M. V. Waterhouse
Allenare la mente con lo Yoga

 


 

INDICE

 

1. Introduzione alla Bhagavad-gîtâ
2. Necessità e scopo dello Yoga
3. Vairâgya: non attaccamento
4. I tre passi
5. Risveglio della coscienza superiore
6. Tapas: ascesi
7. La divinità dell'uomo
8. Gli strumenti dello yogin
9. Tirocinio e disciplina
10. Gli stadi della meditazione
11. Il simbolo e il suo significato
12. La devozione
13. La formazione dello yogin
14. Il terzo dono

 


 

PASSI SCELTI

 

INTRODUZIONE ALLA BHAGAVAD-GÎTÂ

I testi sacri sono come grandi statue scolpite da un Michelangelo celeste, le quali si ergono in eterno davanti all'umanità e possono compiere miracoli per coloro che sono affascinati dalla loro maestosa bellezza. Il potere di trasformazione proprio di un'opera d'arte, sia essa spirituale o materiale, interesserà soltanto colui che si libererà di ogni idea preconcetta, da ogni reazione precostituita, e si porrà davanti a una tale opera del tutto indifeso, pronto a riceverne l'impatto.

In questo capitolo presenteremo la Bhagavad-gîtâ a coloro che ancora non la conoscono: i suoi insegnamenti non appartengono né all'Oriente né all'Occidente, ma sono universali; né si confanno a un'epoca particolare, ma sono eterni. Grazie al fatto che esistono ancora gli antichi commentari ispirati, e grazie all'attualità - sul piano psicologico - degli insegnamenti che questo testo ci trasmette, l'uomo d'oggi, l'uomo che appartiene al mondo, troverà in esso grande beneficio e consolazione per le sue afflizioni. In realtà quest'opera è forse diretta più a uomini siffatti che alle anime di alta spiritualità e devozione.

Il nome dell'opera, Bhagavad-gîtâ, significa Il Canto del Signore. Nella Gîtâ il Signore appare come maestro, sicché questo testo di inestimabile valore può essere chiamato anche // Canto del Divino Maestro. Esso fa parte dell'antico poema epico Mahâbhârata (“grande India"), che tratta le vicende dell'India antica, le sue leggende, le sue leggi e i suoi legislatori, imperatori, guerrieri e saggi, e ci trasmette la sua grande ricchezza spirituale, quella divina verità di cui l'India ha fatto dono al mondo.

Uno degli episodi di questa narrazione epica racconta del conflitto che scoppiò fra due famiglie di una stessa stirpe, i Kuru e i Pândava. La controversia nacque in seguito all'atto compiuto dal re allo scopo di proteggere e sostenere il dharma, cioè la legge universale di giustizia. Fermamente convinto che solo ad un uomo giusto spettasse il potere sugli altri, egli aveva nominato suo successore non già il suo indegno figlio (che pure era l'erede legittimo) ma Yudhisthira, il virtuoso figlio primogenito dell'altro ramo della famiglia. Dopo un lungo periodo di ambiguità da parte dei Kuru, e dopo che i Pândava ebbero peregrinato in esilio per dodici anni, scoppiò infine la guerra, una guerra che i Pândava combattevano per difendere un principio di giustizia. Quando ciò accadde, Shrî Krishna, una manifestazione di Dio, si incarnò e discese nel mondo in veste di amico e parente di ambedue i contendenti. È intenzione di Krishna far sì che la giustizia prevalga e, pur rimanendo neutrale, fa un'offerta ad entrambi: agli uni darà il suo possente esercito, armi ed elefanti da combattimento; agli altri offrirà se stesso, disarmato e solo, come auriga. La scelta è lasciata alle due parti in lotta, e così i Kuru scelgono l'immensa armata e le armi possenti, mentre i Pândava scelgono lui, Sri Krishna in persona: a questo punto ha inizio la Bhagavad-gîtâ.

Il primo capitolo della Gîtâ offre una vivace descrizione del campo di battaglia, con i guerrieri che si preparano al combattimento, poi l'attenzione si sposta su colui che dovrebbe essere il valoroso fra i valorosi, Arjuna, principe dei Pândava. Arjuna è uno ksatriya, un membro della casta dei guerrieri. È un uomo d'azione e un combattente nato, uno che dovrebbe trovarsi nel proprio elemento in mezzo alla mischia. Ma la Bhagavad-gîtâ non è il racconto epico di fortune e disgrazie di famiglie rivali, né la narrazione delle gesta dei guerrieri, bensì un documento spirituale in cui non solo viene rivelata la verità riguardo al Sé e all'uomo, ma vengono resi manifesti anche i moti nascosti del suo cuore mortale, e viene insegnato il modo per trascenderli. L'azione drammatica che si svolge nella Gîtâ è accompagnata dal!'esposizione delle regole riguardanti la disciplina, il controllo della mente e del corpo e il sincero rapporto tradizionale che deve esistere fra un maestro e il suo discepolo.

Sebbene il principe Arjuna sia il tipico uomo d'azione, in questo momento egli si trova ad un bivio. Da possente guerriero qual è, ha finora combattuto con distacco, dando prova di abilità e adempiendo ai doveri propri della sua casta senza difficoltà e senza porsi degli interrogativi. Ma ora si trova ad affrontare una situazione che lo mette alla prova come uomo, non come guerriero, poiché ha di fronte a sé degli avversari che sono suoi parenti ed amici: si identifica allora, per la prima volta, con il probabile risultato delle sue azioni, il suo distacco viene meno, ed egli è privato della sua volontà e del suo coraggio. Disperato, si rivolge a Shrî Krishna, (che ora è il suo auriga, ma ben presto diverrà il suo maestro) e gli dice che non combatterà, non sottrarrà al suo mondo la felicità e la vita: piuttosto si farà monaco e si ciberà del cibo dell'elemosina.

Lungi dall'approvare la decisione di Arjuna, Krishna lo rimprovera, gli dice che è un vile, che non comprende la natura e il significato reale dell'azione: egli deve affrontare i problemi della sua vita interiore restando ben saldo sul terreno della sua vita mortale ed esteriore, deve accettare le responsabilità della sua casta, e levarsi a combattere. In realtà Arjuna non ha ancora acquisito il diritto di chiamarsi uomo di pace, illuminato. Più tardi il maestro, nel trasmettergli il suo insegnamento, gli dirà: “Meglio compiere il proprio dovere, anche senza merito, piuttosto che adempiere ottimamente al dovere altrui.

È meglio la morte nell'adempimento del proprio dovere; il dovere altrui è foriero di pericoli”. Ma in questo momento, di fronte alle dure parole di Shrî Krishna, Arjuna si accascia del tutto, riconosce il suo smarrimento, la sua ignoranza di ciò che è bene e di ciò che è male: rinunciando del tutto alla responsabilità di compiere le proprie scelte di vita, chiede a Shrî Krishna di accettarlo come discepolo e di impartirgli il suo insegnamento. Hanno così inizio gli immortali insegnamenti che rivelano la filosofia, la pratica e la disciplina al principe Arjuna e a tutti noi.

Shrî Krishna non si ritira nella foresta insieme ad Arjuna pel impartirgli questo insegnamento: dovrà infatti riceverlo su campo di battaglia, dove il destino l'ha posto, e praticare la concentrazione nel mezzo di una febbrile attività e al colme della tensione. Allo stesso modo gli antichi samurai eseguivano la cerimonia del tè, che è un rituale con un profondo significato spirituale, nel mezzo della battaglia.

Ecco dunque che Arjuna, colmo di fede verso il maestro, di cui avverte il potere e la compassione, siede obbediente nel suo carro da battaglia e ascolta, in assoluta concentrazione, la Verità che gli trasmette il divino auriga, mentre attorno a lui risuonano conchiglie e tamburi, e l'aria rimbomba dei clamori che annunciano l'imminenza della battaglia.

Dobbiamo immaginarlo, seduto in attento ascolto, fino a quando l'insegnamento è completo ed egli può attestare di aver riconosciuto la Verità, sicché i suoi dubbi sono dissolti grazie al maestro. Quando ciò accadrà, per lui non ci sarà più differenza tra vivere e il combattere nel mondo oppure ritirarsi in una foresta a meditare. Il suo destino, in quanto discepolo di Shrî Krishna, divenire il modello del perfetto yogin, uno che si è liberato dai legami dei suoi strumenti, il corpo e la mente, ed è capace di vivere un'intensa vita interiore e al tempo stesso vivere un’intensa vita esteriore altrettanto piena, uno in cui la conoscenza della Verità ha ucciso l'ambizione personale. In realtà egli è destinato a diventare un uomo completo, un uomo libero. A questo punto il lettore forse si chiederà che cos'ha di tanto speciale questo testo da farlo considerare particolarmente rispondente ai bisogni dell'uomo d'oggi.

Tutte le grandi fedi religiose hanno dentro di sé il germe della Verità, ma il modo in cui questo si sviluppa e dà frutto in forma di insegnamento varia a seconda dell'epoca e dell'ambiente. In altre parole, sebbene il desiderio più profondo e segreto dell'uomo sia sempre stato quello di crescere spiritualmente ed essere libero, i mezzi adoperati per cercare di soddisfare questo desiderio differiscono nelle varie epoche. In passato, quanto meno in Occidente, la maggior parte delle persone cercava di ottenere sicurezza e crescita spirituale sotto la guida di un Dio, meraviglioso e onnipotente, che veniva servito con devozione, ma che si riteneva non fosse direttamente conoscibile in questa vita, se non dai santi. I rituali mediante i quali veniva adorato erano una fonte di potere per gli adoranti: ad essi ci si affidava, e venivano riveriti come i canali attraverso i quali la grazia divina scendeva su coloro che avevano fede e devozione. Molti uomini raggiunsero la santità in seguito a questo modo di pensare e alla pratica religiosa, e se la fede non defletteva dal suo oggetto, la gente comune si compiaceva nella certezza di avere accesso a un Potere, servire il quale significava crescita spirituale.

Oggi questo desiderio di crescita e di libertà è più forte che mai, ma si manifesta in forme nuove e curiose. La maggior parte delle persone ritiene che “espansione” ed “eguaglianza” siano sinonimi, ed hanno raggiunto la mediocrità. Esse pensano che l’analisi e il ragionamento possano rivelare la natura di ogni cosa, così sezionano ogni oggetto solo per scoprire che quest'operazione non rivela alcunché. Queste persone non riconoscono l’esistenza di un potere superiore, sicché sono incapaci di devozione, perciò non giunge loro una risposta da nessuna parte. Ogni cosa, incluso l'uomo stesso, viene ridotta al suo comune denominatore di grado inferiore, e sembra avvicinarsi rapidamente il momento in cui l'uomo sarà incapace di rispondere a qualsiasi stimolo spirituale e rimarrà del tutto solo con se stesso. In una delle sue opere in prosa il poeta Robert Graves dice:

Nella nostra civiltà il serpente, il leone e l'aquila appartengono alla tenda del circo; il bue, il salmone e il cinghiale alla carne in scatola; i cavalli da corsa e i levrieri alle scommesse; il bosco sacro alla segheria; la Luna è disprezzata in quanto semplice satellite, ormai spento, della Terra, e le donne sono definite “Personale ausiliario dello stato”.

Tutto ciò appare davvero assai poco promettente, e potrebbe essere fatale se davvero non ci fosse nulla capace di resistere all'analisi critica e tuttavia persistere, immutabile e perfetto. Eppure attraverso tutte le età i mistici d'0riente e d'Occidente hanno affermato che un siffatto elemento, puro e costante, esiste: nella Gîtâ Shrî Krishna lo rivela ad Arjuna e gli dice che questo è il più alto insegnamento di cui può fargli dono. Questa entità immutabile e incontaminata è la Realtà suprema, il Sé interiore dell'uomo: esso è qui, a portata di mano, eppure l'uomo intraprende un lungo viaggio alla sua ricerca.

Conobbi una volta un bambino al quale i genitori permettevano di fare sempre a modo suo, affannandosi a spiegargli che non c'è niente di assolutamente sbagliato o cattivo, che in realtà tutto è buono e giusto: semplicemente alcune azioni danno un po' di fastidio agli altri. Un giorno, dopo avere pazientemente cercato di stupire, o quanto meno di provocare una reazione da parte di qualcuno, scoppiò in lacrime dicendo: “Ma non c’è proprio niente che io posso fare?”. Allo stesso modo, ai giorni nostri l'umanità sta distruggendo ogni cosa, ma guardandosi dietro le spalle per tutto il tempo, sperando che la retribuzione possa venire da qualcuno più potente di lei, e lamentandosi: “Non c’è dunque nulla che io non posso distruggere?”. Può darsi che questo non rappresenti un'elevata manifestazione di un'esigenza spirituale, ma finirà per diventare tale. Infatti, l'uomo, quand'anche aderisca a dottrine improntate a scetticismo e materialismo, non cessa mai di lottare disperatamente per affermare il suo personale diritto, la sua personale esigenza di possedere ogni cosa in cielo e in terra, compresa la felicità e un'autorità e un potere quasi divini. Hari Prasad Shastri ha attribuito questo desiderio ai segreti messaggi che l'uomo riceve dal suo Sé nascosto e dimenticato, messaggi che vengono male interpretati.

Da secoli l'Oriente ha perfezionato l’arte dell'analisi e ha raggiunto un punto oltre il quale ragione e analisi non possono andare: quindi i saggi scoprirono che cosa c'è oltre quel punto basandosi solo sulla percezione interiore purificata e illuminata. L'uomo d'oggi continua a giocare con strumenti mentali e, se si vuole guarirlo da questa cattiva abitudine (non è infatti una malattia incurabile, ma solo un'abitudine che a poco a poco si è insediata in lui) deve, come un drogato, disintossicarsi un po’ per volta e non smettere di colpo senza adeguata preparazione. Questo è il primo dei molti motivi per cui i metodi d'Oriente sono particolarmente adatti all'Occidente d'oggi: infatti gli antichi maestri bandirono dalla pratica ogni premura, poiché sapevano che la mente era stata rivolta all'esterno così a lungo che sarebbe occorso del tempo per correggerla; quindi non incoraggiarono una brusca inversione di tendenza, ma un processo lento e graduale. Essi accettarono gli evidenti limiti del loro discepolo e li sfruttarono ai fini dell'insegnamento, consentendo al discepolo stesso di continuare ad avvalersi della ragione, ma solo perché si rendesse conto che la ragione ha dei limiti ben precisi. Incoraggiarono dunque il discepolo all'analisi fino al punto in cui il procedimento lo lasciava esausto, ma egli doveva analizzare la propria mente e le proprie emozioni. Solo dopo un lungo apprendistato, quando la fiducia nel maestro si era rafforzata, questi rivelava al discepolo la sua vera natura, la causa reale della sua insoddisfazione e della sua arroganza, i suoi sogni di potere e di piacere: questo è il metodo che vediamo all'opera nella Gîtâ.

In Oriente si usa una similitudine per descrivere questa tecnica Immaginiamo che vogliate mostrare ad un amico una stella lucente. Uscite insieme all'aperto nella notte e l'amico volge in alto lo sguardo al cielo pieno di stelle, milioni e milioni di stelle: come può individuare fra le altre quella particolare stella? Gli dite allora di smettere di scrutare il cielo e lo invitate a rivolgere la sua attenzione ad un ramo di cedro che pende sopra un piccolo stagno poco distante. Il vostro amico è sorpreso ma obbedisce, e voi guidate il suo sguardo proprio in direzione del ramo, dicendogli che là vedrà la stella.

In questo modo può scorgerla facilmente, mentre non ci sarebbe mai riuscito senza aiuto e senza preparazione. Allo stesso modo il maestro promette di donare al discepolo la Verità suprema, ma per prima cosa dirige l’attenzione del discepolo sulla mente: il discepolo allora mette a fuoco la mente mediante la disciplina e vi si applica con assiduità.

Il maestro sottopone quindi ad esame il cuore del discepolo; e questi diviene un devoto. Poi il maestro richiama l'attenzione del discepolo sull'importanza e sul significato del dharma - la legge di giustizia - e sulle necessità dei suoi compagni, e il discepolo si accinge a divenire una persona dedita a servire gli altri nel fermo e costante convincimento che il maestro lo guida verso una condizione in cui potrà scorgere la verità ultima: sa infatti che il maestro ha il potere di rivelargliela. Essi si avvicinano sempre di più al loro obiettivo, poi, quando lo sguardo del discepolo è fermamente rivolto verso l’alto, il maestro pronuncia le parole che consentono agli occhi di vedere la luce: questa visione durerà per sempre.

Lo stesso metodo è impiegato nella Gîtâ. Da un punto di vista mondano Arjuna è persona di vasta esperienza, avvezzo a comandare, ambizioso e geloso del suo onore. Tuttavia prima di giungere all’illuminazione e ricevere il più alto insegnamento, gli vengono impartite istruzioni riguardanti la tecnica per controllare la mente e i sensi, e concernenti altresì la disciplina, l'obbedienza, il servizio, la devozione e la meditazione. Rivelando progressivamente ad Arjuna una bellezza, un potere e un destino più grandi di quelli che ha finora concepito la sua mente mortale, il maestro corregge la concezione dei valori propria del discepolo: in altre parole, guida il suo sguardo nella giusta direzione. Solo quando ciò è stato fatto viene indicata al discepolo la via attraverso la quale potrà conoscere la Verità suprema.

Racconta una leggenda che un giorno, mentre sedeva fra i dignitari della sua corte, l'imperatore Akbar tracciò una linea sul muro e sfidò chiunque ad accorciarla senza tagliarla o cancellarla. Per un po’ di tempo nessuno si mosse o parlò, poi il ministro Birbal si avvicinò alla parete e tracciò un'altra linea, più lunga, accanto a quella tracciata da Akbar. Il vero maestro non cancella la linea tracciata dal discepolo, ma traccia accanto ad essa un'altra linea più lunga. Il principe Arjuna, uomo d'azione, non si muta in un individuo contemplativo, ma diviene una persona che agisce da illuminato, il cui unico potere è ora il potere di Dio: ma in lui la motivazione religiosa non nasce se non ha origine da Dio stesso.

Si dice che questo lento processo di acquisizione della saggezza spirituale, come ogni conoscenza in questo campo, comprende tre stadi: questi non devono essere necessariamente considerati come separati o privi di connessione reciproca, poiché ciascuno di essi deve essere operativo se si vuole che diventi realtà ciò che all’inizio era una teoria. In un primo tempo la realtà deve essere udita, compresa e provvisoriamente accettata. In sanscrito questo è detto shravana, cioè “ascolto”. Questa verità deve poi essere assimilata: occorre meditare su di essa fino ad afferrarne il significato. Questo aspetto è chiamato manana, ossìa “riflessione su un argomento. Il terzo stadio consiste nell'identificazione con la verità che si è udita, su cui si è meditato: durante tale processo essa diviene una realtà e non abbandonerà più la coscienza del discepolo. Ciò è detto nididhyâsana. Si può dire che è come se vi venisse offerto un pasto: voi lo accettate, lo consumate, lo digerite; allora esso diviene parte del vostro essere, arricchisce il vostro sangue, vi dona vitalità, talvolta riesce a modificare perfino il vostro temperamento e i vostri pensieri.

Si può dire che il principe Arjuna segue questa progressione. Dapprima il maestro gli parla della sua natura inferiore e di quella superiore, e richiama la sua attenzione sulle armi psicologiche di cui egli dispone: volontà, capacità di concentrazione, devozione e vitalità. In questo stadio l'insegnamento psicologico viene impartito in modo estremamente dettagliato, ma fin da principio il maestro dice ad Arjuna che egli ha dentro di sé qualcosa che non svanisce quando il corpo si dissolve, e gli insegna che il suo Sé superiore è tutt'uno con la Realtà suprema. Lo shravana è ora completo e Arjuna viene esortato a praticare il manana che consiste nel riflettere sul significato di ciò che gli è stato detto: egli deve meditare con animo devoto concentrandosi sul Signore, il Dio personale, e deve imparare a vedere nel Signore il substrato di tutti i fenomeni e di tutti gli esseri. Praticando questa devozione, questo manana, si prepara la via alla condizione di nididhyâsana, nella quale Arjuna condurrà una vita di assoluta devozione, pur seguitando a percorrere la strada che il destino gli ha assegnato nel mondo.

Tutti questi insegnamenti vengono impartiti nei primi capitoli della Gîtâ: niente di nuovo vi si aggiunge, ma in seguito il modo in cui l'insegnamento è ripetuto diviene più interiore o, per meglio dire, le conseguenze che se ne traggono sono più profonde, nascoste e di vasta portata. Gli insegnamenti della Gîtâ, come si è detto, sono diretti principalmente all’uomo d'azione, all’uomo che opera nel mondo: perciò, sebbene vi si affermi la verità dell'Assoluto, la Realtà suprema, si avverte il discepolo che coloro i quali rivolgono il loro pensiero all'Immanifesto incontrano maggiori difficoltà rispetto a coloro che sono devoti al Signore dotato di forma, al Dio personale.

Il discepolo viene poi invitato a rivolgere il suo cuore e la sua mente soltanto al Dio personale, facendo sì che il nididhyâsana avvenga in questa forma fino a quando egli sarà guidato ad uno stadio più avanzato. Shri Krishna, che è ad un tempo il Signore incarnato e il Dio personale, enuncia ad Arjuna due verità. La prima è: “Qualunque sia la forma in cui gli uomini mi adorano, in quella forma io.porto a compimento i loro desideri”. La seconda è: “Il supremo Sé è il Conoscitore più profondo del profondo, di forma inimmaginabile. Egli è splendente come il sole”. Non vi è diversità nel Brahman, il Supremo. Egli in verità è Uno senza secondo: ogni differenza risiede nell'uomo, nel livello di purezza e di comprensione della sua visione sovrasensibile. Dolore e sconforto invadono il discepolo il quale crede che la sua capacità di devozione sia più elevata e più astratta di quanto è in realtà.

Per giungere all'illuminazione tutti devono passare attraverso una porta stretta e bassa: solo chi piegherà il corpo e abbasserà il capo uscirà dalla prigione. Pertanto, per un lungo periodo, praticare la devozione e servire il Signore costituiscono la regola. A questo punto occorre spiegare il significato della parola “devozione”, in particolare nell’Adhyâtma-yoga, nel caso vi siano persone che dicano a se stesse: “Io non sono emotivo: l'amore di Dio e la devozione non fanno per me”.

Secondo questo Yoga, la devozione non è necessariamente emozione, ma è la capacità di identificarsi con un oggetto e di riconoscere la propria fondamentale unità con quell’oggetto. Quando questa identificazione diviene intensa, essa fa sì che si divenga tutt'uno con l'oggetto.

Per ripetere l'insegnamento della Gîtâ su questo punto: non può esservi contemplazione dell'Assoluto nel senso ordinario del termine, poiché l'Assoluto non ispira amore umano e adorazione: è il Dio personale che suscita nell'animo l'amore e la devozione. Tuttavia, l'uomo ha dentro di se il sentimento dell’infinito e perverrà infine alla consapevolezza che egli e infinito. A questo proposito voglio citare le parole di Meister Eckhart, parole meravigliose, ma quasi sconvolgenti allorché si odono per la prima volta.

In se stesso Egli non è Dio, solo nell'uomo Egli diviene Dio. Io chiedo di essere libero da Dio, vale a dire che Dio con la sua grazia possa guidarmi entro l’Essenza, quell’Essenza che è al di sopra di Dio, al di sopra di ogni distinzione. Io potevo entrare in quella stessa eterna unità che esisteva prima di ogni tempo, quando ero ciò che potevo e potevo ciò che ero; in quella condizione che è al di là di ogni accrescimento e di ogni diminuzione; in quella immobilità grazie alla quale tutto è in movimento.

Queste sono le parole di un uomo di Dio, un’anima che ama Dio ma anche un'anima che cerca, che tende consapevolmente verso la condizione assoluta.

Ora il principe Arjuna ha completato il suo apprendistato, ha meditato sugli insegnamenti e li ha assimilati. Ha superato ogni ostacolo e ha visto il Signore, “il supremo tesoro dell’uniniverso”, come egli lo chiama. Arjuna si dichiara ora in pace con se stesso e afferma:

Distrutta è la mia illusione. Mediante la tua grazia ho conseguito la conoscenza della vera natura del Sé. Ora sono fermo nei miei propositi, e i miei dubbi sono svaniti: obbedirò dunque ai tuoi voleri.

Così dicendo impugna il grande arco e avanza sul campo di battaglia, pronto a lottare: riuscirà così vittorioso su tutti i piani.


 

GLI STRUMENTI DELLO YOGIN

Vi sono persone che, avendo letto libri piuttosto altisonanti sullo Yoga, o avendo udito trattare l'argomento in modo superficiale, sono propense a credere che la pratica dello Yoga sia irta di difficoltà e di ostacoli. Indubbiamente difficoltà e ostacoli esistono, ma il problema interessante è comprendere da dove sorgano: è forse la pratica che comporta queste insidie? Se è così, i discepoli devono essere dei modelli di determinazione e forza d'animo, trovandosi a fronteggiare impedimenti inaspettati che non dipendono da loro. Oppure si tratta di un sentiero ben spianato, dal momento che è già stato percorso migliaia di volte? In tal caso è forse il discepolo che, a causa dell'inevitabile ignoranza da cui è affetto agli inizi, si crea i problemi che incontra sul suo cammino? Questa seconda alternativa è quella giusta, come spero di riuscire a dimostrare.

C'è un antico racconto che dimostra come anche le persone di animo nobile ammettono malvolentieri la propria responsabilità riguardo agli errori che commettono. C'era una volta un uomo che era devoto a Shrî Vishnu: aveva costruito un magnifico tempio per adorare il dio e, quando venivano dei visitatori alla sua casa (il che accadeva molto spesso) li portava sempre a visitarlo. Invariabilmente essi esclamavano in coro: “Che meraviglia! Che luogo di elevazione spirituale!”. Allora rispondeva: “Ebbene, sono un devoto di Shrî Vishnu, ed egli mi ha accettato come suo discepolo. Tutto deve essere perfetto per lui”. Talvolta accadeva però che un utensile sporco venisse dimenticato sul pavimento, o che l'incenso avesse annerito le tende del santuario. Allora soleva dire precipitosamente: “Vedo che una qualche forza avversa ha irritato il mio Signore. Egli si è ritirato per restaurare l'ordine in qualche altro mondo e ha lasciato questa prova della sua assenza, specialmente per me, suo discepolo favorito. Fatevi animo: presto ritornerà al suo devoto”.

Ebbene, questa evasione dalla realtà non è inconsueta e sussisterà sempre finché l'uomo avrà resistenze e timori insiti nella natura umana: perciò egli è pronto a scaricare sulle altrui spalle il fardello delle difficoltà che incontra nella vita. Questo atteggiamento permette di conservare il rispetto di se stessi per un certo tempo, ma non è una partenza felice per chi desidera imbarcarsi per un viaggio di scoperta, nel quale la sua unica opportunità di acquisire conoscenza risiede nella volontà di riconoscere i propri errori di giudizio e le proprie debolezze nell'azione. Come abbiamo suggerito, l'idea che il sentiero della pratica yoghica sia di per sé arduo, spesso pericoloso e non adatto a chiunque (ma solo agli “atleti” spirituali), non è fondata su dati di fatto, sebbene si possa forse affermare che il successo in qualsiasi via di conoscenza, nell'arte o nella scienza, è prerogativa di “atleti psicologici”, intendendo con “atleti psicologici” coloro i quali desiderano affinare al meglio gli strumenti di cui dispongono, in modo da poterli utilizzare con successo nelle situazioni più inaspettate. La mente non è un territorio nel quale possiamo vivere la vita, ma uno strumento suscettibile di manipolazione, uno strumento sensibile, capace di modificarsi e di espandersi: è questo, naturalmente, l’assioma fondamentale su cui si basa tutta la pratica, che altrimenti non avrebbe senso.

Questo è un fatto, ed è un fatto consolante: chiunque rifletta un poco sui sacrifici preliminari e sulle apparenti limitazioni cui si sottopone (considerandoli del tutto naturali) ogni coscienzioso e intelligente ricercatore - il quale scorgerà in essi il prezzo richiesto per il conseguimento dei suoi propositi - giungerà necessariamente alla conclusione che la mente, trattata in questo modo, rivela risorse e poteri insospettati. Se si interrogano degli studenti di materie scientifiche, ad esempio di ingegneria, essi non sembrano incontrare difficoltà ad ammettere la loro ignoranza iniziale, e perciò la loro incompetenza; ma chi studia una scienza spirituale assai spesso sembra immaginare che l'unica cosa necessaria per il successo sia l'acquisizione di determinate nozioni filosofiche e la corretta esecuzione di determinate pratiche. Questo è dovuto in parte al fatto che le scienze empiriche richiedono, per raggiungere il successo, l’intensificazione di doti mentali che già si sono rivelate, mentre il progresso nelle scienze spirituali ha inizio soltanto quando si ha come obiettivo la nascita di poteri più sottili e sconosciuti.

In breve, quali sono i metodi mediante i quali è possibile dar corso all’espansione e al cambiamento nella scienza spirituale? Le tecniche più importanti sono quelle che favoriscono il dominio della mente, e questo è reso possibile solo mediante un consapevole acquietamento delle facoltà mentali: ciò comporta una scelta del materiale di cui nutrire la mente e accrescerla. Soltanto dopo avere almeno tentato questo controllo cosciente, è possibile iniziare un serio allenamento alla meditazione. A tempo debito si scoprirà che la meditazione è il più importante fattore di trasformazione e di espansione della mente, ma finché non si è acquisito un certo dominio dell'attività mentale incontrollata, non è possibile progredire nella meditazione: di conseguenza c’è da attendersi che i progressi nella pratica spirituale siano molto scarsi. Questo accade anche nell'arte e nella scienza: anch'esse esigono questa modificazione dell'orientamento mentale. Ciò non è affatto strano, non è un fenomeno limitato alle scuole spirituali: perfino quelli che vogliono eccellere in un gioco devono affrontare qualche sacrificio per riuscire nel loro intento. Ne consegue pertanto che, prima di potersi attendere il successo in qualsiasi disciplina, devono essere compiuti determinati aggiustamenti in modo consapevole: per metterli in atto, specialmente sulla via della pratica spirituale, le qualità dell'allievo devono essere risvegliate e intensificate. Ebbene, come si fa a dire quali sono le qualità più utili che il discepolo deve possedere per adempiere al compito prefissato? In base al convincimento di chi vi parla, risultato di molte esperienze dolorose, vi sono tre qualità che andrebbero coltivate prima di ogni altra: esse sono la volontà (o forse non dovremmo chiamarla “volontà”, che suona un po' troppo allarmante, ma “determinazione cosciente”), l'ingegnosità e la pazienza.

Molti diranno: “Che elenco materialistico! Che dire della meta spirituale, della devozione a Dio?”. Nella scienza spirituale, finché non è stato risvegliato il desiderio fondamentale di conoscere il proprio fine e divenire tutt'uno con esso, probabilmente non verrà tentata alcuna scalata, oppure, se tentata, non avrà successo, poiché soltanto il convincimento che la conoscenza si può e si deve conseguire rende apprezzabili, e perciò realmente possibili, il sacrificio e la modificazione della propria condotta di vita. Visualizzare all’inizio di un'avventura, per quanto in modo indistinto, l'esito vittorioso, è essenziale per avere successo: questo vale anche per lo Yoga, come se si trattasse di tentare un'esplorazione empirica, poiché una tale visualizzazione fornisce un grande aiuto.

Abbiamo usato il paragone della scalata per descrivere ogni pratica mirante a ottenere una data conoscenza. In effetti è un paragone adeguato. La via dello Yoga è in realtà una scalata, dalla regione conosciuta che si trova ai piedi della montagna della libertà spirituale alla regione sconosciuta, dall' atmosfera rarefatta, che costituisce la vetta: le qualità che questa impresa richiede sono precisamente le stesse che si richiedono allo scalatore esperto che debba affrontare una vera montagna, cioè determinazione cosciente, ingegnosità e pazienza.

Senza determinazione, nessuno scalatore riuscirà a superare i contrafforti della sua montagna, poiché, come si è detto, la determinazione, se sarà fruttuosa, conterrà dentro di sé la capacità di visualizzazione: questa capacità a sua volta ha il potere di infondere nuove energie allorché i problemi della “scalata” occultano temporaneamente l'obiettivo. La determinazione, priva di una tale visione, diventa ostinazione, che è una qualità statica, incapace di condurre a un progresso.

Quanto si è detto sulla determinazione è sufficiente, per il momento. La qualità della pazienza da principio non entra in gioco, poiché all'inizio non c'è nulla di cui essere pazienti. Lo scalatore (il discepolo) non ha ancora una chiara visione dei suoi limiti psicologici ne dell'immensità del compito che si è prefisso. La pazienza interverrà più tardi.

Che dire ora dell'ingegnosità? Davvero una qualità inaspettata in questo elenco... L'ingegnosità è spesso un valore disprezzato nella pratica, poiché sembra inferiore al coraggio,alla determinazione e allo sforzo eroico. Ma perché un esperto scalatore non sceglie di percorrere la via più diretta verso la cima che probabilmente scorge sopra di sé e che lo invita a compiere uno sforzo violento? Semplicemente perché si rende conto che, così facendo, scivolerebbe a valle come acqua su una roccia. Compie quindi lunghe deviazioni, che sembrano andar contro il suo obiettivo originario ed essere un cedimento alla debolezza, ma in realtà costituiscono una tattica obbligata, l'unico percorso che infine condurrà lo scalatore al successo. Queste deviazioni, queste concessioni ai propri limiti, riconosciuti in modo confuso, saranno attuate grazie alla discriminazione dello scalatore, poiché si fondano su una crescente consapevolezza delle proprie risorse personali. La guida, ovvero il maestro - e ve ne sono molti capaci di istruire il discepolo all'inizio della sua scalata - ha la funzione di rendere consapevole l'allievo delle proprie capacità, e di insegnargli come potenziarle e portarle a maturazione. L'ego, l'orgoglio che talvolta si maschera da ardente entusiasmo, fa sì che spesso lo scalatore trascuri queste istruzioni: quando ciò accade si hanno dolorose battute d'arresto. Allora deve subentrare la pazienza: così l'elenco delle qualità è completo e perfettamente chiaro.

La Bhagavad-gîtâ - testo tradizionale ricco di istruzioni interiori ed esteriori rivolte al discepolo, istruzioni essenziali affinché egli possa afferrare ciò che gli insegnamenti del maestro tentano di rivelargli - sottolinea ripetutamente la necessità dell'ingegnosità, che è chiamata “moderazione”. Questa moderazione ha le sue radici nella discriminazione e va contro l’inclinazione naturale del discepolo animato da ardente entusiasmo; ma se questi è psicologicamente risvegliato, la sua avversione alla pratica della moderazione gli rivelerà all'improvviso, in modo inequivocabile, la presenza dell'or-goglio personale e l'inadeguatezza della sua capacità di giudizio: egli sarà allora costretto ad esercitare quella ingegnosità che non è altro se non determinazione a riuscire, aggirando ogni ostacolo che si trovi sulla via mediante un sistematico inganno della mente e del corpo.

La Gîtâ tratta l'argomento della moderazione con l'ausilio di esempi assai semplici, poiché l’opera è destinata alla gente comune, ma sarebbe sciocco limitare la pratica della moderazione agli esempi citati dal testo. Se si pratica con successo la moderazione, questa produce effetti assai profondi, essendo basata sul riconoscimento, privo di attaccamento, delle proprie capacità attuali. È facile e fin troppo naturale che lo zelante neofita pratichi il tapas, cioè l'ascesi e il controllo di sé, in misura eccessiva. Può darsi egli provi piacere comportandosi in questo modo, ma è difficile sapere se sia davvero lo zelante discepolo a praticare il tapas, oppure i suoi sventurati parenti, i quali gli stanno attorno e assistono allo sperpero delle sue energie nei digiuni e nelle notti insonni. Dice tuttavia la Gîtâ:

Lo Yoga non è per colui che mangia troppo, ne per colui che non mangia affatto; ne per colui che dorme troppo, ma nemmeno per colui che veglia incessantemente.

Nel suo commento a questi versi, nel suo libro Insegnamenti della Bhagavad-gîtâ, Hari Prasad Shastri scrive: “Lo Yoga diviene un distruttore della sofferenza quando si osserva la temperanza nello sforzo, nel lavoro, nel sonno e nella veglia”. Ora, chi dirà al discepolo che cosa costituisce temperanza, in questo caso? Non certo il maestro, poiché questi, pur conoscendo la risposta, lascia all'amara esperienza personale del discepolo il compito di illuminarlo su questo punto; ma, purché sia già presente la consapevole determinazione a riuscire, scaturirà naturalmente il riconoscimento dei limiti fino ai quali egli può spingersi nello stadio attuale, e la presa di coscienza, a livello psicologico, che produce l'ingegnosità, verrà da sé. Lo studio prolungato oltre misura dà luogo ad una concentrazione pianificata, assai più breve ma più intensa; anche alla meditazione ci si accosta con più cautela e rispetto, e così via. Queste concessioni personali alla debolezza vengono fatte da tutti i ricercatori risoluti, poiché, in ultima analisi, il modo di concepire lo Yoga (cioè di intendere che cosa esso è e che cosa esige) è una questione personale, e la variante propria dell'allievo su questo argomento lo accompagnerà fino al momento in cui sarà superata dall'universalità della visione che si ha dall'alto della vetta finalmente conquistata.

Vi è un altro esempio di questa volontà di praticare la moderazione e di trarre profitto in tutta umiltà dalle deviazioni e dalle soste sul cammino che conduce alla perfezione, piuttosto che tentare di raggiungere la cima lungo una via diretta. Ho una certa riluttanza ad usare questo esempio, poiché potrebbe sembrare irriverente ed essere facilmente frainteso. Eppure è un vero e proprio test adatto a verificare che cosa lo yogin ha compreso dell'Advaita, ovvero della scuola non-dualistica, ed è quindi opportuno parlarne.

Ogni alta montagna possiede balze e avvallamenti che offrono allo scalatore un rifugio temporaneo ove ripararsi dalle bufere e dalle tempeste di neve che spesso impediscono l'accesso alla cresta. Qui egli trova un ricovero, ove può raccogliere le sue forze e fare il punto della situazione. Questi siti favorevoli sono parte integrante della montagna, sono composti dagli stessi materiali di cui si compone l'intero monte: l'unica specifica caratteristica è quella di avere una forma e una struttura funzionali affinché lo scalatore vi possa trovare riparo. In realtà si può dire che questi luoghi esistono per rivelare allo scalatore la via più agevole per raggiungere la cima e per aiutarlo nel suo sforzo.

In questo Yoga non-duale l'affermazione centrale è: “Dio solo è reale, e il Sé dell'uomo, nella sua essenza, è identico a Dio”. Questo è il culmine dell'insegnamento, e il discepolo ne è consapevole fin dall'inizio della pratica, proprio come lo scalatore può vedere sovente la vetta della montagna anche prima di iniziare l'ascensione. Ora, se un discepolo, quando è ancora un neofita, crede fermamente di essere in grado di fare una tale affermazione con una piena comprensione del suo significato, ebbene, questo convincimento si fonda su una di queste tre cose: una reale superiorità spirituale che egli ha ottenuto nelle incarnazioni precedenti; l'ignoranza delle sue attuali limitate capacità; l'ignoranza, altrettanto grave, del significato, della grandezza e della verità dell'affermazione che egli enuncia come una teoria. Egli può ben iniziare a ripetere la formula appena ha dimestichezza con i termini yoghici, ma la sua mente non farà che riecheggiare suoni, colori e immagini, il che renderà falsa una tale affermazione.

Che cosa deve fare allora affinché la sua affermazione teoretica divenga una realtà? Deve tirar diritto ostinatamente verso questo eccelso stato di coscienza, incurante dell'atmosfera rarefatta che lo circonda e dei suoi possibili effetti sulla sua resistenza, oppure deve approfittare dei luoghi di riparo sul cammino e progettare un percorso più indiretto, ma più sicuro,verso il suo obiettivo? Ebbene, questi siti favorevoli, questi luoghi di temporaneo riposo, sono rappresentati dai grandi avatâra, i maestri e i santi; essi sono in verità tutt'uno con lo Spirito supremo incondizionato, essi sono Quello, ma hanno assunto una forma protettrice e hanno, per così dire, posto se stessi sulla via che l'uomo percorre nella sua scalata, affinché, sotto la loro protezione, possa prepararsi all'aria rarefatta chelo attende al termine della sua ascensione.

Qualcuno potrebbe dire: “Ma questo è un punto di vista alquanto utilitaristico: servirsi di questi grandi esseri, per poi lasciarli e passare oltre!”. Abbiamo detto che questi esseri non sono altro che lo Spirito divino stesso, di cui sono la manifestazione in forma condizionata e protettrice, allo scopo di incoraggiare l'uomo, portarlo a maturazione e attirarlo su quelle vette che lo sovrastano, con le quali essi sono una cosa sola. Quanto dovrà imparare da questi maestri prima di essere in grado di raggiungere la meta finale! Attraverso la meditazione su di essi, la possibilità dell'universalità della coscienza comincerà a manifestarsi in lui; grazie ad essi apprenderà ad amare senza egoismo e purtuttavia con un crescente sentimento di identità.

L'amore è la via più sicura per acquisire intensità e oblio di se stessi - la condizione di annullamento dell'ego - e questo avviene sia che si manifesti in questo mondo, sia che si manifesti a livello sopramentale. Nel corso della pratica il discepolo viene educato all'arte dell'amore: amore del Signore condizionato, amore dei suoi figli, amore delle profonde verità che gli riveleranno il Signore. Ma egli non può amare l'Assoluto, che è incondizionato e privo di attributi: può soltanto aspettare la conoscenza diretta della fondamentale identità con esso. Fino al momento in cui questa percezione sarà divenuta più reale per lui di qualsiasi altro oggetto, non gusterà quella beatitudine che si accompagna - ci viene detto - a un'affermazione cosciente e risvegliata della Divinità.

Nella Bhagavad-gîtâ il Maestro è pienamente cosciente di questo fatto e del senso di isolamento e di amarezza che spesso accompagna l'uomo su questa via. Scrive Hari Prasad Shastri nel suo commento alle parole di Shrî Krsna:

La meditazione sull'Assoluto, su Colui che è privo di attributi e incondizionato, è difficile per coloro che non hanno trasceso la coscienza corporea; ma il servizio privo di egoismo e la devozione del cuore, fondati sulla conoscenza dell'unità del condizionato e dell'incondizionato, trasmutano l'emozione personale nella saggezza superiore della percezione di Dio.

Fino ad ora abbiamo parlato di qualità tali che, se adeguatamente sviluppate, dal discepolo, lo aiutano nella pratica; ma sicuramente egli ha in sé anche ostacoli psicologici che devono essere superati. Ne produce uno, ma quando questo unico difetto è stato rimosso, null'altro resta da fare; infatti questo importante impedimento è all'origine di tutte le tendenze alla separazione. È simile a una madre prolifica, non già di eroi, bensì di ostacoli di ogni genere; il suo nome è egoità, progenitrice di una numerosa famiglia: la volontà egoistica, l'idea di una vita separata, la presunzione, e di conseguenza l'assenza di rispetto e l'incapacità di riconoscere qualità e valori.

La visualizzazione di se stessi come entità indipendente e separata è un errore che non ha un inizio, poiché si fonda sull'oblio dell'esistenza e dell'universalità dello Spirito o Coscienza, ma può avere una fine, dal momento che questa miopia mentale incomincia a venir meno grazie alla più ampia visione e all'ispirazione prodotte dalla più elevata meditazione e in virtù della conoscenza ottenuta con l'insegnamento tradizionale. Quando ciò accade, il discepolo cessa di prestare orecchio ai suggerimenti e agli allettamenti dell'ego inferiore, il quale dovrà rinunciare al suo strapotere, e il Sé, il vero Ego, nascerà come una fenice dalle ceneri di questo sé inferiore e rivelerà la sua natura divina. Si otterrà allora la libertà, e la scalata avrà fine.

C'è una grande opera sanscrita, destinata in futuro a diventare un classico, scritta da un mahâtman dell’Adhyâtma-yoga, Svâmin Mangalanâtha, circa cinquant'anni fa. S'intitola Vîra-vijaya, che significa Trionfo di un eroe. Con il termine “eroe” Svâmin Mangalanâtha- intende un uomo che ha trasceso i propri limiti ed è divenuto un essere liberato. Così lo descrive,e poiché egli era un siffatto illuminato, questa è anche una descrizione di se stesso:

II grande eroe rifulge nella sua sublime superiorità. È saggio, ed ha attinto lo stato di non-dualità. È assolutamente in pace, essendo libero da tutti i desideri. Egli ha gettato via tutte le sue armi…

 

 

 


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