Roland Rech
Monaco zen in occidente

 


 

INDICE

 

Prefazione
Introduzione
1. Incontro con il maestro
2. Il significato della tradizione
3. Sull’ego in generale e sulla sofferenza in particolare
4. Zazen, l’arte segreta dello Zen
5. Il risveglio
6.Accogliere la morte
7.Lo Zen e l’Occidente
Glossario

  


 

PASSI SCELTI

 

PREFAZIONE

Da un po’ di tempo i mezzi di comunicazione danno largo spazio al buddhismo. Questo è dovuto all’ascendente della figura del Dalai Lama e al premio Nobel a lui conferito; anche l’uscita del film Piccolo Buddha ha accresciuto l’interesse. E possiamo affermare che per certi versi, in Francia e probabilmente nel mondo, il 1993 sarà stato l’anno del buddhismo. Però il buddhismo non è una moda: è una saggezza, una religione e una cultura che hanno illuminato l’Asia da oltre duemilacinquecento anni.

Si è talvolta lamentato che il cristianesimo abbia conservato la sua forza romana nell’incontro con gli altri popoli, e si cerca oggi ciò che potrebbe essere una presentazione di un messaggio evangelico completamente adattato all’Africa, all’India o all’Amerindia. Da gran tempo invece l’insegnamento del Buddha ha testimoniato la sua vitalità attraverso approcci molto diversificati, a un tempo fedeli ai dati fondamentali e notevolmente vari, dallo Hinayâna di Ceylon fino al Tantrayâna dei tibetani passando per il Mahâyâna di Cina e Giappone. Si può affermare che esiste un buddhismo tibetano, un buddhismo birmano, un buddhismo giapponese, un buddhismo vietnamita e - perché no? - ben presto un buddhismo francese. Sebbene si tratti pur sempre delle Quattro Nobili Verità, dell’Ottuplice Sentiero e del prendere Rifugio nei Tre Tesori: Buddha, Dharma, Sangha, i buddhisti stessi hanno a volte difficoltà a comprendersi e a riconoscersi gli uni con gli altri. Sappiamo che nel Giappone stesso esistono diverse scuole: Tendai, Shingon, Nichiren, anche se la più famosa è quella dello Zen. E lo stesso Zen è ramificato in tradizioni diverse: Obaku, Rinzai, Sôtô.

Le conversazioni con Roland Rech ci permettono una scoperta autentica dello Zen Sôtô. Sensei Deshimaru, con il quale ho vissuto giorno e notte per tre mesi in Giappone, era un personaggio per molti aspetti eccezionale, e nessuno potrà tentare di imitarlo. Ma se non possiamo imitare il maestro, possiamo però seguire i suoi passi sulla via nella quale egli ci ha preceduto. è il caso di Roland Rech che condivide in questo libro vent’anni di esperienza personale e di pratica quotidiana. Ci parla di uno Zen particolarmente sobrio, spoglio e soprattutto fedele all’eredità degli antichi maestri.

Nei monasteri giapponesi, ciò che possiamo chiamare l’«uffizio mattutino» dopo il primo zazen comprende un’interminabile recitazione dei nomi di tutti i saggi attraverso i quali è avvenuta la trasmissione dal Buddha fino a noi, sia che si tratti di maestri che sono diventati famosi (come Bodhidharma o Dôgen) oppure di monaci meno noti, recitazione che permette a ciascun monaco di sentirsi tradizionalmente ricongiunto a una linea autentica.

Tale inserimento in una regolare tradizione ha la stessa importanza presso i sufi come nel buddhismo Tantrayâna. Oggi, che molti gruppi, sette e movimenti di scuole create di recente proliferano, un insegnamento che ha duemilacinquecento anni di esperienza è prezioso. Nessun buddhista può affermare che la forma personale scelta sia il solo buddhismo ortodosso. Ma il fatto che i connotati fondamentali dell’insegnamento di Gautama Shâkyamuni siano sempre meglio conosciuti in Occidente contribuirà a un risveglio spirituale sentito come necessità da un numero sempre maggiore di uomini e donne assetati di un’altra dimensione dell’esistenza. Possa questo risveglio compiersi sempre in uno spirito di apertura, di accoglienza, di tolleranza e di comprensione.

Arnaud Desjardins

 

INTRODUZIONE

In questa fine d’inverno in cui il freddo stringe le pietre in una morsa, ci incontriamo sulle rive della Loira, nel tempio zen della Gendronnière. Situato al termine di una strada forestale, questa vasta dimora rievoca più la prosa magica e misteriosa del castello del Grand Meaulnes che non un tempio zen con il suo quadrato di sabbia ben rastrellata, con i suoi spogli ornamenti. In questo periodo il luogo è deserto e il silenzio cancella il rumore dei nostri passi. Questo luogo diverrà l’ambiente privilegiato di una serie di colloqui sul buddhismo Zen intercalati al mattino e alla sera da periodi di sedute immobili che ci invitano a ritrovare tutto il sapore dell’istante.

In Occidente, dopo la seconda guerra mondiale, lo Zen ha suscitato un grande entusiasmo nel mondo intellettuale con la comparsa di numerose opere didattiche, come la traduzione completa (1954-1957) degli Scritti sul Buddhismo Zen del prof. Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966). All’epoca lo Zen era conosciuto solo da una minoranza di intellettuali sedotti soprattutto dal suo estetismo e dalle frasi enigmatiche e paradossali, i famosi kôan. Tra gli altri, il saggio della Foresta Nera, Karlfried Graf Dürckheim rivedrà progressivamente i pregiudizi europei che lui, e altri come lui, hanno sul buddhismo. Troviamo un accenno nel suo giornale scritto alla fine del 1940. Durante un soggiorno in Giappone confessa:

Mi prenderò tutto il tempo possibile per studiare particolarmente il lato vivo del buddhismo. In Europa ne abbiamo una concezione del tutto sbagliata. Lo consideriamo per lo più come una dottrina passiva che allontana l’uomo dalla realtà.

Oggi lo Zen rimane a volte molto mal compreso e suscita ancora parecchi interrogativi. Se la sua immagine affascina alcuni, in altri suscita dei sospetti: questo avviene a causa dell’interminabile corteo di interrogativi maldestri che lo assimilano ora a una setta orientale, ora a una religione atea. Certi lo ritengono solo una filosofia, un’arte o ancora una mera tecnica di concentrazione per gestire meglio lo stress… Ma ci sono anche domande più legittime. Che cos’è realmente la meditazione? Il risveglio? Il karman? Che visione ha lo Zen della morte? Possono i cristiani o gli appartenenti ad altre confessioni religiose praticare zazen? Qual è il vero Zen?

Tutte queste domande le abbiamo poste a Roland Rech, un monaco occidentale che pratica questa disciplina da oltre vent’anni, fedele all’insegnamento ricevuto dal suo maestro giapponese Taisen Deshimaru, autentico Bodhidharma dei tempi moderni.

A prima vista la sua testa rasata e la dirittura del suo portamento danno a Roland un aspetto abbastanza ascetico. Apparenza! Apparenza! Quello che è uno dei principali responsabili dell’Association Zen Internationale è anche il primo a condividere con gioia un buon pasto raccontandovi la sua passione per il nuoto subacqueo.

Molto giovane, questo ex-alto dirigente di una grande impresa francese non può accontentarsi di una vita esclusivamente materialista immersa nei piaceri. Dopo le delusioni dell’infanzia dovute alle proposte a volte maldestre della religione cristiana, a suo parere fondata soprattutto sull’immaginario, opta più tardi per l’azione sociale e politica:

Anche se non sono mai entrato nel Partito Comunista né in altre organizzazioni gauchiste, avevo adottato un punto di vista vicino al marxismo. Ciò che era importante per me era operare in un’azione storica che realizzasse prima di tutto la liberazione degli esseri umani perché vedevo bene che questo ideale umanitario (Libertà, Uguaglianza, Fraternità), fondamento della Rivoluzione Francese, non era assolutamente seguito dai fatti.

Dopo il sogno infranto del Maggio ’68 dove scopre i limiti dell’utopia, dopo un lungo periodo di riflessione, pianta tutto in asso. Addio al grigiore parigino, alle abitudini fossilizzate. Sceglie l’esilio volontario per andare a scoprire un senso alla propria vita che non dipenda da nessuna ideologia, da nessun sistema di credenze. La sua unica motivazione: essere aperto e disponibile.

Intraprende allora un periplo di lunga durata: Spagna, Nord Africa, Medio Oriente… In ogni Paese si interessa al sistema politico e sociale, visita fattorie autogestite nel sud dell’Algeria, campi profughi palestinesi:

Provavo una grande simpatia per tutti i movimenti di liberazione del terzo mondo. Mi pareva che esprimessero qualcosa di nuovo e meno sclerotizzato rispetto ai sistemi democratici popolari o dei regimi socialisti costituiti. Ahimè, presto constatavo che dappertutto subentravano nuove burocrazie, nuove strutture di potere e di oppressione.

Gli apparve via via evidente che quello che stava cercando sin dall’infanzia corrispondeva in effetti a un ideale di libertà, di liberazione. La vera rivoluzione non può nascere se non in virtù di una radicale trasformazione interiore lontana dalle ideologie politiche e religiose.

È con questo spirito che approda in India. Molto impressionato dallo spirito religioso onnipresente, s’interessa all’induismo e al buddhismo nei templi e negli âshram che gli capita di incontrare sul suo cammino. Sempre molto critico, gli sembra che questo ideale di purezza e di santità espresso dai devoti sia troppo distante da quello che egli sente nel proprio intimo. Per lui l’alienazione è l’immaginario. Pensa che entrare in un sistema ideale che ci porti a rifiutare ciò che costituisce la realtà della propria vita per imitare qualche cos’altro, sia l’opposto della vera via.

A quel punto del viaggio incontra una persona alla quale rivela il suo desiderio di trovare una via che gli permetta di avvicinarsi alla sua verità interiore senza passare per un sistema, un’ideologia o una credenza. Fiducioso, si sente rispondere: «Se continui il tuo viaggio verso il Giappone dovresti interessarti allo Zen».

Dopo pochi mesi mette piede nel paese del Sol Levante in una condizione assai prossima alla disperazione. Ha la sensazione di essere in un vicolo cieco. è ormai chiaro che non può continuare a vivere all’infinito questa ricerca travolgente che porta solo a una delusione dopo l’altra. Sempre determinato a trovare una risposta, passa di tempio in tempio chiedendo di praticare zazen. Ahimè, non sono luoghi di pratica ma piuttosto musei e riceve solo risposte negative.

Forse in quel momento la mia determinazione non era abbastanza forte? Dopo un mese di viaggio mi venne un accesso di disperazione. Dissi a un’amica che non avrei potuto continuare a viaggiare in quelle condizioni e decisi di non muovermi più fintanto che non avessi trovato la pratica dello Zen. Qualche istante dopo, un testimone di questo mio proposito mi dette alcune informazioni su una sesshin che si svolgeva in un tempio vicino, e ci andai. Un monaco mi iniziò allo zazen in due minuti, mi fece vedere la postura e mi spiegò che bisognava lasciar passare tutti i pensieri. Grazie a questi consigli praticai per un’ora all’interno del dôjô e questo fu sufficiente a produrre in me una vera rivoluzione interiore. Intellettualmente continuavo a non sapere niente dello Zen, però avevo ormai la profonda convinzione che sarebbe stato a partire da questa postura che avrei desiderato vivere. Ho provato un senso di liberazione e ho capito che tutto ciò che avevo vissuto precedentemente mi aveva in realtà condotto a questa postura. Non mi sono mai fissato su questa esperienza dicendomi: «Ho ottenuto il satori, il risveglio…». Altri lo potrebbero forse dire al mio posto ascoltando la descrizione di quello che avevo potuto provare a quell’epoca. Ad ogni modo, questa esperienza fu abbastanza forte per far cessare ogni peregrinazione.

Questo incontro con uno stato d’essere profondo che non dipende da niente interruppe di colpo questa corsa smarrita. Roland sente spesso di non aver bisogno d’altro che di sedersi ed essere: tale esperienza intima con l’essenza dell’esistenza gli reca una profonda pace interiore. Ormai sa che c’è un modo di vivere totalmente indipendente e che nello stesso tempo non è separato dalla realtà fenomenica.

Romana e Bruno Solt


 

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IL SIGNIFICATO DELLA TRADIZIONE

Secondo Lei, potremmo allora affermare che una trasmissione autentica può essere garantita solo da un essere «risvegliato»?

Sì, certo, ma bisognerebbe forse ritornare sul concetto di «risvegliato». Che cos’è un «risvegliato»? E a che cosa ci si risveglia nella pratica del buddhismo Zen?

Ci risvegliamo prima di tutto alla vera conoscenza di noi stessi. Gettiamo una luce sulle nostre «ombre», sui nostri bonnô, senza attaccarci alla ricerca del satori. Il maestro Dôgen diceva: «Le persone comuni sono quelle che si fanno illusioni sul satori, i buddha sono quelli che illuminano le proprie illusioni».

I bonnô sono costituiti da tutti i motivi di sofferenza, in particolare da tutto ciò che ci porta ad attaccarci a un oggetto esterno. Queste cause provengono dal fatto che noi non siamo autenticamente noi stessi. Abbiamo costantemente bisogno di riempire questo vuoto con l’ottenimento di qualche cosa di esterno a noi. Nello Zen non pratichiamo l’ascetismo e il distacco, ma solo la non-dipendenza. Per esempio, l’amore autentico non consiste nell’essere attaccati, dipendenti dall’essere amato. Se l’essere amato è lì solo per riempire una mancanza, diventa una passione sfortunata, che vive nell’angoscia, nella paura della perdita. Dunque, fino a quando non realizziamo la nostra vera natura, la mancanza esiste. L’essenziale è prendere coscienza che ci troviamo in una situazione di mancanza: ne siamo tutti affetti e tentiamo disperatamente di sfuggire a questa mancanza attraverso una frenetica ricerca di oggetti di soddisfacimento.

Questa mancanza deriva dalla sensazione di essere separati dall’universo mentre in realtà siamo uniti a esso. Possiamo sperimentare questa realtà in zazen, e realizzare intimamente che tutto è lì.

Si tratta quindi di risvegliarsi ai propri bonnô, di comprendere la propria mancanza e da che cosa proviene osservando tutta la concatenazione che ne deriva: i desideri, l’attrazione, l’odio, il rifiuto, l’ignoranza, cioè l’incomprensione di se stessi. Il maestro Deshimaru possedeva una perfetta conoscenza dei suoi bonnô e ci aiutava a capire i nostri. Essere risvegliati consiste nel ridestarsi alle proprie illusioni senza cercare di ottenere il risveglio come una specie di illuminazione mistica finale. Scoprire se stessi e comprendere il proprio karman, le proprie illusioni e passioni, la radice delle proprie sofferenze. E infine, nella misura in cui abbiamo vissuto tutti questi meccanismi, non dipenderne più.

Il secondo aspetto di questo risveglio consiste nella comprensione che tutti questi bonnô fondamentalmente sono vacuità, cioè che vanno e vengono. Attraverso lo zazen facciamo l’esperienza di uno stato di libertà, di distacco riguardo a questi bonnô. Anche se questa presa di coscienza dura solo il tempo dello zazen, è una esperienza decisiva che ci mostra come tutti gli attaccamenti e i fenomeni mentali che affiorano tornino rapidamente alla vacuità, al non-pensiero. Capiamo allora che tutto il teatro mentale che va in scena nella vita quotidiana in effetti non ha più consistenza di un sogno, di una fantasmagoria. Tali fenomeni esistono, ma non hanno alcuna sostanza. Questo ci porta progressivamente a un distacco e a una sdrammatizzazione della nostra vita. Un maestro zen, poco prima di morire, dettò il suo testamento con queste poche parole: «La vita è un sogno». Realizzare questo è un grande risveglio.

Tale risveglio, o comprensione, nasce nella coscienza hishiryô dello zazen, al di là del pensiero. È un ritornare alle condizioni normali dell’essere. Nella tradizione dello Zen Sôtô, ciò che chiamiamo «risveglio» è proprio lo zazen stesso. Non esiste una dualità tra la pratica dello zazen e un risveglio che verrebbe ottenuto per mezzo dello star seduti immobili. Essere in zazen è realizzare il risveglio! Di conseguenza, la persona risvegliata che trasmette lo Zen è quella che si è risvegliata alla pratica giusta dello zazen.

Questo risveglio che possiamo vivere in zazen ci condurrà poi a una migliore comprensione di noi stessi nella vita quotidiana e a vivere degli istanti di satori al di fuori dello zazen. A poco a poco vivremo la vita quotidiana come un prolungamento dello zazen trasformando il nostro modo di agire, di pensare e di essere. Ma ciò può avvenire solo in maniera inconscia e naturale. Non esiste una via in cui ci sia uno stato di satori costante, dalla quale siano stati eliminati tutti i bonnô. Penso che passiamo continuamente dall’uno all’altro. Non c’è una separazione assoluta tra risveglio e illusione. Ci si risveglia momento per momento dalla propria illusione.

Non c’è forse un po’ di infantilismo nel cercare di questi tempi un maestro come sostituto di padre e madre, sui cui proiettare tutte le richieste che non siamo riusciti a soddisfare da bambini?

Non proiettiamo su di lui tutto quello che non abbiamo ricevuto, però vediamo attuarsi tutto quello che rimane nascosto e oscuro in noi stessi.

Il maestro Deshimaru aveva in sé la forza e la saggezza di un padre, l’amore e la compassione di una madre. L’amore che potevamo sentire nei suoi confronti aveva qualcosa di stimolante e non alienante. Il suo scopo era prima di tutto quello di incitarci a seguire la sua stessa pratica liberatrice senza attaccarci alla sua persona. In lui non c’era alcun desiderio di esercitare la sua influenza sugli altri, ma la semplice aspirazione di renderli veramente liberi. Come nella parabola del figlio del ricco nel Sûtra del Loto, egli mirava a farci conoscere quel tesoro che è proprio di noi stessi, la nostra natura-di-buddha, invece di cercare la saggezza presso gli altri.

Come si fa a riconoscere un vero maestro? Soprattutto di questi tempi, davanti alla recrudescenza delle sette, molto più attente a «liberare» i portafogli piuttosto che i cuori.

È vero che al giorno d’oggi troviamo un gran numero di falsi maestri e falsi guru alla testa di sette, per cui si è creato un naturale e giustificato clima di diffidenza e di paura. Questa opinione ricade anche sul concetto di maestro in generale, ed è un peccato. Possiamo anche dire che la richiesta spirituale oggi è estremamente forte ed è proprio questa richiesta a creare falsi maestri che si insediano da sé e che non praticano quello che insegnano. Ricordiamo che un falso maestro insegna prima di tutto una via sbagliata, che non porta a una vera liberazione. Il risultato è quello di parole vuote non fondate sull’esperienza profonda. La sola pretesa di essere un maestro è già sospetta. Credere di aver raggiunto qualcosa è una grande presunzione. È preferibile rimanere modestamente un eterno discepolo, anche quando gli altri vi mettono nella posizione di maestro perché provano rispetto e fiducia in ciò che rappresentate ed esprimete. A ciò si aggiunge che il numero dei discepoli non ha niente a che vedere con l’autenticità del maestro. Oggi le persone sono così disorientate che sono pronte a seguire chiunque, come il nano che, senza vedere lo spettacolo, s’accontenta di ridere quando la folla ride.

Il bisogno di avere un maestro spirituale corrisponde a una evoluzione della nostra civilizzazione perché stiamo vivendo in un’epoca di fine delle ideologie e dei sistemi. Ognuno sente il bisogno di ritrovare da sé un riferimento, una guida.

Per tornare alla domanda iniziale, ci sono due aspetti: per prima cosa è necessario che ci sia una fiducia, una fede, un desiderio intenso di seguire non la persona di per se stessa, bensì il cammino che questa persona ha seguito. Il che vuol dire che questa persona incarna nella sua vita quotidiana la realizzazione di tale via. È una percezione del tutto soggettiva, ma non è su questo che possiamo fondare autenticamente la nostra riflessione. Questo ci permette semplicemente di creare certi parapetti, certe barriere.

In compenso, un vero maestro zen è l’erede dell’insegnamento del Buddha. Ne ha ricevuto la trasmissione grazie a una lunga catena di maestri e discepoli ed è stato autenticato da un maestro che è stato a sua volta autenticato. Esiste pertanto un criterio oggettivo. Può capitare che qualcuno che ha seguito l’insegnamento di un autentico maestro non abbia potuto essere autenticato da questo maestro, per vari motivi, come è stato il nostro caso dopo la morte del maestro Deshimaru. In tal caso è necessario cercare l’autenticazione di un maestro per non doversi auto-autenticare. La continuazione di questa catena ininterrotta di autenticazione dopo il Buddha, da maestro a discepolo, è importante e, lo ripeto, è molto pericoloso autoproclamarsi, da soli, maestri. Ci possono essere, in questo modo, molti abusi e situazioni dubbie.

Possiamo aggiungere che per diventare maestri è di capitale importanza essere stati, e rimanere, discepoli. Cioè saper mantenere costantemente una capacità di rimettersi in discussione, senza mai pensare di aver raggiunto uno scopo. È questo l’atteggiamento da trasmettere a un discepolo, non quello di una verità cristallizzata e raggiunta una volta per tutte. Il maestro Deshimaru ci dava la voglia di seguire ciò che lui seguiva, una verità al di là di se stesso. Così, quando io conferisco l’ordinazione a qualcuno, non lo incito a seguire me, ma a seguire ciò che io seguo, cioè la pratica giusta di zazen così come mi è stata trasmessa dal maestro Deshimaru.

Che cosa distingueva un saggio come il maestro Deshimaru da un altro uomo? Concretamente, nel vissuto, che cosa lasciava intravedere che si trattasse veramente di un saggio anche se veniva a volte screditato da qualcuno perché beveva e fumava?

Ebbene, ve lo dirò. In ogni caso non di certo il fatto che fumasse o non fumasse. Ti dava semplicemente la voglia di seguirlo. Non lui, ma ciò che lui seguiva. In sua presenza ti sentivi ispirato e contento, e nello stesso tempo speravi di andare nella stessa direzione.

A ciò si aggiunge il fatto che egli ha totalmente impegnato la sua vita nella pratica della via e ha messo tutta la sua energia e la sua esperienza nell’aiutare gli altri a realizzarla. Sensei non si credeva un gran saggio ma si lasciava illuminare dallo zazen. Armonizzava la sua vita con questo insegnamento di zazen senza con ciò distinguersi dalla gente comune in quanto egli percepiva la vacuità di ogni differenziazione. Viveva al di là del suo ego, in un’autentica unione con gli altri e con la natura. Viveva, realmente, qui e ora.

In senso più generale, e secondo Lei, che cos’è la saggezza?

La saggezza è infinita e illimitata, al di là delle convinzioni personali. È importante non attaccarsi a una particolare idea di saggezza perché essa diventa rapidamente un’illusione. Sono il dubbio e la paura che ci spingono a ricercare al di là delle opinioni e dei concetti personali. Si ripete spesso che «il matto è quello che si prende per saggio, il saggio è quello che conosce la propria follia». La saggezza è capire se stessi e vedere che non dobbiamo chiudere questo «se stessi» in una conoscenza limitata.

Se il vissuto del maestro è il riflesso di una perfezione interiore, come può in apparenza avere a volte dei lati non buoni?

Anche il maestro ha il suo karman e quindi ciò che chiamiamo «difetti». Solo che non ne è schiavo. Li utilizza liberamente per aiutare gli altri. Le sue passioni diventano così una fonte di risveglio per lui e per gli altri. Il vero Zen non consiste nel troncarle, ma nel trasformarle utilizzandone l’energia per la pratica della via. Quando per esempio il maestro Deshimaru ci invitava a bere lo faceva per eliminare le barriere tra «maestro» e «discepolo», facendo cadere le maschere e i pregiudizi. Faceva sì che smettessimo di prenderci troppo sul serio. Sensei ci insegnava sempre ad armonizzare in noi gli aspetti buoni e cattivi, senza attaccarci a nessuno di essi.

Il maestro Deshimaru era un esempio vivente di questa armonizzazione. Unificava in lui tutti gli aspetti, quelli dell’essere umano con le sue emozioni e le sue passioni, e quelli del Buddha che ne vede l’illusorietà, la vacuità e se ne distacca. Non rappresentava un ideale di santità separato da tutte le passioni o da tutti gli attaccamenti, ma li aveva vissuti tutti, riconosciuti e integrati. Ci permetteva di vedere dentro di noi i due aspetti, quello del demone e quello del Buddha. Era un vero maestro perché non aveva paura di riconoscere e accettare questi due aspetti in se stesso, permettendoci così di riconoscerli e accettarli in noi. Calligrafava spesso sui kyosaku l’espressione: «Makumozo» («non createvi illusioni»). Il maestro Deshimaru era capace di ridere delle proprie illusioni e insegnava mushotoku («non oggetto», «non attaccamento»). Nella vita quotidiana egli era lo specchio nel quale potevamo osservarci in ogni momento, ogni volta che stavamo cercando di impossessarci di qualcosa, di attaccarci. Aveva una grande capacità di smascherare nell’altro i lati illusori del suo ego perché aveva lui stesso fatto questo lavoro. Spesso ci si immagina il santo o il saggio come un essere che non ha più un karman, non ha più dei difetti. Il maestro zen è colui che li integra e li supera senza doverli rifiutare. Se seguiamo un maestro troppo perfetto, troppo ideale, il desiderio di essere simili a lui costituisce un ostacolo, una causa di non conoscenza di noi stessi. Vorremmo allora rifiutare o nascondere i nostri lati negativi e cercheremo di mostrarci sotto un aspetto favorevole. Così, colui che aveva compiuto numerose azioni a favore del buddhismo, l’imperatore Wu di Liang, si sentì rispondere da Bodhidharma: «Nessun merito». Non c’è mai nessun merito. Quando pensavo di essere nel giusto o nel vero, o credevo di aver compreso qualcosa di essenziale, Sensei mi spiazzava non autorizzandomi mai all’autosoddisfazione. Il maestro Dôgen diceva: «Nel vero maestro poco importano l’età, il sesso, le origini; egli deve solo essere al di là di tutto, essere l’uomo del satori, un uomo assoluto, vero e sincero, non governato da nessun karman, né dal proprio pensiero, né da quello degli altri». «Questa descrizione corrisponde a ciò che sentivamo noi di Sensei, la cui realizzazione si esprimeva prima di tutto con una vita non egoista, totalmente dedicata ad aiutare gli altri a realizzare la via.

A proposito del saggio o del santo, che cos’è che li distingue? Possiamo parlare di santità nei confronti di un saggio e viceversa? La saggezza è una tappa intermedia verso la santità?

Nella tradizione buddhista si riconosce come santo colui che ha seguito la via del Theravâda (Piccolo veicolo), che si è affrancato totalmente dalle proprie passioni. Il maestro, il saggio del Mahâyâna (Grande Veicolo) è colui che ha riconosciuto le proprie passioni ma non le segue più perché le ha integrate e superate. Ha la capacità di trasformarle, di utilizzarle, di giocare con esse liberamente. La libertà interiore realizzata dal saggio del Grande Veicolo proviene dalla visione costante dei propri attaccamenti, delle proprie passioni e della loro vacuità. Non v’è un’ascesi da realizzare allo scopo di eliminarle, troncandole o rifiutandole. Il saggio possiede l’intuizione, la comprensione, e fa un minor uso della disciplina. Il percorso del santo del Piccolo Veicolo è maggiormente dualista, coltiva la purezza e rigetta l’impurità. La saggezza ultima sta nel fatto di vedere che, in ultima analisi, non v’è né purezza, né impurità, che tutte le dualità sono illusorie.

Se si vuole praticare da soli è molto più facile praticare la via del Piccolo Veicolo. Nella via del Grande Veicolo si può capire intellettualmente che tutto è vacuità, che non c’è alcun ego, che tutto è illusione, e si può persino pensare che allora tutto sia permesso. Ma tutto ciò non risolve niente. All’insorgere del minimo conflitto o della minima contraddizione la sofferenza ricompare. Vivere autenticamente la vacuità significa viverla quotidianamente attraverso la pratica dello zazen. Richiede una grande attenzione, una grande vigilanza quotidiana. La visione della vacuità dell’ego deve imporsi a noi stessi come qualche cosa di vissuto, di interiorizzato. Se la vacuità viene autenticamente vissuta, si manifesta nella nostra relazione con i fenomeni tramite un «lasciare la presa». Se si pratica da soli, senza un maestro, si sarà tentati piuttosto di diventare dogmatici, nonché di rendere la vacuità un concetto astratto. Il maestro Deshimaru non permetteva di cadere in questo tipo di errore. La cosa più efficace per noi era questo sguardo che egli gettava su di noi come su se stesso. Nutro forti dubbi quando sento qualcuno dire che non ha più illusioni, passioni, emozioni. Queste sono in realtà illusioni supplementari che possono provocare un arresto dell’evoluzione. Per me il satori e l’illusione vanno di pari passo. Penso che non si sia mai totalmente distaccati. La nostra capacità d’illusione è costante. Il nostro karman non può essere reciso una volta per tutte! La maestria consiste nel vedere e nell’esser capaci di sorridere di ciò che si vede, nell’accettare, nell’integrare e nel non esserne posseduti. Solo a questa condizione possiamo continuare un vero cammino. Il vero maestro è colui che non riconosce se stesso come un maestro, ma è sempre consapevole che qualche cosa gli sfugge. Non si può dire: «Adesso sono veramente un maestro, ho il satori». Rimanere umili è importante. Vedere, come diceva il maestro Dôgen, che sulla via si è sempre solo a metà strada. A questo proposito il maestro Ryôkan aveva scritto una poesia: «L’anno scorso un monaco scemo, quest’anno nessun cambiamento».

La tradizione del buddhismo Zen Sôtô oggi si è ben instaurata in Europa e l’insegnamento del maestro Deshimaru si sta sviluppando sia in Argentina che in Canada. Di recente sono nati dei dôjô in Irlanda e in Romania. Ci piacerebbe ripercorrere con Lei le grandi direttrici di questa tradizione del buddhismo Zen dalle sue origini.

Il maestro Dôgen che introdusse lo Zen Sôtô in Giappone nel 1227, diceva che quelli che lo qualificano come una setta sono esseri demoniaci. Per lui l’essenza dello Zen stava nella pratica della meditazione seduta, zazen; cioè in una totale unità del corpo e della mente con la realtà così come si manifesta qui e ora. Penetrare questa realtà comune a tutti gli esseri fu l’essenza del risveglio del Buddha, cinque secoli prima di Cristo. Questa esperienza è stata trasmessa da maestro a discepolo in India per ventotto generazioni, poi in Cina attraverso la linea dei Patriarchi comune alle tradizioni Sôtô e Rinzai. Queste scuole sono state trasmesse in Giappone all’inizio del XIII secolo, poi in Europa a partire dal 1967, l’anno in cui il maestro Deshimaru arrivò a Parigi.

Spesso si parla del Buddha, ma che cosa sappiamo della trasmissione dell’essenza del suo insegnamento, al di là della leggenda?

Il Buddha trasmise l’essenza dell’insegnamento a Mahâkâshyapa durante il sermone silenzioso al Picco dell’Avvoltoio. Davanti ai suoi molti discepoli riuniti egli prese un fiore e lo rigirò tra le dita, in silenzio. Come ho già raccontato, soltanto Mahâkâshyapa comprese, in una perfetta comunione «dalla mia anima alla tua anima» con il suo maestro. Il Buddha disse: «Posseggo l’occhio del tesoro della vera legge, lo spirito sereno del Nirvâna, e ora lo trasmetto a Mahâkâshyapa». Questa trasmissione da cuore a cuore («I shin den shin») può realizzarsi nella pratica dello zazen, seduti insieme in silenzio nel dôjô, quando si abbandona ogni attaccamento al corpo e alla mente, in una totale attenzione a ciò che è, qui e ora. Al di là di tutte le categorie mentali, questa trasmissione è confermata dallo shihô. È una certificazione della realizzazione del discepolo da parte del suo maestro che garantisce la purezza, senza deformazioni, della trasmissione del risveglio del Buddha fino a noi.

In seguito Mahâkâshyapa trasmise lo shihô ad Ânanda, il quale era stato il segretario del Buddha, ma a causa del suo eccesso di erudizione aveva ritardato il proprio completo risveglio. In effetti, egli era sempre rimasto scettico, come è tipico degli intellettuali, in cui l’intelligenza discorsiva oscura l’intuizione, la visione immediata della realtà così com’è. Il giorno in cui Mahâkâshyapa sentì che Ânanda era pronto, ebbero il seguente dialogo:

Ânanda: «Maestro, che cosa vi ha trasmesso il Buddha oltre al kesa ricamato d’oro?».

Mahâkâshyapa chiamò allora con voce forte:

«Ânanda!».

«Sì, maestro».

«Tronca il palo».

Infatti si drizzava un palo sormontato da uno stendardo quando c’erano degli incontri in cui i religiosi si affrontavano su certi punti dell’insegnamento.

Fu a questo richiamo che Ânanda realizzò il risveglio. Così, ad una semplice parola di Mahâkâshyapa, Ânanda dimenticò tutte le sue conoscenze e i suoi dubbi. Ogni discussione era diventata inutile. L’essenza della verità era realizzata e trasmessa, non c’era più alcuna differenza tra il maestro e il discepolo. Questa trasmissione proseguì per un millennio in India passando per Nâgârjuna, uno dei più famosi patriarchi cui si rifanno diverse scuole del buddhismo Mahâyâna.

In che modo il buddhismo ha potuto, dall’India, arrivare fino al Giappone, data la distanza di questo paese?

Prima di rievocare la comparsa del buddhismo in Giappone bisogna tornare al VI secolo d.C. Fu in quell’epoca che Bodhidharma trasmise l’essenza del risveglio del Buddha dall’India alla Cina. «Perché Bodhidharma è venuto dall’Occidente?». La domanda è diventata il centro di numerosi dialoghi con cui il maestro metteva alla prova la comprensione di un discepolo in merito all’essenza dello Zen. Bodhidharma stesso aveva risposto: «Sono venuto in Cina per trasmettere l’essenza del Dharma del Buddha e aiutare tutti gli esseri che soffrono a causa delle loro illusioni». Egli espresse anche questa verità in una poesia:

«Il fiore apre i suoi cinque petali, questo fiorire è un divenire naturale».

La trasmissione del buddhismo in Cina, agli albori dell’era cristiana, era avvenuta dapprima attraverso la traduzione dei sûtra sanscriti. Inizialmente si trattò di un approccio dottrinale e intellettuale, come fu d’altra parte in Francia, prima della venuta del maestro Deshimaru, nel 1967. I Cinesi disputavano su certi punti della dottrina, come ad esempio se il risveglio fosse originario o acquisito tramite lo studio e la pratica. Ma l’essenza della verità realizzata dal Buddha sfuggiva loro completamente poiché non praticavano l’autentico zazen. Ciò che trasmise Bodhidharma è la pratica giusta, che include la realizzazione, al di là di tutte le separazioni tra pratica e satori. È la pratica pura, senza impurità, senza oggetto, mushotoku, che ha il potere di guarire gli uomini dalle illusioni che derivano dal loro ego dualista. Come un fiore che sboccia, in modo improvviso e naturale. Esso realizza ed esprime totalmente la sua natura di fiore in questo fiorire inconscio e naturale. L’immagine si applica anche all’essere umano che, seduto in zazen, diventato una sola cosa con la postura, con la respirazione, la mente libera da ogni oggetto e da ogni ostacolo, «lascia passare» senza attaccamento tutti i fenomeni che affiorano alla coscienza, e realizza la sua natura pura e libera, in armonia con tutto l’universo, senza cercare la verità, senza respingere le illusioni.

Arrivato nella Cina del Sud, Bodhidharma incontrò l’imperatore Wu di Liang, il protettore del buddhismo, il quale gli domandò:

«Ho fatto costruire molti monasteri, ho aiutato molti monaci, quali sono i miei meriti?».

«Nessun merito!».

«Qual è la santa verità del buddhismo?».

«Un vuoto insondabile e niente di sacro».

«Chi sei tu, davanti a me?».

«Non lo so».

Questo dialogo esprime l’essenza dell’insegnamento di Bodhidharma. «Nessun merito» significa che se pratichiamo la via al fine di ottenere una ricompensa (l’illuminazione) questa pratica interessata, orientata verso uno scopo, diventa una schiavitù e si pone agli antipodi dell’autentica libertà. Praticare senza scopo, senza spirito di profitto, nell’abbandono totale di sé, permette di scoprire che lo zazen in sé è il risveglio, il satori, un’autentica liberazione.

Quando egli continua dicendo: «Un vuoto insondabile…» vuole dire che in zazen la nostra mente è vuota, simile al vasto cielo che include tutto il cosmo e «non è disturbato dal volo delle nuvole bianche» (i desideri, le emozioni…). Perché è al di là di ogni nozione e di tutte le opposizioni, senza impurità, in unità con tutto l’universo. «Niente di sacro» esprime il fatto che sacro e profano non sono più separati. È ritornare alla sorgente dello spirito religioso, prima dell’avvento delle religioni. Prima che la rivelazione si trasformi in dogma, regno del potere e causa di contrasto tra gli uomini. Ma significa anche che tutto è sacro, che tutto esprime la natura-di-buddha. Infine, «non lo so» indica che siamo senza coscienza personale, senza un sapere, senza dualità. È realizzare la dimensione infinita e illimitata della nostra esistenza in unione con tutte le esistenze. Da questa realizzazione nasce l’autentico spirito della compassione che non crea nessuna separazione tra sé e gli altri.

Lo Zen, come la filosofia di Socrate, si è sforzato di realizzare la profonda comprensione di se stessi come fonte della vera saggezza. Ma, mentre il filosofo si sforza di cogliere l’essere rinchiudendolo in concetti, l’esperienza dello zazen ci rivela che l’essenza della nostra esistenza è di non avere né essenza né sostanza. Studiare l’ego è abbandonarlo in quanto concetto limitato non corrispondente alla realtà della nostra presenza in questo mondo. Studiare se stessi diventa dimenticare se stessi. È la confessione della nostra ignoranza: alla fine, non sappiamo che cosa siamo. È l’espressione più giusta del carattere infinito della nostra vita.

L’imperatore non riusciva a capire questa dimensione dell’insegnamento di Bodhidharma, che dovette lasciare la capitale per ritirarsi nel tempio di Shorin-ji, tra le montagne del nord della Cina, dove praticò solo zazen faccia al muro di una grotta per nove anni. Infine Bodhidharma incontrò un discepolo, Eka, al quale poté trasmettere l’essenza dello Zen. Il loro incontro rimase famoso. In una notte di neve Eka si sedette davanti alla grotta in cui Bodhidharma faceva zazen. Questi non gli prestò alcuna attenzione. Allora, per dimostrargli la sua grande determinazione nel seguire la via, Eka si tagliò il braccio sinistro con la spada. Nel vedere la determinazione del visitatore, Bodhidharma l’accettò come discepolo e gli chiese:

«Perché sei venuto fino a me?».

«Maestro, la mia mente non è in pace: per favore, pacificatela voi per me».

«Fammi vedere la tua mente».

«La mia mente è inafferrabile, non ve la posso mostrare».

«Allora l’ho già pacificata per te».

Quando realizziamo che l’essenza della mente non si può afferrare, non abbiamo più bisogno di tormentarci. Possiamo allora realizzare la vera vacuità, vivere con uno spirito pacifico in armonia con la realtà ultima. In questo stato, la nostra esistenza senza sostanza fissa non è separata da niente. Niente manca, niente è di troppo. Non abbiamo più bisogno di rincorrere ciecamente tutti i nostri oggetti di desiderio. La nostra mente è pacificata. È la mente che si realizza in zazen e che si chiama hishiryô. Questo spirito si è trasmesso attraverso i grandi patriarchi dello Zen cinese: Sôsan (Seng-ts’an), Dôshin (Tao-hsin) e Kônin (Hung-jen) fino a Enô (Hui-neng)1, il sesto patriarca. È a partire da Dôshin che lo Zen ha incominciato a essere praticato in grandi monasteri. Fu introdotto il lavoro che venne considerato come un’applicazione della via nella vita quotidiana, in sostituzione della mendicità, poco accettata dalla mentalità cinese.

La successione da Kônin a Enô fu segnata da una prima divisione; quella che oppose lo Zen del Nord allo Zen del Sud. Lo Zen del Nord, rappresentato dal maestro Jinshû (Shen-hsiu), metteva l’accento sul risveglio graduale per mezzo della pratica della meditazione e dei precetti come processo di purificazione. Mentre lo Zen del Sud, rappresentato dal maestro Enô, privilegiava la realizzazione immediata, tramite l’intuizione della nostra vera natura, che è vacuità, assenza di sostanza fissa, e dunque esistenza in interdipendenza con tutto l’universo.

Per scegliere il suo successore, Kônin aveva chiesto ai suoi discepoli di scrivere una poesia che esprimesse ciò che avevano compreso del suo insegnamento. Jinshû, il più intelligente dei discepoli, aveva scritto:

Il corpo è l’albero del risveglio.
La mente è uno specchio tondo.
Dobbiamo continuamente spolverarlo
perché non vi si posi la polvere.

Enô, che era analfabeta e lavorava in cucina, si fece leggere quella poesia ed esclamò: «Questo non è l’essenza dell’insegnamento del nostro maestro, scrivete così»:

Il corpo non è un albero.
Lo specchio non brilla da nessuna parte.
Poiché all’origine non c’è niente,
dove potrebbe mai posarsi la polvere?

Questa poesia permise a Enô di diventare il successore di Kônin e il sesto patriarca zen in Cina. In lui non esisteva più alcuna separazione tra la pratica e la realizzazione. La sua pratica di zazen non era una tecnica per purificarsi e perfezionarsi spiritualmente allo scopo di realizzare il risveglio. Sin dal primo istante zazen è realizzazione del risveglio supremo se è praticato con la postura giusta e una respirazione corretta, in una condizione di spirito distaccato dall’illusione e dal satori, senza oggetto, senza prendere o rifiutare qualsiasi cosa. Mushotoku è la pura essenza del risveglio del Buddha.

Dopo Enô, la scuola del Sud si divise in due linee: quella di Seigen Gyôshi (Ching-yüan Hsing-ssu) che sarebbe poi diventata la scuola Sôtô, e quella di Nangaku Ejô (Nan-yüeh Huai-jang) che sarebbe diventata la scuola Rinzai verso il IX secolo.

La scuola Rinzai favorì lo studio dei kôan, parole degli antichi maestri, come mezzo per raggiungere l’illuminazione e lo zazen non era nient’altro che un mezzo per concentrarsi sui kôan. I maestri della scuola Sôtô, come Tendô Nyôjô (T’ien-t’ung Ju-ching) che fu il maestro di Dôgen tra il 1223 e il 1227, insegnavano la pratica dello shikantaza consistente nella sola concentrazione sulla postura seduta, osservando se stessi, dimenticando se stessi ed entrando così in armonia con la verità cosmica fondamentale in modo inconscio e naturale. I suoi avversari la denominarono «scuola dell’illuminazione silenziosa», cosa che il maestro Wanshi Shogaku (Hung-chih Cheng-chüeh) accettò favorevolmente. Nel silenzio dello zazen non abbiamo bisogno di niente. La luce della coscienza in zazen brilla al di là di qualsiasi opposizione tra noi stessi e l’oggetto.

La tradizione Rinzai era stata trasmessa in Giappone dal maestro Eisai, il primo maestro di Dôgen. Quest’ultimo, non soddisfatto di questo insegnamento, andò in Cina dove finì per incontrare il maestro Nyôjô nel 1223 e lo riconobbe immediatamente come suo vero maestro. Ai suoi occhi egli incarnava la successione del Buddha e dei patriarchi.

Dopo essere passato per la scuola del buddhismo Tendai, Dôgen si poneva questa domanda: «Se tutti gli esseri hanno già la natura-di-Buddha, a che serve praticare per realizzarla?». Praticando lo zazen shikantaza con il maestro Nyôjô, Dôgen capì che la natura-di-buddha era inseparabile dalla sua attuazione pratica. Zazen non era quindi un mezzo per raggiungere il risveglio, ma la realizzazione e l’espressione del risveglio originario di tutti gli esseri.

Potrebbe spiegare in maniera più precisa la differenza tra le tradizioni Sôtô e Rinzai?

Il cuore dell’esperienza dello Zen Sôtô è lo zazen che ci conduce ad abbandonare ogni attaccamento materiale e spirituale. È un’esperienza nella quale andiamo costantemente al di là di ogni genere di pensiero e di emozione. La mente è senza oggetto. Si tratta semplicemente di shikantaza, cioè lo star seduti nella concentrazione-osservazione, in unione con tutto l’universo. In effetti lo Zen Sôtô nacque in Cina con il maestro Tôzan Ryôkai (Tung-shan Liang-chieh, 807-869), che fu l’undicesimo patriarca dopo Bodhidharma. Egli esprime il suo risveglio con questa poesia che svilupperà poi nello Hôkyô Zan Mai, poema sul «samâdhi dello specchio prezioso»:

Non cercare la via presso gli altri
in un luogo lontano.
La via esiste sotto i nostri piedi.
Adesso io vado da solo
ma posso incontrarla dappertutto;
egli adesso è certamente me,
ma io non sono lui.
Perciò in tutte le cose che incontro
posso ottenere l’autentica libertà.

A volte, interrogando dei monaci nell’àmbito della tradizione Rinzai o Sôtô, si ha l’impressione di una certa reciproca condiscendenza, come se dicessero: «All’infuori del Sôtô niente altro è buono», e viceversa.

Ambedue le vie rappresentano l’essenza del risveglio del Buddha; la direzione è la stessa. La differenza fondamentale consiste nella pedagogia, e la possiamo riassumere in poche parole: nello Zen Sôtô la pratica dello zazen non è una tecnica di meditazione per ottenere il risveglio. Non esiste dualismo tra la pratica qui e ora e un’illuminazione da ottenere in futuro. Questo non-dualismo tra realizzazione e pratica è il punto essenziale del risveglio del Buddha in quanto lo scacco della sua ascesi precedente era dovuto alla ricerca di un risveglio futuro. Solo quando il Buddha ebbe abbandonato quella tensione per sedersi semplicemente senza alcun oggetto di ricerca, allora scoprì il risveglio. La vera rivoluzione spirituale avviene nel continuo «lasciare la presa» senza pensare al risultato.

I maestri Rinzai reintrodussero artificialmente quella tensione chiedendo ai loro discepoli la soluzione di un kôan per mezzo dello zazen. La pratica viene così a trovarsi ridotta a un ruolo subalterno. Diventa un semplice mezzo di soluzione del kôan e non è più di per se stessa realizzazione del risveglio ma una tecnica per ottenere il satori.

Una tale pedagogia può senz’altro offrire certi vantaggi quando sia adottata con saggezza e maestria da un autentico maestro nel contesto di un monastero, ma è assai pericolosa per gli occidentali. Sfortunatamente non ci sono dei grandi maestri giapponesi della tradizione Rinzai in Europa; gli occidentali possono incontrarne uno per caso. Io penso che il sistema Rinzai, come il metodo tibetano, sia interessante ma che implichi a volte lunghe peregrinazioni per gli Europei. I kôan rappresentano l’oggetto da afferrare, da capire, la ricompensa. Passiamo un primo esame, poi un secondo, dicendo a noi stessi: «Ecco, sono riuscito a risolvere il kôan numero 1, adesso potrò risolvere il numero 2…». Ci sono milleottocento kôan. Si possono così passare anni e anni andando da un kôan all’altro. Che viaggio! Lo zazen è la realizzazione finale riconosciuta da tutte le scuole del buddhismo, però certe scuole mettono in dubbio la possibilità di affrontarlo direttamente e pensano di dover mettere delle tappe preliminari con una preparazione fisica e mentale. Può essere del tutto legittimo e logico perché non è facile per un Occidentale dalla mente molto agitata praticare subito la via ripida e senza oggetto. Sfortunatamente vediamo che i praticanti si perdono nelle vie d’avvicinamento finendo col non distinguere più l’essenziale, considerato come talmente inaccessibile e lontano da diventare un miraggio, ed è un ostacolo alla pratica. Penso, come il maestro Deshimaru, che sia meglio andare direttamente all’essenziale, se non altro perché potremmo morire domani stesso. Certe volte le scuole buddhiste che dicono di rifarsi al Mahâyâna o al Tantrismo, che sono delle vie non dualiste, lo ridiventano nella loro pedagogia. La grande forza dello Zen Sôtô è la totale fiducia nello zazen.

A proposito dei kôan, Gérard Blitz una volta ci disse: «Il kôan è una domanda la cui risposta è data prima dal corpo che dal pensiero».

Certamente! Attenzione, non sto negando l’importanza del kôan. Per esempio, io do un’estrema importanza alla risposta di Sensei alla mia prima domanda: «Perché esiste qualcosa invece di niente?» alla quale lui rispose: «Non bisogna guardare solo le foglie dell’albero ma anche le radici». Ho spesso riflettuto su quella risposta e ogni volta l’ho vista sotto una luce diversa. La domanda è eterna e la risposta ha un valore infinito. Il kôan deve attuare in maniera viva la verità eterna.

Tra tutti gli insegnamenti ricevuti, sappiamo che il Buddha, non soddisfatto, indicò una via che chiamò «la via di mezzo»: lo Zen; e creò una nuova tecnica di meditazione: lo zazen. Perché questo nome? Qual è la sua relazione con le altre pratiche tradizionali e in che modo poterono servirgli da base?

Il Buddha tentava di risolvere il problema della sofferenza connessa all’impermanenza della vita. Sofferenza per il fatto di non poter conservare eternamente quello che ci piace, né evitare ciò che non ci piace. Cercava uno stato di pace e di libertà: il nirvâna, dove la sofferenza legata alla malattia, alla vecchiaia e alla morte fosse vinta. Trovò un primo maestro, Alara Kalama, il cui dharma, conduceva al mondo della non-esistenza. Shâkyamuni realizzò questo dharma, ma anche il fatto che esso non portava all’assenza di illusioni, alla soppressione della trasmigrazione, alla calma, al nirvâna, ma solo al nulla. Non ne fu soddisfatto e si allontanò.

Ebbe poi un secondo maestro, Uddaka, discepolo di Rama. Il suo dharma portava ad un mondo in cui non esistevano né idee né assenza di idee. Shâkyamuni praticò questo dharma e vide che anche questo era insufficiente poiché non portava ancora alla vera liberazione. Decise allora di darsi a una severissima ascesi che lo condusse in uno stato molto prossimo alla morte, nella speranza che mortificando il corpo con uno strettissimo digiuno e controllando i movimenti della mente con la volontà sarebbe giunto alla soppressione dei desideri e alla realizzazione di quella libertà cui aspirava. In effetti non aveva fatto altro che aumentare le sue sofferenze, e constatò: «Non è con questo ascetismo terribile che supererò la legge umana e arriverò a distinguere chiaramente l’autentica saggezza». Alla fine, prese la decisione di sedersi in zazen e di non muoversi più. Realizzò così il risveglio diventando il Buddha.

Quali sono le caratteristiche dello zazen? Prima di tutto l’unità del corpo con la mente. È infatti impossibile liberare la mente opponendosi ai bisogni naturali del corpo e mortificandolo. È necessario un equilibrio, una via di mezzo. Si tratta di non seguire i desideri, ma anche di non rifiutarli. Si tratta di non attaccarsi né alle mortificazioni né ai piaceri. Lo zazen è una via equilibrata che permette un ritorno alle condizioni normali del corpo e della mente. Comunque, attaccarsi al non-pensiero, al vuoto, non può condurre alla vera saggezza. In zazen pensiamo dal profondo del non-pensiero osservando i pensieri che affiorano, senza seguirli e senza respingerli. Si tratta solo di vedere ciò che è senza fermarsi su niente, con uno spirito libero da qualsiasi intenzione.

L’autentica saggezza risiede nell’osservazione e nella conoscenza di se stessi. La concentrazione senza pensieri è insufficiente per realizzare questa saggezza. La ricerca del nirvâna o del satori produce una tensione, una dualità della mente. Il satori non si può realizzare che inconsciamente e naturalmente quando ce ne dimentichiamo, come Shâkyamuni che si risvegliò vedendo la stella del mattino. Infine, c’è la nozione di non-progressione e d’immediatezza. Non è una via che si realizza tappa dopo tappa, dallo stato infernale allo stato di Buddha, come è per altre vie. Non ci sono tappe tra la postura di partenza e il satori da raggiungere perché lo zazen stesso è il satori. Ogni zazen dev’essere assoluto, qui e ora.

Il buddhismo tibetano è ampiamente diffuso in Europa. Nonostante questa via sia nata dal buddhismo, come mai queste due vie hanno così tante diversità formali?

Al pari del buddhismo tibetano, lo Zen riconosce e integra tutti gli insegnamenti del Buddha che si sono suddivisi in buddhismo Hinayâna, Mahâyâna e Tantrayâna. L’aspetto tantrico dello Zen è legato all’assimilazione di alcune pratiche del buddhismo tantrico giapponese, lo Shingon, perché nel XIV secolo molti templi shingon furono occupati dai monaci zen. È soprattutto la pratica dello zazen che trasforma l’energia dei desideri umani senza che tali desideri siano respinti con lo sforzo volontario cosciente. Questa trasformazione collima con un aspetto importante del tantrismo ma, a differenza del buddhismo tibetano, lo Zen è rimasto incentrato su una pratica semplice e priva di aggiunte culturali locali. Non è una tecnica spirituale né un mezzo per realizzare il risveglio.

Dal momento in cui lo pratichiamo nel modo giusto, lo zazen è risveglio. Un’autentica libertà al di là di ogni dualità. Per ragioni pedagogiche e nel lodevole intento di aiutare i diversi discepoli, il buddhismo tibetano ha sviluppato tecniche molto varie, ma lo scopo di tutti questi metodi è quello di realizzare lo spirito dello zazen in quanto risveglio supremo.

Potremmo parlare un po’ più dettagliatamente di nozioni fondamentali della tradizione buddhista Zen Sôtô come il Dharma e il Sangha?

Il Dharma è la verità alla quale il Buddha si è risvegliato con la pratica della meditazione seduta, zazen. Questa verità non è un sapere appreso, ma l’esperienza della realtà ultima di questo universo. Il Dharma indica quindi la realtà ma anche la visione di tale realtà e la trasmissione di questa comprensione. Questo termine indica anche le cose come sono, i fenomeni, che il Buddha diceva essere senza sostanza propria poiché essi esistono solo per interdipendenza, sono impermanenti perché nati da cause, e causa a loro volta di sofferenze. Il Dharma del Buddha, il suo insegnamento, consiste nel vedere la sofferenza e le sue cause, e nel realizzare la via che permette all’uomo di tornare alle condizioni normali del corpo e della mente, e di liberarsi dalla sofferenza.

Il Sangha è la comunità dei discepoli del Buddha. Sono diventati discepoli con l’ordinazione a monaco, monaca o bodhisattva. Con questo essi esprimono la loro fede nell’insegnamento trasmesso e in colui che lo trasmette come successore del Buddha. Ciò che chiamiamo sanzen, la pratica dello Zen, è la pratica sotto la guida di un maestro. Senza maestro, niente Sangha. In seno al Sangha si instaurano rapporti fraterni di simpatia e rispetto reciproci. La pratica di ciascuno diventa uno stimolo e un aiuto per gli altri. A differenza della pratica solitaria essa diventa naturalmente altruista. Gli altri sono altrettanti specchi che ci aiutano a capire noi stessi e a dimenticare noi stessi. Infine il Sangha è in unità con il Buddha e il Dharma, e costituisce uno dei «Tre Tesori» del buddhismo.

Che cos’è un bodhisattva? Il maestro Deshimaru diceva, e cito a memoria: «Se quelli che prendono i voti di bodhisattva sapessero in che cosa s’impegnano!». Come per esprimere la gravità dell’impegno, da non prendere alla leggera ma in piena coscienza di quello che implica.

Originariamente il bodhisattva era un discepolo laico del Buddha che seguiva e praticava il suo insegnamento senza rinunciare al mondo come invece facevano i monaci. Il bodhisattva conduce una vita in famiglia e ha una professione, restando in contatto con il mondo sociale. Egli esercita un’influenza benefica sulle persone comuni, non differenziandosi da esse e superando con loro le difficoltà della vita sociale, che condivide con gli altri. Con lo sviluppo del buddhismo Mahâyâna, è diventato l’ideale di questa via che vuol dire «Grande Veicolo», proprio perché non è riservata a una minoranza di monaci ma è una via di liberazione universale, al di là dell’ideale di santità ascetica del Piccolo Veicolo, realizzabile solo dai monaci che si sono ritirati dal mondo. Il bodhisattva realizza attraverso lo zazen che la sua vita non è separata o diversa da quella degli altri.

Quando facciamo l’esperienza della vacuità, il non-ego, realizziamo la nostra interdipendenza con tutti gli esseri dell’universo. Quando accettiamo questa interdipendenza ci armonizziamo con l’ordine cosmico, lo viviamo positivamente. Si dice spesso che il bodhisattva rinuncia al proprio risveglio fino a quando tutti gli altri esseri non abbiano raggiunto il nirvâna, ma in realtà egli è pienamente risvegliato ed è proprio per questo che può aiutare, con la sua compassione naturale. Il bodhisattva che conduce una vita non egoista realizza il nirvâna vivente in mezzo al mondo dei fenomeni.

I monaci devono essere prima di tutto dei bodhisattva. Compiere le azioni del bodhisattva per aiutare gli altri è non differenziarsi e non separarsi da loro, ma cercare di sollevare dalle sofferenze ogni essere vivente. Significa avere parole di conforto e praticare la pazienza, lo sforzo. Praticare la meditazione per agire con saggezza e compassione.

Che cosa esprimono i termini e mu?

Mu è la negazione, l’assenza. Si dice per esempio essere mushin, senza coscienza personale, senza intenzione, lo spirito non impedito da alcun oggetto. Indica una maniera di essere, libera e spontanea. Si può anche dire mushotoku, senza cercare un merito, un profitto, o anche mumyo, non chiaro, non luminoso, che indica la condizione d’ignoranza, l’illusione dell’ego condizionato dal karman. Invece in un mondô, mu è al di là della semplice negazione. È al di là del dualismo. Nella risposta di Jôshû alla domanda «Un cane possiede la natura-di-buddha?», il termine mu esprime il carattere illimitato della natura-di-buddha, che sfugge a qualsiasi determinazione.

indica la vacuità, l’assenza di sostanza fissa. Esprime l’interdipendenza di tutte le esistenze. L’ideogramma indica il cielo che ingloba tutto, il cosmo, la realtà cosmica fondamentale. È la nostra mente in zazen in unione con tutto l’universo. Nello Hannya Shingyô troviamo: in non c’è né ego, né sofferenza, né paura, né verità, né illusione. Realizzare è liberarsi da ogni oggetto e dallo spirito di opposizione e andare tutti insieme al di là, oltre tutti gli ostacoli, sulla riva del nirvâna.

Possiamo parlare, sempre nell’àmbito della tradizione, degli elementi fondamentali presenti in uno zazen, come lo zafu, il kesa, il kyosaku?

Lo zafu è un cuscino rotondo spesso una ventina di centimetri riempito di kapok. Per praticare zazen ci sediamo sulla parte anteriore incrociando le gambe in modo che le ginocchia tocchino il suolo. Lo zafu permette di avere una postura stabile, il bacino inclinato in avanti rispettando la curvatura lombare senza accentuarla e senza creare tensioni. Questo permette di raddrizzare la colonna vertebrale a partire dalla vita in su e di mantenere la schiena verticale. Il ventre è disteso e l’espirazione può diventare lunga e profonda. L’impiego dello zafu risale allo stesso Buddha Shâkyamuni che si era fatto un cuscino con dell’erba per fare zazen sotto l’albero della Bodhi. Lo zafu dev’essere personale e adattato alla postura di ciascuno.

Il kesa è l’abito del monaco zen trasmesso dal Buddha in poi. Quando egli lasciò il suo palazzo per praticare la via del risveglio, abbandonò i vestiti principeschi e si fece un abito formato da un rettangolo di tessuto composto da bande cucite insieme. Ogni banda è costituita da stracci e altri tessuti gettati via che Shâkyamuni raccolse nei dintorni dei campi crematori. Accuratamente lavati, tinti di color ocra e poi cuciti insieme, questi tessuti divennero l’abito che Shâkyamuni metteva per praticare zazen, per mendicare e con il quale realizzò il risveglio. Questa stoffa divenne il simbolo della trasformazione delle passioni umane in saggezza. Quando il Buddha trasmise l’essenza del suo insegnamento a Mahâkâshyapa gli diede anche il kesa, che continua a essere trasmesso simbolicamente ai giorni nostri al momento della cerimonia dell’ordinazione. Ogni monaco deve possedere tre kesa: il kesa a cinque bande, o rakusu, di piccolo formato che si porta nella vita quotidiana, il kesa a sette bande che si mette per fare zazen, e il kesa a nove bande che si mette quando si assumono delle responsabilità nell’insegnamento, all’interno del dôjô o durante una cerimonia.

Il kyosaku è un bastone con un’estremità appiattita che serve ad aiutare i praticanti di zazen a mantenere la giusta attenzione. Per questo si chiama «bastone del risveglio». Il colpo con il kyosaku viene dato a chi lo richiede. Si colpisce quindi sul tragitto dei meridiani dell’agopuntura in un punto situato sulla massa muscolare delle spalle, vicino alla base del collo. La stimolazione ha l’effetto di risvegliare chi tende ad addormentarsi e di calmare chi è troppo agitato. Questo permette di ritrovare la condizione normale del corpo, né teso né rilassato, e della mente, al di là del pensiero e del non-pensiero.

La cerimonia che segue la pratica dello zazen fa nascere molte domande. Alcuni principianti dicono che a loro piace fare zazen ma si sentono a disagio durante la cerimonia. Altri decidono persino di non tornare più proprio a causa di questa cerimonia. Il maestro Deshimaru diceva che «l’essenza dello Zen è la pratica dello zazen e il kesa trasmesso durante l’ordinazione».

Nessuno è obbligato a partecipare alla cerimonia. Si può semplicemente rimanere nell’ultima fila, seduti con le mani in gasshô. Il maestro Nyojo diceva: «La pratica dello Zen è corpo e mente abbandonati. Non è necessario bruciare incenso, prosternarsi, ripetere il nome del Buddha, imporsi delle mortificazioni o recitare dei sûtra. Concentratevi sulla postura giusta di zazen».

È vero che le cerimonie non sono «necessarie». Lo zazen non ha bisogno di niente: non è una tecnica o un esercizio spirituale da completare con un rituale elaborato. Lo zazen stesso è la pratica-realizzazione del risveglio supremo. Perché fare indigestione di cerimonie? Potete infatti decidere di sopprimerle, ma constaterete allora che alzarsi rapidamente dopo lo zazen e passare, senza intervallo, di nuovo all’agitazione della vita quotidiana non è soddisfacente. Vi starete certamente chiedendo: «Non si potrebbe praticare qualcosa di semplice che sia il prolungamento naturale dell’atteggiamento del corpo, della respirazione e della mente in zazen?». È proprio questo ciò che chiamiamo cerimonia e che continuiamo a praticare come faceva il maestro Deshimaru.

All’inizio, congiungiamo le mani in gasshô e cantiamo il sûtra del kesa. Gasshô è il gesto del rispetto. Realizza l’armonia tra sé e gli altri, tra materia e spirito. Il maestro Deshimaru diceva: «La mano sinistra rappresenta Dio o Buddha, la destra l’ego. Congiungendole si stabilisce l’unità completa con Dio o Buddha».

Poi il godô fa l’offerta dell’incenso e tutti si prosternano in sanpai. Fare sanpai è l’espressione perfetta dello zazen: abbandono del proprio ego, abbandono del corpo e della mente diventando umili davanti agli altri, davanti all’ordine cosmico e ai buddha viventi che vengono a fare zazen. Sanpai è realizzare che il Dharma, la trasmissione dell’insegnamento, è assai più importante del nostro piccolo corpo. Poi cantiamo l’Hannya Shingyô, il Sûtra della Grande Saggezza. Se lo studiate, comprenderete che esso esprime tutte le nozioni fondamentali del buddhismo Zen: lo spirito del non profitto, mushotoku, e la compassione dello zazen. Certo, mentre cantate non è necessario pensare al significato, ma esso si attualizza attraverso la postura e l’espirazione profonda del canto stesso. Vengono poi i quattro voti del bodhisattva:

Per numerosi che siano gli esseri, facciamo voto di salvarli tutti.
Per numerose che siano le passioni, facciamo voto di vincerle tutte.
Per numerosi che siano i dharma, facciamo voto di realizzarli tutti.
Per quanto perfetta sia la via del Buddha, facciamo voto di realizzarla.

Questi voti esprimono la fede nello zazen. Esprimono la motivazione a continuare eternamente la pratica. Quale miglior senso alla vita umana? A chi chiede: «Che cosa significa diventare bodhisattva? A che cosa vincola l’ordinazione?», la risposta è semplice: continuare zazen e realizzare questi voti.

C’è poi il momento dell’eko, il ji ho san shi e l’offerta dell’incenso con cui si dedica la cerimonia che si è appena svolta a tutti i maestri della trasmissione, a tutti i praticanti e a tutti gli esseri senzienti. È il dono dei meriti dello zazen per il bene dell’universo intero. Il kito ha lo stesso significato. Quando pratichiamo zazen, sanpai e gasshô abbandoniamo la coscienza individuale e non pensiamo più: «Sto praticando per gli altri». È quello il momento in cui la pratica diventa universale. Tutti gli esseri ne ricevono un’influenza benefica e rispondono creando a loro volta una reciproca simpatia. È ciò che chiamiamo lo sviluppo dello spirito del risveglio attraverso kanno dôkô.

Che cosa diventerebbe la cerimonia senza zazen?

Senza zazen diventerebbe un rito formale, come quello che, nell’epoca moderna, produce la decadenza e la crisi dell’autentico spirito religioso. Dopo lo zazen, la cerimonia semplice che ci ha trasmesso il maestro Deshimaru diventa l’espressione dello spirito religioso più profondo e vivente, tanto necessario all’equilibrio e alla vita dell’uomo quanto il cibo e il respiro. Uscendo dal dôjô la nostra vita può diventare l’espressione di questo spirito in una totale attenzione agli altri e a se stessi, attuando la saggezza e la compassione dello zazen.


 

5

IL RISVEGLIO

Esiste un’evoluzione, una progressione nella pratica che possa condurci al fine ultimo che nel buddhismo Zen si chiama satori? Potrebbe farci partecipi della sua esperienza in proposito?

Quando ho fatto zazen per la prima volta al tempio di Antai-ji non sapevo niente dello Zen o del satori, ma quel mio primissimo zazen mi ha profondamente scosso. In un istante tutti i dubbi che avevo sulla mia vita sono scomparsi di colpo. Ho sentito intimamente che restando semplicemente seduto in questa postura non provavo più alcun senso di mancanza. La mia gioia era molto grande e, sotto l’effetto di questa emozione, poco mancò che cadessi all’indietro. Ero veramente felice perché dopo tutto quel lunghissimo girovagare, alla fine avevo trovato il mio villaggio natale. Era ormai diventato inutile continuare a vagare per il mondo, potevo rientrare a casa mia con il cuore libero.

Ritornato in Francia udii il maestro Deshimaru insegnare che «lo zazen stesso è satori» e mi sentii totalmente in accordo con le sue parole che corrispondevano alla mia esperienza. Ma sebbene reale, almeno mi pare, questa esperienza non risolvette tutto. Continuavano ad agitarsi nella mia esistenza ogni sorta di desideri e di contraddizioni pur provando un senso di pace e di libertà. è come se avessi intravisto un’altra realtà, un altro versante della vita mentre continuavo a vivere da questa parte, provando nostalgia per quella condizione, perché avrei voluto essere costantemente nella coscienza hishiryô dello zazen. Indubbiamente, un altro attaccamento!

La domanda che Lei mi pone potrebbe essere: «Come continuare ad armonizzare la mia maniera di sentire e agire nella vita quotidiana con lo spirito dello zazen?». Ma essendo questo spirito inafferrabile, la cosa non può che essere inconscia e naturale. è molto più difficile misurare i progressi compiuti dal momento che tutto è impermanente e mai definitivamente acquisito. Inoltre, lo zazen accresce la nostra lucidità facendoci scoprire sempre più l’ampiezza delle nostre illusioni, cosa che ci rende umili nei confronti di eventuali progressi. Tuttavia, non ho mai più provato il dubbio o la disperazione che sentivo prima di cominciare a fare zazen. Questo di per sé è molto prezioso.

Più passa il tempo e più vedo concretamente come vi sia, nel quotidiano, un costante va-e-vieni tra il realizzare autenticamente l’insegnamento e il ricadere nel mondo delle illusioni. Ho l’impressione che le due modalità non possano essere separate, che possiamo solo contemplare la nostra illusione, distaccarcene, poi esserne riacciuffati e vivere di nuovo con essa, e così via. Non penso che ci si possa orientare definitivamente dalla parte del positivo, del vero, del risveglio, del satori. Possiamo solo camminare con il satori che in certo qual modo possediamo da sempre poiché è la nostra realtà più profonda dalla quale non siamo mai separati; non è una cosa che esiste non si sa dove. Pertanto, questa realtà non si attualizza in maniera evidente perché viviamo sempre nel desiderio, nell’attesa di altre cose; il nostro karman è così.

è assai difficile riconoscere semplicemente che tutto è qui. Tutto è presente qui e ora. è questo che ho sentito nella mia prima esperienza di zazen, e in certo qual modo vent’anni di zazen consistono nell’attualizzare, dopo lunghi giri, ciò che fu il mio risveglio iniziale. La mia prima esperienza di zazen fu veramente un gran satori. Poi lo si deve «digerire» e farne una realtà quotidiana. Richiede molto tempo perché, prima di arrivare alla pratica, ci sono stati ventotto anni di vagabondaggi e di illusioni, senza contare le vite anteriori…

Questa nozione di satori c’è anche nella tradizione Rinzai.

Nella scuola Rinzai c’è una forma di satori detta kenshô, la visione immediata, un’intuizione della verità profonda in se stessi, ma è una visione molto fuggevole. Il satori autentico, come si insegna nello Zen Sôtô, consiste nell’armonizzarsi con questa realtà senza mistificarla e non lo si può vivere se non nella misura in cui vi si rinuncia. La nostra condizione normale si può realizzare solo rinunciando al raggiungimento di un particolare stato mentale, a condizione di praticare zazen quotidianamente e vivendo a partire da questa pratica, altrimenti il peso dei condizionamenti e delle abitudini di pensiero è troppo forte.

Se si pensa che, siccome tutti gli esseri hanno già originariamente il satori, non ci sia nulla da fare, che quindi praticare è inutile, le abitudini di pensiero prendono il sopravvento e non si potrà mai realizzare questa realtà fondamentale che è comunque sempre accanto a noi ma che si rivela solo nella pratica.

Non si può supporre che, quando siamo riusciti a realizzare il satori, all’inizio in modo fuggevole, ci sia poi uno sviluppo e cioè che dopo numerosi avanti-e-indietro questo stato diventi sempre più frequente o sempre più duraturo, per cristallizzarsi a un certo momento?

La cosa va piuttosto nella direzione opposta: tale stato non si prolunga sempre più, ma invece mi permette di vedere che i miei desideri e i miei attaccamenti sono in verità estremamente potenti ed estesi. Vedendo tale potenza la mia percezione si fa sempre più lucida e acuta permettendomi di non attaccarmi più in modo eccessivo a questi desideri e illusioni. Potremmo dire che c’è un aumento costante dell’illusione e nello stesso tempo del satori. Il satori permette di vedere l’illusione nei confronti della quale si presenta come un abbandono, un lasciare la presa.

Possiamo dire che ci sia in questo stato di coscienza un continuo senso di meraviglia nei confronti di tutto ciò che ci circonda, e che è possibile percepirne direttamente l’essenza?

È un’altra dimensione che esiste simultaneamente. Non è d’ordine sensoriale, percettivo o estetico. è una percezione della vita, semplicemente, che è al di là dell’opposizione «attaccamento-distacco», desiderio d’ottenimento-mushotoku. Finora ho parlato molto di questa oscillazione tra i due, come se ci fosse un cammino quasi costante tra risveglio e illusione che non possono mai presentarsi separatamente. Ma nello stesso tempo nasce un altro modo di guardare la propria vita in cui non c’è più né satori né «illusione». è la percezione della realtà proprio così com’è, senza opposizione né dualità. Tale realtà non è qualificabile, non si può dire: «è la verità», oppure: «è l’illusione». Semplicemente: «è ciò che è», ed è questa la dimensione meravigliosa.

Ci fa venire l’acquolina in bocca. Può portare un esempio concreto?

Facciamo un esempio molto semplice. Compare un dolore: è «solamente questo dolore», e anche il termine «dolore», non è più necessario. è solo la percezione del fatto che è lì, ed è tutto. Né più, né meno! Un pensiero, un’emozione compaiono: sono semplicemente «quelli». Senza prendere né respingere. Ogni cosa è solo così come è, al suo posto, al di là di tutte le qualificazioni. Si diventa allora intimi con ogni cosa e l’accettiamo per quella che è, e basta.

Opera una distinzione tra «illuminazione» e «risveglio»?

No, in realtà non ci sono differenze, ma il maestro Deshimaru ne faceva effettivamente una per gli Occidentali, perché tramite gli scritti del Prof. Suzuki gli Occidentali sono stati indotti a pensare che l’illuminazione sia un evento che colpisce la mente all’improvviso cambiando la prospettiva, il modo di percepire le cose. è un errore. Queste persone non hanno vissuto l’illuminazione e la immaginano intellettualmente, attraverso i libri. Con l’esperienza della pratica dello zazen e dell’insegnamento del maestro Deshimaru, possiamo dire che l’illuminazione non è una condizione speciale, bensì il ritorno alle condizioni normali. Infatti ci si rende conto di non aver bisogno di un’illuminazione speciale poiché qui e ora, a ogni istante, la verità si manifesta e si tratta di una cosa perfettamente normale, direi quasi banale. Penso che l’autentico risveglio sia rendersi conto che non esiste risveglio, né illuminazione. Per molti però l’illuminazione funge da illusione, da specchietto per le allodole…

Possiamo comunque dire che nel momento del risveglio si produce una rottura, un’amplificazione della sfera della coscienza… Prestando fede a chi ha vissuto questa esperienza, esiste proprio un «prima» e un «dopo»?

Sì, qualcosa succede. Un’intuizione, una visione della realtà che non è più la visione dell’ego ordinario, però questo «qualcosa» è assai più naturale, più semplice di quello che pensiamo. Quando realizziamo questa cosa, non è niente di straordinario. Il maestro Deshimaru criticava soprattutto il fatto di conferire uno scopo alla pratica, sia che si tratti di illuminazione o di risveglio, per farne qualcosa di «straordinario» che diviene in breve un nuovo oggetto, e infine un ostacolo al risveglio.

Potrebbe fare un esempio concreto?

Prendiamo semplicemente un sentimento di attaccamento nei confronti di una persona: non dirò che questo attaccamento è illusione, né che non dovrei provare questo sentimento, avrò solo la percezione del sentimento. Questo è ciò che al momento esiste. Se si tratta di un sentimento d’amore, tanto meglio, ma se mi capita a volte di provare tristezza, allora è semplicemente tristezza. Non c’è da giudicare il sentimento, non sto a chiedermi da dove arrivi. Trovo meraviglioso il puro e semplice fatto di viverlo al di là di ogni giudizio.

È così anche per un momento passato a osservare un paesaggio o ad ascoltare una musica senza doversi dire: «Che bello». Si tratta solo di essere lì, di sentire vivamente questo istante, senza giudizio, senza interpretazioni. O ancora stare seduti in zazen e veder affiorare delle emozioni, dei sentimenti che possono anche essere di collera o di gelosia. Si mette allora in movimento un processo per capire e troppo spesso per giudicare: «è stupido, devo lasciar passare…». Poi, bruscamente, anche questo processo finisce e finalmente vediamo: «è solo questo», tutto qui. Senza giudicare né interpretare. Nello stesso tempo non si ristagna su questo processo.

È un momento di accettazione e di unità con ciò che si avverte o si percepisce dall’esterno; guardare un albero, un paesaggio o anche provare una sensazione fisica. è una visione che non aggiunge nulla, ma se a ciò si aggiunge un sentimento o un’emozione, possiamo vederli o accettarli ugualmente così come si presentano. Anche se in quel momento si innesta un attaccamento o un giudizio, dobbiamo vederlo così com’è, perché non è nient’altro che «quello». è realizzare una mente a specchio in rapporto a ciò che è. Uno specchio a due facce: una rivolta verso l’esterno, l’altra verso l’interno, con una totale accettazione. Penso che sia un punto importante nella pratica della Via, sia quando si pensa che vi sia sempre uno stato particolare da raggiungere e che tale stato debba essere privo di emozioni, d’attaccamenti…

Quello che sto dicendo, quando parlo di stato di accettazione, può anche essere a volte l’accettazione dell’inaccettabile: «Sì, è così, non posso accettarlo, è inaccettabile!». In tal caso non dobbiamo colpevolizzarci ma dire a noi stessi: «è così!». In altre parole, essere più vicini alla propria realtà in ogni istante, senza creare dualità, separazioni o giudizi a partire da un ideale: «Nello Zen si deve essere così o cosà… non bisogna avere attaccamenti…».

Dopo vent’anni di pratica regolare i suoi attaccamenti, le emozioni o i desideri sono sempre così vivi o di diversa natura?

Ciò che succede interiormente, in effetti, è l’impossibilità di ristagnare a lungo in uno stato particolare. Tutto avviene molto rapidamente, la visione è immediata: anche se lo volessi, la possibilità di entrare in questo gioco delle illusioni diminuisce sempre di più. Nello stesso tempo la vista si fa via via più acuta e mi permette di lasciare la presa più velocemente. Scopro anche che esistono sempre altre illusioni sotto altre forme, ma questo lo trovo buffo e non mi disturba troppo…

Il mio spirito è molto più in pace, accetto con maggior facilità tutto ciò che esiste, compreso il gioco delle illusioni. Quando mi vedo così sono molto incline allo humour. Sento di dover essere responsabile delle mie azioni, soprattutto di quelle dettate dall’egoismo e dalla negligenza. Sono questi che, moltiplicati per il numero degli individui, producono l’inquinamento mentale e l’atmosfera della società in cui viviamo. Si tratta d’assumersi le proprie responsabilità senza provare sensi di colpa. La sola cosa da fare è approfondire la propria pratica per vivere in modo tale da far cessare spontaneamente un certo numero di comportamenti. Diventiamo così più responsabili, ma non nel senso vero e proprio del termine. Si diventa responsabili naturalmente, senza pensarci.

Che cos’è un makyô?

Il makyô è costituito da manifestazioni, stati alterati di coscienza o fenomeni che possono manifestarsi in zazen. Per esempio, nell’ultima sesshin invernale, una donna mi ha raccontato che vedeva lo zafu della persona davanti a lei diventare luminoso. Perché questa percezione è diventata un makyô? Perché la persona ha incominciato a interpretare la percezione. Ha incominciato a pensare che la persona seduta su quello zafu fosse in uno stato di santità, di purezza. Non si è resa conto che tale visione era in effetti una proiezione della sua stessa mente. Sovente i makyô affiorano nel corso di una pratica intensa perché in quel momento possono insorgere dei disturbi nella percezione. L’atteggiamento giusto è prendere coscienza che si tratta di un makyô ritornando a concentrarsi sull’espirazione per lasciarlo svanire.

Alcuni monaci ci hanno confidato certe esperienze che la riguardano. Qualcuno arriva a pensare che Lei possegga il dono della chiaroveggenza e che il suo sguardo è talvolta animato da un lampo inconsueto. Fa parte dei makyô o della realtà?

Se qualcuno durante il suo zazen comincia a vedermi apparire nella sua mente come un Buddha dalle mille braccia, onnipotente… è un makyô di tipo allucinatorio. Ora, in una relazione tra due individui, è molto difficile scindere ciò che è una proiezione mentale da ciò che è reale. Si vede l’altro sempre attraverso il prisma della propria soggettività, e raramente com’è veramente. Ma non tutto è makyô. Qualche volta si può percepire l’altro nel suo profondo e allora lo scambio avviene «dalla mia alla tua anima»: è l’essenza della trasmissione dello Zen, che si trasmette a volte attraverso uno sguardo.

Quando insegna, si accorge di cambiare livello di coscienza?

Sì, e per fortuna! Ma questi stati sono estremamente fluttuanti. Può capitarmi, in una sesshin, di vivere dei momenti molto forti, degli «stati di grazia» che cerco allora di comunicare, poi ci sono degli altri momenti in cui le cose rimangono tali e quali. Cerco sempre di essere totalmente concentrato nell’istante, il che richiede una vigilanza tutta particolare con cui è possibile ottenere ricettività.

Tutti i maestri hanno insegnato che ricercare il risveglio come qualcosa di speciale costituisce un ostacolo alla realizzazione. Così l’insegnamento del maestro Deshimaru consisteva nel mostrarci che ogni zazen è risveglio e che non dobbiamo andare in cerca di qualcosa di straordinario. Bisogna abbandonare questa bramosia di qualcosa di favoloso, di meraviglioso. La caratteristica principale dell’insegnamento dello Zen Sôtô è proprio quella di non favoleggiare sul satori né di volerlo cogliere attraverso le parole, ma lasciarlo libero di realizzarsi naturalmente.

Insisto, si può ugualmente dire che c’è un’evoluzione nel distacco che può diventare totale. Molti saggi ne sono ancora un esempio vivente.

Il completo distacco non esiste! Lasciarlo credere sarebbe un atteggiamento compassionevole… la carota che vi farebbe camminare, mobilitare grandi energie per continuare. Però nel contesto di un colloquio come questo, devo dire che alla fine il vero risveglio sarà nel realizzare che non c’è alcun risveglio. Il risveglio può esistere soltanto rispetto all’illusione. Il risveglio e l’illusione coesistono come il dritto e il rovescio di uno stesso oggetto. Se siamo capaci di percepire questo fatto siamo anche capaci di andare al di là di questi due poli. Altrimenti rimaniamo nella dualità e desideriamo passare dall’illusione al satori. Così il satori diventa un nuovo oggetto mentale, un’altra illusione. Penso che sia molto importante capire questo se non vogliamo ricadere nel desiderio di ottenere qualcosa di speciale, cosa che è propria dello stato di non-risveglio, dell’alienazione umana.

Ma non possiamo comunque negare che nel corso del loro passaggio su questa terra alcuni abbiano realizzato lo stato ultimo.

Non voglio negarlo né affermarlo. Ciò che m’interessa è la vita che non può essere fissata in alcuno stato. Veramente, il punto ultimo della pratica è fare quello che nello Zen si chiama «ancora un passo». Durante il cammino facciamo degli sforzi, pratichiamo, ci confrontiamo con il nostro karman e con le illusioni. Risolviamo un problema, ma ne compare un altro. Tale cammino è necessario poiché in ultima istanza dobbiamo accettare che c’è sempre «ancora un passo» da fare. Non dobbiamo attaccarci al risveglio perché il risveglio non esiste di per sé, ma soltanto in rapporto all’illusione. Penso che in realtà noi andiamo di satori in satori e l’errore sarebbe proprio pensare che il satori sia uno stato definitivo in cui non ci sono più illusioni. E questa è la suprema illusione! Penso che sia inumano e irrealista. Noi dobbiamo accettare di avere degli attaccamenti: c’è sempre un’alternanza tra satori e «illusione», tra karman e vacuità.

Viviamo nella materialità, nel mondo fenomenico, e nello stesso tempo tutto è vacuità. Non c’è possibilità di separare il satori dall’«illusione». Il giorno in cui si pensasse di aver abbandonato ogni illusione e che non sia rimasto che il satori, ebbene, quel giorno bisognerebbe ricominciare tutto da zero. Il satori supremo è comprendere che non c’è satori

 

 

 


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