vita, una foglia caduta per caso, per caso appoggiata sull'acqua limpida e verde di alghe di un ruscello che corre veloce e chissà dove.

Così annuso i suggerimenti del vento col linguaggio dei profumi, così osservo i colori col distacco di una non appartenenza, una libertà mai pronunciata.

La sera si presenta tranquilla, tanto che le palme riflettono un istante senza essere stuzzicate dalla brezza. Dopo cena, la serata prosegue in un locale all'aperto dove un gruppo esegue musica soffice, d'ambiente. In silenzio ascolto, i miei amici scambiano chiacchiere e risa. La luna attonita decide lentamente il suo movimento incarnando l'insegnamento di Måyå, l'illusione. Torniamo quando l'aria si diverte e diventa frizzante. I passi si cadenzano al riecheggiare della musica. La rarefatta luce scopre l'aleggiare della costante polvere che nello stupendo capolavoro umano Il sogno della camera rossa è semplicemente la terra di tutti i giorni, come per me ora. Giornata vissuta. In camera osservo Beatrice stringere il suo minuscolo cane di stoffa come oggetto transazionale. Languida sensazione. Proveniamo forse tutti da un identico luogo che contiene differenti pianeti che un viaggio di anni luce può momentaneamente congiungere. Sottile fascino ed eleganza nel volo aperto del pensiero che vede.

   

GIORNO VENTUNO

Un amico sfiorato è già parte di me.

   

Ieri sera ho regalato il mio parka a Reinel. Gli avrei dato anche le scarpe se fossi stato al termine del viaggio. Gli piacevano entrambe le cose. Così stamani, in segno di riconoscenza, mi ha dato il suo coltello antico del quale andava particolarmente orgoglioso. Bella anima, sempre coccolata dal sole che sempre ne avverte il leggero tepore. Porta alla tua Los Angeles la coscienza della generosità e del dare, porta le tue nude e aperte mani a chi ingenuamente è costretto a credere al denaro e da questo dipende. Un amico appena sfiorato è già parte di me.

Qualcosa di singolare succede nel tardo pomeriggio quando un sarto, che avevo notato altre volte in strada a cucire, mi chiama. Vuole dirmi che in me ha visto una buona persona e che non lo fa per mero interesse. Strano uomo e strana categoria la sua. Louis Powell dedica l'introduzione del Mattino dei maghi a suo padre, un sarto per l'appunto, che fischiettando affermava che "al cielo si sale con le mani". Buona persona, riferito a me o chi altro, disincantato e vuoto?

Tra due ore circa dovrò lasciare il luogo. Beatrice e Reinel decidono di accompagnarci fino al terminal dove arriviamo più che puntuali. In una terra sconosciuta i distacchi diventano più evidenti, più sofferenti, il pianeta sembra terminare lì, il suo cielo ignorata vita che si paventa. Tra noi aleggia una fine nostalgia, imprevedibile quanto acuta. Ci scambiamo vaghe promesse che nell'istante hanno il perfetto profumo della verità. Mentre Reinel mi dice che è stato felice di conoscermi, Beatrice elegantemente cerca un contegno. L'abbraccio con l'identica pulizia della notte di stelle, sussurrandole un addio che lei trasforma in un sicuro rivedersi. Ha operato in tutti i possibili modi per ottenerlo: foto sua, magliette nella mia borsa, oggetti che trovo quando il bus, carico all'inverosimile, lascia Goa insinuandosi nelle verdi colline. Per un certo tempo lascio il finestrino aperto e mantengo l'atteggiamento di chi si lascia pensare dall'aria reflussa di un'apertura. Thubten ride di gioia. La sua terapia di liberazione, ridere sempre di tutto, non ha limiti. Inizia a provocarmi con quel dialogo espressivo di parole e gesti. In tutta risposta lo assalgo fisicamente facendogli solletico. Non ho altro da fare o chiedere a un grande amico trovato, angelo scuro della terra soggetto a un'invidiabile semplicità. Grande insegnamento.

[ ... ]

   

GIORNO VENTISEI

Dove l'essere divora continuamente se stesso.

   

Lobsang Yeshe è qui perché ha seri problemi di sinusite e proprio oggi entra in ospedale. Io e Thubten lo accompagniamo e, dopo una forte stretta di mano, lo guardiamo scomparire all'interno dell'edificio. Una delle altre infinite storie dignitosamente umane. Trovandoci in una zona favorevole della città, pretendo categoricamente che la mia guida mi conduca a visitare posti di importanza come monumenti o musei invece del solito shop tibetano che pare molto gradire. Tenta in tutti i modi di farmi desistere adducendo le più meschine scuse, ma riesco egualmente a spuntarla, più o meno e solo in parte. Difatti mi conduce in alcuni sotterranei pieni di negozietti anni '60 europei. È stata una vana supplica. Pazienza, questa è una delle cose che lo incantano e così me la dona. È bene sapere che lui non rinuncia ad un solo pranzo o cena, mangia sempre e di tutto, anche cose indescrivibili. Quindi prima pranziamo, poi si ritorna a casa. In camera si copre il volto con l'accappatoio e inizia la sua meditazione sul sogno. Anche lì lo seguo.

Si sveglia facendo congetture su Angela e Deivi formulando le più strampalate ipotesi e previsioni. Nessuna delle sue speculazioni si rivela vera ed è Deivi a informarci. Dice che Angela è appena partita per Puttaparthi e lei ritornerà per il fine settimana nello Sri Lanka. Il mio sguardo di sufficienza, che è da intendersi buono, lo raggiunge in modo penetrante, e lui? Non certo si dispera per i clamorosi errori. La sua platealità lo sorprende a rovesciare la sedia dalle risa e alla successiva fuga sperando nell'inseguimento. Invece, senza tradire un sorriso, rimango elegantemente impassibile e continuo a scrivere. In un secondo tempo mi informa che il bus parte alle 20 e, ahinoi, non c'è nemmeno il tempo per la cena. Grave, molto grave, visibilmente contrariato.

Di nuovo strada e ancora strada, mai fermi, quasi un'infinita energia. Per il denso smog e la costante polvere tengo il foulard a coprirmi il volto lasciando liberi di vedere solo gli occhi. Come sempre lascio aperto il finestrino a scorrimento laterale (questo autobus ce l'ha), e quando le luci al solito scivolano lentamente il morrongo sta già sonnecchiando. Potenza dell'animalità, una forza della natura, vero zen. Entrambi parliamo lo stesso inglese degli animali, se mai ne dovessero sentire il bisogno, lui, devo ammettere, un filo meglio di me. Per questo e altri inenarrabili motivi ci comprendiamo alla perfezione in una totalità comunicativa fatta di gesti e fischi o grugniti, se è il caso. La lingua è semplicemente un tappeto. Così gli chiedo se la strada attraversa le colline. Mi garantisce una grande, liscia, scorrevole, pianura prima di sprofondare definitivamente nel sonno.

Passano alcuni chilometri e mai, dico mai, in tutta la mia esistenza terrena, mai viaggiato su simili indefinibili strade. Un continuo sali e scendi su terreni completamente sconnessi con buche tanto enormi da sbattere il capo sulla plafoniera del mezzo. Forse non esiste neanche un tracciato. In un momento di apparente calma mi avvento sul suo naso mentre gli mordo l'orecchio destro: "Mi mancherai, stupido animale!".

Sono le ultime parole nella mia lingua, poi il silenzio. Silenzio, pensiero e alcune lacrime che senza motivo affiorano. È un viaggio d'acqua, d'acqua salata.

Sono in un dormiveglia nervoso quando il bus si ferma. I miei sensi da tempo acutamente dilatati avvertono nell'odore, nel gusto, un che di strano in una sensazione vagamente somigliante alla paura e più vicina all'agitazione. Finora sono sempre stato l'unico occidentale su questi incredibili veicoli. Ho viaggiato in mezzo a mille volti inusuali abituandomi a poco a poco alle curiosità. In fondo provengo da un passato che fino a questo punto reputo importante, esperienziale, ma qui tutto pare magicamente scomparire.

Scendo, seguito da Thubten che vuole assolutamente mangiare. Mi si paventa una insolita visione. Siamo in cima a una collina di terra, i fuochi accesi ovunque paiono a regolare distanza. Niente luna, notte profondamente nera. Un gigantesco albero protegge una baracca fatta di assi nella quale ci si può ristorare. È l'unico, solo albero, l'unica sola presenza vegetale. Le fiamme crepitano come preghiere esorcizzanti la notte fonda e la polvere sempre aleggia. Vorrei continuare a sognare, vorrei scegliere di dormire, svegliandomi in un verde prato di muschio autunnale, ma sospinto da un automatismo trasparente e quasi ipnotico entro all'interno del chiostro sedendomi immediatamente all'unica tavola di assi grezze. Thubten mi è di fronte ed è più che tranquillo quando depositano sulle foglie di palma del cibo raccolto con un mestolo da un secchio di metallo. Mangio a testa bassa, il piccante mi entra nelle viscere e non ho l'ardire di guardare l'assoluto silenzio che si è creato nel momento in cui sono entrato.

Sei uomini, neri come pietre di luna, vestiti di solo perizoma si avvicinano in silenzio alla mia sinistra. Iniziano un anomalo rituale guardandomi l'attaccatura dei capelli, i peli nel naso, le sopracciglia, le mani, alzandomi le palpebre per scrutare da vicino l'occhio. Io non oso distogliere lo sguardo dal cibo. Si rivolgono alla mia guida in un idioma che lui comprende e che incredibilmente anche io comprendo. Gli domandano chi io sia, da dove provengo, dove sto andando, perché sono così vestito, come mai sono lì. Thubten risponde molto seriamente con una perfetta gestualità dicendo infine che sono l'amico che proviene da lontano. Quando il silenzio totale di nuovo scende e pervade l'intera atmosfera avverto qualcosa di inquietante sempre alla mia sinistra. Lentamente volgo il capo e vedo un enorme membro penzolare a pochi centimetri dal mio volto. Alzo lo sguardo e trovo che il portatore di un simile eccezionale attributo è un personaggio di indefinita età, scuro come gli altri ma con capelli lunghissimi e barba impastata da non so che. Non ho nemmeno la forza di opporre nessun sentimento quando, girandosi, mi presenta la parte posteriore. Il suono di una potente emissione di gas intestinali incredibilmente senza odore investe tutta la mia persona e dura un'indicibile infinità di tempo, oltrepassando qualsiasi norma da me conosciuta. Rimango attonito a osservarlo scomparire tra i suoi precedenti personaggi che si aprono in due gruppi per poi richiudersi al suo passaggio.

Sono esterrefatto, senza parole, senza pensieri. Questa volta, e mai dimostrazione materiale fu più evidente, sono veramente nulla e al medesimo istante non più il nulla di prima. Non c'è niente che mi importi: non sono più io. Del resto, che cosa potrei essere dopo un simile evento? Passano, credo, solo pochi istanti quando velocemente mi alzo, completamente sveglio e in assenza totale di emozioni. Non ho più niente da difendere e disperatamente esco per cercare quel gigante dello spirito ma, fuori, solo vento, polvere e fuochi. Dove sarà mai? Chiedo disperatamente a chiunque, ma nessuno ha visto né tanto meno sentito. Guardo intorno spingendomi nella notte, invano. Ero un predestinato inconsapevole alla mutazione. L'iniziazione dell'aria ha spazzato quel che rimaneva di una presunzione arcaica. Quando, inebetito, sul bus rivivo i momenti, mi sovviene l'unico grande albero come la sola dimora possibile per uno spirito dell'aria, certo di non poterlo mai affermare per il resto della mia esistenza terrena mentre i fari incrociati continuano a tradire una fitta nuvola di polvere smossa. Quella di sempre, la polvere, la solita, costante terra che tenta di confondersi col cielo caduco.

   

GIORNO VENTISETTE

Grazie alla poesia di Aurobindo individuo il futuro.

   

Tamil Nadu, la terra immaginata libera con una rivoluzione armata a piccole cellule, dal Tilak e da Aurobindo. La stazione bus di arrivo è fuori Pondicherry. Che fare? Niente paura, c'è la guida che sta già muovendo le cellule della corteccia cerebrale. Secondo lui aspettiamo fino alle sette, ora in cui riaprono gli sportelli, per acquistare il biglietto della sera successiva, come programmato. Nel frattempo, io scrivo. Alle quattro del mattino è un bel modo di esordire un proposito direi ispirato, se non fosse per l'invasione di zanzare. Meglio prendere le redini del gioco. In attesa dell'ora in cui iniziare la ricerca di una sistemazione decido di andare in riva al mare. Pondicherry è a est, verso l'alba. Così attendo incantato dal colore che evolve e cambia lentissimamente l'intensità.

È una delle più belle aurore del pianeta e l'emozione è talmente avvolgente che la mente è sciacquata dalle onde del mare, i pensieri dalla sabbia bagnata. Le nuvole all'orizzonte si modificano per mio piacere disegnando il cielo. È ancora acqua che compone la vita di sempre. L'oceano. L'oceano indiano. Non sono il perfetto uccello, né il volo. Non ho desideri ora, nessuna definizione. Sono solo la mano poggiata alla spalla quando entrambi ci accovacciamo. Il lungomare sembra non finire mai e a distanze regolari bassi cilindri di cemento ospitano bianchi meditatori seduti prodromi al miracolo che si ripete.

Quando la gigantesca palla invade completamente lo spazio troviamo una modesta ma pulita sistemazione poco distante. Dopo aver riposato, pranzo su una terrazza di fronte al mare e consultando la mappa finalmente trovo la collocazione dell'åçram.

Raggiungerlo non presenta difficoltà. Entro con la mia guida, in modo quasi timoroso senza alcuna aspettativa e involontariamente lo stato percettivo e sensoriale si dilata. La testa sembra perdere coscienza pur rimanendo perfettamente desta, i movimenti diventano automatici al limite della stanchezza che precede il sonno. Penso a una conseguenza dell'ipercinetismo di questo viaggio, alle infinite endorfine liberate, ad alcaloidi spontanei perché questo è quasi uno stato usuale. Così vedo_

All'interno regna silenzio e intelligenza, ma un'intelligenza raramente respirata. Nel cortile vi è la tomba in cui riposa il maestro incredibilmente coperta di fiori accuratamente disposti. Sento, come dire, la sua aura aleggiare sul luogo e su tutta Pondicherry, me compreso. I fiori sono ovunque nella costruzione. Persone chiuse in sé dalla concentrazione meditano sedute per terra. Ed è quello che cerco anch'io di fare. Thubten sta già in un angolo, silenzioso nella sua veste rosso cupo. Una suggestione mi pervade, a occhi semichiusi osservo colori, sento profumi, individuo le ali dell'ape. Sento una forte presenza e una grande energia che regala pace e ancora qualcosa che non potrei linguisticamente riprodurre. Allora capisco di aver trovato ciò che non cercavo e che non stava nei miei desideri ma che riveste un'importanza tale da essere integrante nel mio futuro. Le mie cellule fremono come a volersi spostare a dispetto di un corpo immobile. Ero venuto per Aurobindo il poeta, nient'altro sapevo.

"Ho visto i bambini dagli occhi di sole scendere in mezzo a noi". Questa fascinazione incredibile di un cambiamento, di una metabletica verso l'umano, mi ha portato qui a vedere la stanza col pavimento in mattonelle consumate dai passi in anni di vita di questo straordinario poeta, autore della Savitri, vivente epopea della vittoria sulla morte. E ben altro trovo che questa semplicità! Trovo uno spirito sconosciuto che parte da un'intelligenza che mai avevo fino ad ora contattato.

"Non esiste progresso spirituale senza progresso materiale". Questo assioma ha portato qui migliaia di occidentali, e oggi nella consapevolezza di una mutazione cambia il mio futuro nelle cellule cerebrali che vibrano ad una tonalità sconosciuta. Respiro lo spirito e la forte energia mi stordisce, mi porta semicosciente ad armonizzarmi col silenzio. Sono ancora in questo stato quando esco ma non sono il solo, anche la mia guida è incredibilmente seria e silenziosa. Passeggiando così, senza meta, ci troviamo nel giardino botanico, discreto nel suo complesso, a osservare incantati una scuola di bambini che sotto la guida di un'insegnante imparano semplici passi di un balletto. Poi, ancora a zonzo.

Come fosse una meditazione camminata, la mia attenzione viene attratta all'interno di un edificio ove c'è gran movimento. Mi fermo sulla soglia e forse perché, strano caso che continua a ripetersi, unico occidentale, vengo invitato a entrare con un dono. Thubten è contento di seguirmi. Si sta svolgendo un ricco matrimonio indiano. Nella sala le sedie sono disposte trasversalmente in modo da poter osservare due palchi opposti tra loro. Sul primo il trono degli sposi e sul secondo i suonatori. Telecamere sparse ovunque mixano i video, mentre la cerimonia rispetta gli antichi rituali. È un insolito sincretismo di tradizione e modernità. I musicisti sono di due gruppi diversi,

l'uno etnico totalmente acustico, l'altro con tanto di batterie elettroniche. Alla mia guida, ovviamente, piacciono molto i secondi e non riesce a staccarsi dalla sedia, attentissimo. Ne approfitto ancora una volta per colorare di scrittura il notes che ho sempre nella tasca. Lasciamo il posto quando fuori è già terminato il crepuscolo.

Dopo la solita doccia ho la brillante idea di portare Thubten al ristorante francese dell'Alliance, un club privato. Una diversa esperienza. L'ambiente è raffinatissimo e il mio amico si trova un po' a disagio ma cerco di agire in modo da tranquillizzarlo. Vorrebbe mangiare il suo solito riso e chicken masala (pollo in umido), ma qui non è proprio il luogo. Gli ordino comunque ciò che desidera, cucinato però in diverso modo. Per non metterlo in imbarazzo sostituisco il suo piatto al mio e spolpo le ossa separandole dalla carne perché non ha l'abitudine di usare il coltello. Visibilmente apprezza e la sua semplicità fa sì che a tutto si appassioni, soprattutto alle crêpes al cioccolato. Il conto è piuttosto salato per il sub-continente, con quel denaro lui avrebbe pranzato almeno trenta volte! Si stupisce di questa noncuranza nella capacità di espansione.

Nella notte fonda, con un oceano che sonoramente sfuma alle nostre spalle, camminando affabilmente arriviamo in centro. Ai bordi delle strade, indigenti si preparano per la notte. Percepisco in lontananza e vengo attratto dall'immagine di una donna con abiti laceri che culla il sonno del suo bambino. Vedo che una madre lo è al di sopra di tutto e in tutto l'universo. L'amore ha infinite, impenetrabili sfaccettature, prismatico come un diamante perfettamente tagliato dove al suo interno la luce si colora.

Sono venuto a Pondicherry per Aurobindo. Di lui altro non conoscevo se non i pensieri e le poesie. Ero qui per il poeta e ho sentito il futuro. Sono qui affinché non termini la poesia, almeno nella vibrazione del sogno. Rispetto ad altri visitatori avverto un identico e al tempo stesso diverso motivo, e oggi penso di essermi totalmente arreso al fato, senza casualità.

Niente c'è a caso. In stanza, Thubten continua a giocare col citofono che non funziona. Gradisce molto lo strumento. Finge di parlare con le ragazze che secondo lui hanno attirato la mia attenzione e per chiarire, solo secondo il suo personalissimo parere. A volte impartisce ordini per la colazione o la registrazione dei passaporti. Mi sforzo, ma non riesco a trattenere le risate a squarciagola. La gioia mi invade completamente facendo tabula rasa di pensieri e sensazioni. È buffissimo, da circo snaturato dal luogo. Poi mi dà la buona notte coprendosi il volto col lenzuolo mentre sto ancora scrivendo. Lascio passare alcuni istanti e poi, scoprendolo velocissimamente, lo assalgo rimangiandogli l'orecchio, cosa che pare gradire più del chicken masala. L'ilarità è ancora un'eco che si ripete nella stanza quando la testa si appoggia con delicatezza sul ruvido cuscino.

   

GIORNO VENTOTTO

Il matrimandir, costruzione dell'anima.

   

Stamattina, a bordo di uno scooter rosso fuoco, i due argonauti riprendono la strada. Per uscire dalla città è necessaria un'impresa pari a quella di un incarnato Eracle moderno. Inutile riportare le prime difficoltà della circolazione a sinistra in pieno caos indiano, una materializzata anarchia di traffico, la realizzazione di un sogno sulla strada. Mi stupisco di come riesco a raggiungere indenne la strada statale. Per gentilezza, per cortesia o delicatezza, qualunque indiano risponde sempre alla richiesta di informazioni, e se ignora la soluzione la inventa. Così un percorso che avrebbe dovuto essere di pochi minuti dura in realtà due ore e mezzo. Dovrei scegliere con più accortezza gli informatori, ma non saprei riconoscere segni su facce imperscrutabili. Ammetto però che la campagna e i boschi che attraverso sono a dir poco incantevoli. Ispirato sicuramente dal paesaggio, il mio amico canta a squarciagola e dà le indicazioni. La terra è di un rosso cupo mai visto, i profumi si alternano agli occhi dinamici. Attraversiamo zone rurali e villaggi su strade appena tracciate e finalmente trovo ciò che cerco.

Entriamo ad Auroville attraversando un fossato, allargando il buco nella rete metallica per far passare la moto, da una parte in cui credo nessun essere senziente entrerebbe. Regna una buona atmosfera e i colori sono natura pura. La città nasce nell'idea e nel sogno di Mère. L'idea che dovrà pur esserci, sul pianeta, un luogo libero dal denaro e dalle proprietà dove le persone possano differenziarsi per spirito e intelligenza. Ha la planimetria dell'ibisco indiano, un centro e quattro grandi petali. Il centro è costituito dal matrimandir, enorme costruzione evocata da una intuizione occulta di Mère. Il terreno è molto vasto e le strade di polvere innumerevoli. Tutta l'architettura è integrata come parte del luogo e rispetta perfettamente un pensiero di futuro materiale. Auroville mi si presenta come un incanto di gente e di bambini.

Visito la scuola dove forse, lì, avrei studiato veramente e non come la vita ha voluto. Avrei avuto tutto ciò che qualsiasi energia desidera: alberi, erba, spazio, strutture, terra e acqua e umani che paiono perennemente soffusi. Per un attimo ritorno bambino e vivo l'emozione del gioco infinito che potrei inventare. L'immagine cambia e una magia scende come alito sui petali di rosa. Tutto ciò che ho scordato, senza attaccamento, ritorna. Mai sentito l'odore dei serpenti, delle cicale, dell'erba appena tagliata? Sto ancora sognando quando arrivo alla grande struttura dello yoga collettivo che, deserto, suggerisce moltitudini silenziose. È un grande anfiteatro futurista dal quale si intravede l'imponente, non finita, costruzione del matrimandir.

Da un improvvisato cicerone vengo a sapere che l'ingegnere che si occupa dei lavori è un italiano che ha casa poco distante. Decido di incontrarlo e sulla porta vengo accolto da quella che scopro essere la moglie, anch'essa impegnata come architetto nella realizzazione. Il racconto è affascinante ed esauriente e spazia dalla posa della prima pietra della città a quella che poi si rivela già termine di un'utopia. È un altro fortunato incontro che si somma ai precedenti. Entrambe le persone possiedono il fascino della storia; entrambe raccontano la vita che a differenza di infinite altre possiede un contenuto. Vengo da loro invitato a visitare l'interno del matrimandir. La sala superiore dovrà essere inaugurata da lì a due mesi, ma è già terminata.

Lasciando le scarpe alla base, saliamo le rampe a spirale e arriviamo alla cupola. Ne avevo ricevuto la descrizione, ma ciò che vedo all'interno supera in meraviglia qualsiasi aspettativa. Il perimetro dell'enorme sala è sfaccettato in ventiquattro lati, tanto da apparirmi un cerchio. Una circonferenza interna è descritta da dodici colonne di marmo bianco che partono dal pavimento ma non toccano la cupola. Il marmo è lo stesso della pavimentazione. Tutto è in relazione ai numeri del tempo 12-24-60, e così via.

Un'unica apertura al centro in alto. Un sofisticato sistema di specchi convoglia la luce del sole in un unico fascio che collassa al centro della sala in una sfera di cristallo poggiata ai simboli di Mère e Aurobindo che a sua volta distribuisce uniformemente la luce che dalla penombra cambia intensità secondo la mutevolezza del cielo all'esterno. Non si entra nel cerchio protetto dalle colonne. Ci si siede su cuscini nella fascia perimetrale.

La luce che muta è simile a un silenzioso respiro e nessun rumore penetra all'interno. L'intero luogo pare spiritualmente puro per eccellenza, vi regna pace e qualche cosa di più indefinibile in una sensazione che potrebbe volgarmente essere tradotta come pura vita. Scostando leggermente la testa vedo Thubten assunto in una perfetta milarepa position, statuario e immobile questo poliedrico amico. Tutto è delicatamente intenso quando una voce interiore mi suggerisce il futuro e il sussurro recita: "L'umanità possiede il percorso di un'età individuale e ora siamo alle soglie di un'adolescenza. In qualsiasi riferimento finora prodotto lo spirito si presentava come fantasia evocata dai bisogni. Niente si è realmente conosciuto. I sensi dell'individuazione, come parti integranti del percorso collettivo, iniziano a vivere solo alle fine del secondo millennio. L'evoluzione, costantemente lenta, serve alla modificazione reale ed adulta di uno spirito fin qui ignorato. Ci si accontenti di osservare incantati con l'unica certezza di non conoscere niente, il passato è passato, come sempre". Strana storia.

Quando in serata ricordo a Thubten la sua posizione all'interno della sala del cristallo, mi ribadisce i propositi già esposti in questo viaggio denso di minuti. Mi assicura che, dopo gli studi e conseguito il titolo di geshe, si ritirerà in una caverna in Nepal a meditare. Poi scherza e scappa mentre lo rincorro.

Pondicherry, Auroville, l'åçram. Sono stati un'altra India, niente di popolare, niente di plateale, solo respiro di un'intelligenza ancora più grande, un'intelligenza spirituale. Lo yoga integrale di Sri Aurobindo è agente in tutto il tessuto sociale. La chiaroveggenza di Mère fa sì che il sovramentale inizi la manifestazione proprio nei segni di sottile lettura del decadimento di un sistema di pensiero non destinato a durare nel tempo. Tutto è impermanente. Non avrò occhi terreni per vederne la realizzazione, ma in dono ho ricevuto la possibilità di intuire fatti tangibili che dai segni ai loro referenti passano a una semantica momentaneamente ctonia. Sono i pensieri che scivolano allo spostarsi dei paesaggi quando nel crepuscolo riprendiamo la strada e sono ancora acqua sotto una luna non completamente espansa.

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GIORNO TRENTADUE

Il fuoco è il fuoco è il fuoco è il fuoco.

   

Dopo le varie soste e lo stato del continuo dormiveglia, ammiro ciò che non avevo mai veduto. Stiamo viaggiando verso nord e guardando alla mia destra vedo il sole e alla mia sinistra la luna piena, entrambi enormi ma di eguale ampiezza. È stupefacente in piena luce! Opposte dualità si contemplano vis-à-vis in un'armonia che solo la natura possiede trasformandosi in simbolo. A Bangalore arriviamo puntuali. C'è grande fermento, come sempre del resto a tutte le ore. Seduto sui bagagli, mentre Thubten tenta di riprendere contatti telefonici per la mia partenza, ripenso al fuoco. Al fuoco di questo viaggio, al fuoco del tandoori, al fuoco cerimoniale, al fuoco dei forni sempre accesi, ai fuochi nelle campagne attraversate. Il fuoco, elemento purificatore in questa terra che conserva ancora molto dello stato arcaico. È l'igiene per eccellenza e la forza stabilizzatrice, trasforma sostanze altrimenti dannose in sostanze commestibili. Fascinoso, dà colore e luce e tono a paesaggi spenti, consacrando un antico rito al quale sento di appartenere nei recessi dell'intuito.

Il volo per Bombay partirà alle 16, e il mio amico pare voglia accelerare il tempo. Nemmeno per me è semplice il distacco che vedo nelle bolle di sapone di un venditore appoggiato ad una colonna. A casa di Angela ritrovo Santiago che riesce a spostarmi l'attenzione per tutta la durata del pranzo e gliene sono sinceramente grato. Poi decide di accompagnarmi all'aeroporto in risciò. Scegliamo quello giusto, quello che termina il carburante a metà strada. Nonostante il ritardo riusciamo fortunosamente ad arrivare. Ad attendermi all'entrata c'è Orgian, e da lì capisco che anche Penpa è arrivato ma non lo vedo. Credo ci sia qualche problema. Il volo è stato cancellato, un classico. Penpa non è solo, ha con sé due giovani cugini che lo accompagnano. Si ripartirà domani mattina. Decido di rimanere con Santiago, verso il quale provo un'empatia esagerata. La compagnia, Thubten compreso, cerca un albergo per pernottare. Eh sì, perché la mia guida ha deciso di rimanere fino all'ultimo istante. Vuole portare a termine il suo compito, imprevisti compresi. L'incontro con gli altri tibetani gli ha cambiato fortunatamente l'umore e domani inevitabilmente è un altro giorno. La sera in camera Santiago mi mostra tutti gli oggetti ai quali è legato e vuole a tutti i costi farmi un regalo, vuole che porti con me una parte di lui, se così si può dire. Si addormenta mentre scrivo. Il suo respiro mi offre compagnia mentre gusto il piacere della stanza, della sua luce, della confusione che ha sapore di piena libertà.

   

 


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