Matteo Karawatt
Psicologia del profondo e tradizioni spirituali
Il Sé-coscienza in Occidente e in Oriente

 


 

INDICE

 

Prefazione
Introduzione
Cap. 1. La visione psicoanalitica
Cap. 2. Punti di vista della psicologia analitica
2.1. E. Neumann, M. Fordham, M. Trevi
2.2. Carl Gustav Jung
2.2.1. Incontro di Jung con l’Oriente
2.2.2. Approccio di Jung: riflessioni sul metodo
2.2.3. L’evoluzione del concetto del Sé in Jung: gli influssi orientali
Cap. 3. Jung e l’Oriente: critica e confronto
3.1. Riassunto introduttivo
3.2. Maggiori critiche di Jung all’Oriente
3.2.1. Metafisica, Psicologia, Linguaggio
3.2.2. Empirismo
3.2.3. La coscienza e l’Io
3.2.4. Estasi e Samadhi
3.3. L’intuizione ed il Sé
3.4. Stati di coscienza ed il Sé
3.5. La concezione junghiana e quella orientale del Sé
3.6. Note conclusive
Cap. 4. Le dimensioni spirituali del Sé
4.1. Il Sé ( o concezioni analoghe ) in alcune tradizioni filosofico-spirituali
4.1.1. Induismo
4.1.2. Buddhismo
4.1.3. Cristianesimo
4.1.4. Islam
4.2. La realizzazione del Sé
4.2.1. Il rapporto tra il Sé ed il mondo
4.2.2. L’offuscamento del Sé
4.2.3. Tecniche e requisiti per la realizzazione del Sé
Riflessioni finali
Appendice: Bibliografia introduttiva alla letteratura sapienziale e alla meditazione.

  


 

PASSI SCELTI

 

2.2.2 L’Approccio di Jung: Riflessioni sul metodo

Per una corretta comprensione dell’influsso degli insegnamenti orientali sulla teorizzazione junghiana del Sé, è importante tenere presente la ricchezza, la complessità e, soprattutto, la mancanza di coesione interna delle sue riflessioni. Le riflessioni junghiane coprono una grande quantità di argomenti e movimenti filosofici e religiosi, come il Cristianesimo, il Buddhismo, il Taoismo, lo Yoga e così di seguito. Riteniamo che le dottrine orientali abbiano avuto un influsso maggiore che altre fonti sulle teorizzazioni junghiane sul Sé. Tale debito viene confermato molto spesso da Jung, sia nelle Opere che nella sua biografia che nelle lettere. Secondo Jung, la conoscenza della psicologia orientale è una base indispensabile per la comprensione oggettiva della psiche occidentale. Jung rammenta che «faremo bene a studiare la psicologia del Sé ricorrendo ai tesori del sapere indiano» e accosta il culmine del processo di individuazione al rapporto di identità tra l’Atman e il Brahman, come viene esposto nei testi metafisici indiani.

Probabilmente gli insegnamenti orientali non stanno in rapporto di causa ed effetto con le teorizzazioni junghiane. Jung, come sappiamo, considerava le dottrine orientali come fossero delle analogie, dei paralleli, delle conferme alla sua ricerca, nonché come materiali di amplificazione. Il suo interesse per l’Oriente si colloca al di fuori della causalità, nell’àmbito delle coincidenze significative:

L’intrusione dell’Oriente è un fatto psicologico con una lunga storia dietro. I primi segni possono essere trovati in Meister Eckhart, Leibnitz, Hegel, Schopenhauer e E. Von Hartmann. Non è con l’Oriente attuale che abbiamo a che fare, bensì con l’inconscio collettivo che è onnipresente.

In Ricordi, sogni, riflessioni, leggiamo che

nel 1928, quando dipinsi il quadro che mostra il ben fortificato castello d’oro, R. Wilhelm di Francoforte mi mandò il millenario testo cinese del castello-fiore d’oro, il germe del corpo immortale.

Praticamente, Jung stabilisce una correlazione significativa tra il suo sviluppo interiore, le sue ricerche e l’invio di quel testo taoista da parte di Wilhelm.

Di fatto, il dialogo con l’Oriente è un tema che attraversa la maggior parte degli scritti di Jung. Le concezioni orientali sul Brahman neutro, Buddhitattva, Pradikshana, Mandala e Atman, furono le fonti principali per Jung nella formulazione dei concetti maggiori della sua psicologia come: la libido, l’inconscio collettivo, gli opposti complementari, il Sé. Senza tale influsso -per dire il vero anche piuttosto ovvio per il lettore attento e senza pregiudizi -la concezione junghiana del Sé sembra impensabile.

Finora ed in genere, gli studiosi junghiani -con poche eccezioni -si sono dimostrati poco sensibili nell’approfondire tale questione. Vi è una marcata tendenza ad ignorare gli influssi orientali nella formulazione dei concetti teorici e clinici della Psicologia Analitica e a ricondurre tutto ed esclusivamente alle radici occidentali. Spesso si vede perfino la tendenza a valutare l’interesse di Jung per l’Oriente come se fosse una distrazione casuale, ignorando il fatto che le sue concezioni fondamentali fermentarono proprio nel lievito delle dottrine orientali. La concezione junghiana del Sé non può essere compresa correttamente, se essa non viene intesa come il culmine di un processo evolutivo-maturativo dello stesso Jung. I punti di intersezione di tale processo sono appunto le formulazioni originali di Jung su Libido, Complessi, Inconscio Collettivo, Archetipi, Opposti psichici, Circumambulazione e Mandala. I concetti di maggior rilievo, come quelli che stiamo per approfondire, se vengono trattati sradicati dal loro humus originale e dalla loro naturale evoluzione storica, ignorando perfino l’interdipendenza di tali concetti tra di loro, perdono la loro forza trasformativa originaria. Le dottrine orientali assumono così il ruolo snaturato di bolli di vidimazione da applicarsi su isolate esperienze cliniche. è significativo osservare che l’esortazione di Jung allo psicologo europeo di occuparsi degli insegnamenti orientali è rimasta disattesa. D’altronde si osserva il crescente interesse dell’uomo della strada europeo per le teorie e le tecniche dello Yoga, come se tale fenomeno fosse un meccanismo di compensazione culturale.

Jung riteneva che il fatto che le religioni orientali abbiano assunto in Europa tanta importanza non sia stato affatto frutto di un caso o di qualche moda. Egli era consapevole del fatto che la filosofia orientale si è occupata da secoli dei processi intrapsichici e che sono stati sviluppati metodi che lasciano in ombra tutti i tentativi occidentali. Esiste un forte bisogno di compensare l’unilateralità dello sviluppo della psiche dell’uomo occidentale. L’uomo orientale sarebbe -secondo Jung -rimasto più vicino alla sua interiorità e non avrebbe subito l’influenza di un eccesso di razionalismo. «L’Oriente ci apre una via diversa di comprensione, più ampia, più profonda ed elevata». L’Oriente indicherebbe così all’Occidente una possibilità di compensazione dandogli l’occasione di rispecchiarsi, analizzarsi, correggersi. Jung fu ugualmente affascinato dalla concezione orientale della corrispondenza tra il microcosmo ed il macrocosmo, analoga all’idea medioevale europea dell’Unus Mundus e alla concezione greca della «simpatia», che unisce armoniosamente tutte le cose:

Mentre il pensiero occidentale passa attentamente al crivello, soppesa, seleziona, classifica, isola, la concezione cinese del presente comprende ogni cosa […] perché tutte le componenti costituiscono il momento osservato.

Da quando Jung è venuto in contatto con la saggezza orientale, egli ha continuamente cercato di «gettare un ponte di intima intesa tra Occidente e Oriente»: «Sembra che il destino ci [Jung e Richard Wilhelm, n.d.A.] abbia dato il ruolo di essere due colonne che sopportano il ponte tra l’Est e l’Ovest». Per Jung esiste una sola umanità con un’unica anima ma con diversi atteggiamenti (introversione ed estroversione). Mentre l’occidentale proietta il significato delle cose fuori di sé e ritiene che esso esista nelle cose, l’orientale sente il senso delle cose dentro di sé. Perciò l’Oriente è complementare all’Occidente e viceversa. Da ciò non deve seguire che l’Occidente possa ciecamente imitare l’Oriente nelle pratiche che conducono alla scoperta del Sé. L’Occidente deve sviluppare il proprio Yoga con tecniche analoghe a quelle praticate nell’Oriente. Mentre l’Occidente concettualizza, l’Oriente esperienzializza. Il rapporto ideale di complementarietà chiede che l’uno impari dall’altro, non le tecniche, bensì l’atteggiamento. L’Occidente, essendo di indole estroversa potrebbe correre il rischio di appropriarsi delle tecniche orientali. Siddetto processo è -secondo Jung -superficiale, ed essendo dipendente dalla volontà conscia, può ulteriormente allargare la scissione nevrotica tra il conscio e l’inconscio già esistente nella psiche occidentale. Quello che va assimilato è lo spirito introspettivo e l’atteggiamento introverso dell’Oriente. Questo si raggiunge cercando di scoprire i valori orientali all’interno di ciascun individuo.

L’Oriente completa la scienza psicologica occidentale fornendo le controparti esperienziali delle ricerche psicologiche. Nel caso specifico di Jung, questo avvenne nel modo seguente: durante il periodo di separazione da Freud, Jung inizia le sue ricerche sull’inconscio collettivo. La fenomenologia e i processi dell’inconscio collettivo che egli riscontrò sia nella ricerca che nell’esperienza, erano lontani da tutto quello che era conosciuto nella psicologia ufficiale di allora. Jung, quindi, si rivolse alla letteratura gnostica, sperando di trovare delle conferme per le sue scoperte, ma invano. A suo dire «la gnosi tratta poco materiale esperienziale e molta speculazione». Per di più, il poco materiale esperienziale che la gnosi offriva, era di ordine secondario. Nel 1928 il suo amico Richard Wilhelm gli regala Il Segreto del Fiore d’Oro, un antico testo taoista. Quello che Jung cercava da ben quindici anni, cioè la controparte esperienziale dei suoi studi sull’inconscio collettivo e sull’alchimia, lo trovò proprio in questo testo. Jung commenta l’evento con entusiasmo:

Mi sentii così arricchito che mi parve di aver ricevuto più da lui [da Richard Wilhelm, n.d.A.] che da qualsiasi altra persona.

e altrove

Solo dopo aver letto Il Fiore d’Oro, quell’esemplare di alchimia cinese che Richard Wilhelm mi mandò nel 1928, cominciai a intendere la natura dell’alchimia.

Mentre nei testi occidentali mancava la parte pratica - essendo questa andata perduta per cause storiche -nei testi orientali Jung riscontrava, in maniera chiara e dettagliata, non solo la teoria (cioè, l’importanza del ritiro dei sensi dagli oggetti esterni ed interni, il significato delle immagini di divinità e di forme archetipiche, i Mandala, la dottrina della Circumambulazione, etc.) ma anche i procedimenti (cioè, la tecnica introspettiva della visualizzazione e quella della osservazione del flusso mentale, lasciando che le cose accadano spontaneamente, l’azione senza attaccamento, etc.). Jung fu colto di sorpresa e si buttò anima e corpo nello studio di alcuni testi orientali.I risultati sono i suoi importanti commenti ad alcune opere orientali.

Per ragioni di completezza storica va aggiunto però che,nella maggioranza dei casi, Jung non ebbe la fortuna di consultare le opere orientali originali e i commenti autentici a tali opere, per cui ha una lettura non sempre corretta delle dottrine orientali. è come se Jung presentasse al lettore occidentale un Oriente carpito su misura dello stesso Jung; come se all’Oriente non venisse lasciato sufficiente spazio per dire la sua. Egli ignora spesso e volentieri il fatto che il significato di ogni espressione può essere capito pienamente solo all’interno dello specifico contesto culturale nel quale essa viene usata. Anche la tendenza di Jung alle eccessive semplificazioni, come quando parla del «colorito linguaggio metafisico dell’Oriente» e la tendenza ai (pre)giudizi sbrigativi e superficiali come «la filosofia critica è estranea all’Oriente», testimoniano la sua insufficiente familiarità con i testi metafisici e filosofici dell’Induismo (i testi dell’Advaita Vedanta ad esempio) e del Buddhismo.

Se Jung avesse avuto l’opportunità di meditare sulle opere originali orientali e se non fosse stato tanto preoccupato di difendere «lo status scientifico-empirico» della Psicologia Analitica, il risultato avrebbe potuto essere alquanto diverso. Questo giudizio un po» severo su Jung viene ridimensionato quando il suo sforzo viene inserito nell’àmbito della sua dichiarata intenzione di comprendere «l’altro», l’Oriente, e di costruire un ponte tra i due mondi. La comprensione del contesto storico in cui agì Jung, esalta il suo grande coraggio da pioniere, un coraggio che esige rispetto.

Fu molto stimolante per Jung la visione olistica delle filosofie orientali. Sigmund Freud viene citato per dire che «la Psicoanalisi serve per trasformare l’estrema sofferenza di un nevrotico nella normale miseria dell’esistenza umana». Di Jung si dice che addirittura si annoiava con i nevrotici che non ponevano dei quesiti sul senso della vita. Mentre la maggior parte delle psicologie occidentali si concentra sulle patologie e sulla loro cura, gli approcci orientali partono da un concetto olistico-maturativo dell’uomo. Cioè, nella visione orientale della salute è implicita la comprensione dell’uomo come una inscindibile unità di corpo-mente-anima, quest’ultima intesa come l’immagine divina, la scintilla divina in ognuno. La separazione di queste componenti interagenti è solamente sul piano concettuale e non su quello esperienziale.

In pratica, osservando i livelli interagenti di funzionamento dell’unità (corpo-mente-anima) si può constatare come ogni livello è capace di osservare, controllare ed integrare il livello di funzionamento sottostante. C’è una continuità tra i livelli più esteriori di funzionamento (quelli corporei) e quelli più interiori (psichici e spirituali). Nei livelli corporei e psichici ci sono delle forze disgreganti e velanti che hanno le caratteristiche di dispersione di energia e di inerzia totale. Il livello più interiore di funzionamento (quello dell’anima intesa come il riflesso dello Spirito nell’individuo) ha la caratteristica di spingere gli altri livelli verso la totalità e la compiutezza. L’uomo si ammala non solo perché non ha integrato il proprio passato ma anche perché non ha dato la possibilità di germogliare al seme trascendentale innato. Jung evidentemente, ha fatto sua questa comprensione. In una lettera egli scrive:

L’interesse fondamentale del mio lavoro non consiste nel trattamento delle nevrosi, ma nell’avvicinamento al numinoso. Infatti, l’avvicinamento alle esperienze religiose costituisce la terapia vera e propria.

Egli accetta l’impostazione olistica dell’approccio orientale e lì trova conferma al suo convincimento del primato dell’esperienza vissuta, nei confronti del sapere, staccato dall’esperienza.

Però, in ultima analisi, nel suo approccio all’Oriente, Jung usò la stessa tecnica di osservazione fenomenologica abbinata all’atteggiamento ermeneutico, tutti e due in lui connaturati. «La nostra psicologia è una scienza di puri fenomeni, priva di qualunque implicazione metafisica», Jung usò ribadire. Egli si interessava di fenomeni religiosi, spirituali e metafisici, in quanto manifesti nella psiche, rendendoli così oggetto di studio della psicologia e qualificava tale atteggiamento, come «empirico», «pragmatico» e «agnostico». Detto atteggiamento lo porta a ridurre temi e concetti di grande rilievo, come «coscienza universale», in coscienza psichica e il concetto del «Karma» in una delle tante espressioni dell’inconscio collettivo. I contenuti dei testi orientali come Il Segreto del Fiore d’Oro, I Ching, Il Libro Tibetano dei Morti etc. diventavano sic et simpliciter materiali simbolici e servivano a Jung, in questa loro nuova veste snaturata, ad ampliare il contesto interpretativo stabilendo nessi analogici e paralleli tra il contesto personale e quello universale. In quanto psicologo empirista, Jung trattava i testi orientali come testi psicologici. L’insinuazione di Jung che «la coscienza universale» delle dottrine orientali possa essere equiparata all’inconscio collettivo, o di nuovo: «Ho il sospetto che essi [i metafisici orientali, n.d.A.] fossero degli psicologi simbolici ai quali non si potrebbe fare torto maggiore che prenderli alla lettera», dimostrano chiaramente che Jung oltrepassa le proprie competenze (dell’empirista psicologo).

Va chiarito, inoltre, che esiste una netta differenza tra il voler rimanere nel campo empirico-fenomenologico, osservando i fenomeni che possono avere le loro origini causali in dimensioni che oltrepassano la psiche pur manifestandosi nella dimensione psichica, e l’attribuire invece l’origine di tali fenomeni alla dimensione psichica. Il riduttivismo di Jung non sembra rispettare l’auto-comprensione delle dottrine orientali e perciò compromette pre-giudizialmente qualsiasi possibilità seria di dialogo tra la psicologia e le scienze dello spirito (in questo caso, i testi realizzativi e metafisici orientali). Jung l’empirico sembra poco disposto a riconoscere le asserzioni, ugualmente empiriche, dei filosofi orientali. I testi orientali vengono da lui «psicologizzati» distorcendone le intenzioni e i contenuti.

L’ambiguità e la contraddittorietà dell’approccio di Jung all’Oriente, anche se non possono essere giustificate, possono essere comprese situandole all’interno del suo metodo antinomico-ermeneutico. Il suo atteggiamento può essere considerato come un continuo movimento o scambio dialettico «dal tutto alla parte e dalla parte al tutto». Siddetto atteggiamento ermeneutico era quasi connaturato in lui, come ritiene anche J. Clarke, uno studioso moderno di Jung:

Il suo metodo consisteva nel dialogo, in cui cercava di gettare un ponte per comunicare pur mantenendo saldo il principio di alterità. Il suo metodo di conoscenza, in queste e in altre sfere, era caratterizzato da una impostazione olistica ma attenta al contesto, dall’apertura mentale, dalla tolleranza, dall’auto-riflessione e dal relativismo storico, tutti aspetti tipici dell’approccio ermeneutico.

Jung porta alcune volte «il metodo del sospetto» fino alle sue estreme conseguenze e cade in incoerenze e contraddizioni palesi. Così, da una parte egli mette «in guardia contro la così spesso tentata imitazione e assimilazione delle pratiche orientali. Di regola non ne viene che unistupidimento artificioso della nostra intelligenza occidentale». Dall’altra parte, Jung è convinto che «possiamo imparare dalla filosofia yoga moltissime cose di cui riconosceremo l’utilità pratica». Inoltre: «[gli insegnamenti buddhisti] offrono all’uomo occidentale alcune possibilità di disciplinare la sua vita psichica interiore». Di nuovo secondo Jung, l’inconscio collettivo è un modello peculiare all’umanità in generale e, su tale piano «tu sei uguale ad un’altra persona di una razza diversa». «Come non vi è che una sola terra, e Oriente e Occidente non possono spezzare l’umanità in due metà distinte, così la realtà psichica ancora consiste in una fondamentale unità». D’altra parte Jung parla della «peculiare psicologia dell’uomo orientale, ragion per cui gli insegnamenti orientali sono estranei al nostro organismo, un corpo estraneo nel nostro sistema». Dagli esempi di questo tipo che possiamo moltiplicare a volontà, traspare, oltre all’incoerenza di Jung, anche la sua esitazione ad andare a fondo della questione, accostandosi ai testi originali dell’Oriente ed esaminare la conferma esperienziale delle affermazioni di tali testi.

La mancanza di sistematicità e coesione espositiva, l’atteggiamento agnostico tendente verso il riduzionismo, l’uso del metodo antinomico/ermeneutico che sfocia perfino in ambiguità e contraddizioni, sono le caratteristiche che si trovano in quasi tutti gli scritti di Jung e non solo nei suoi commenti agli insegnamenti orientali. Ragioni sufficienti a far diventare la lettura delle Opere Junghiane, un’impresa ardua e poco piacevole. Tenere presente questi fattori ci aiuterà notevolmente nella lettura e comprensione dei testi junghiani.


 

3.1. Riassunto Introduttivo

Nella visione orientale, il Sé è il nucleo-substrato della realtà tutta. Tale realtà è descritta come Essere-Coscienza.Il Sé coscienza può essere compreso sia come coscienza impersonale e metafisica che come coscienza che «assume» la veste di un soggetto che testimonia l’assenza o la presenza dei contenuti nelle strutture cognitive. Si comprende il Sé realizzando lo stato di coscienza del Sé attraverso l’intuizione meditativa. Questo è possibile perchè tale stato è potenzialmente presente in ogni individuo. Gli stadi e gli stati precedenti al raggiungimento della coscienza intuitiva del Sé sono stati oggetto di studio scientifico anche in occidente ove hanno misurato l’attività delle onde cerebrali durante il passaggio della coscienza da uno stato all’altro: dallo stato di veglia a quello del sogno, dallo stato di sogno a quello senza sogni etc. Ciò significa che esiste la possibilità che la coscienza rimanga in una posizione e con la qualità di «testimone» in tutti questi diversi stadi antecedenti alla coscienza intuitiva. Lo stato di coscienza intuitiva del Sé-pur essendo di ordine metafisico-si manifesta attraverso i veicoli, cioè strumenti cognitivi psichici e può essere descritto solo approssimativamente nel linguaggio usuale. In questo percorso le regole della conoscenza empirica legate allo spazio- tempo-causalità, vengono relativizzate in tal modo che, attraverso l’intuizione, si constata la presenza di una istanza superiore di coscienza slegata dall’Io.Tale istanza in Oriente viene chiamata il Sé.

Jung pur non rifiutando l’esistenza di esperienze metafisiche, nega la possibilità di «accreditare alla conoscenza umana una facoltà che va oltre i propri limiti» e anche la sua esprimibilità linguistica. Nelle sue prese di posizione ufficiali egli «rimane fedele ai dati empirici» presenti nella dimensione psichica e non riconosce la possibilità dell’esistenza della coscienza indipendente dall’Io. Per lui quello che viene chiamato in oriente lo stato superiore di coscienza è nient’altro che uno stato inconscio.

Anche se la posizione ufficiale di Jung descrive il Sé come la totalità psichica o come un centro coscienziale identificabile ad un punto a metà strada tra conscio ed inconscio egli si avvicina non poco alla posizione orientale in molti suoi scritti. Cosi nella sua versione archetipica del Sé, il fenomeno della sincronicità relativizza lo spazio, il tempo e la causalità dando la possibilità di costituzione di un’immagine di una personalità superiore dotata di senso e coscienza intuitiva e che è anche il soggetto dell’Io oggetto, avvicinandosi cosi alla visione orientale della coscienza testimone del mondo psichico. Nelle testimonianze esperienziali invece, Jung parla proprio della intuizione impersonale e metapsichica identica alla concezione orientale della coscienza universale. Nelle seguenti pagine si esamineranno più da vicino le divergenze e le convergenze tra la posizione junghiana e quella orientale. I temi proposti richiedono una lettura riflessivo-empatica e una comprensione intuitiva.


 

3.5 La concezione junghiana e quella orientale del Sé

Secondo la posizione ufficiale di Jung, il Sé può essere considerato alla stregua di una rappresentazione psichica di intuizione archetipica, una intuizione pre-egoica e pre-personale mediata da percezioni subliminali. In un secondo momento tale intuizione (inizialmente quindi senza soggetto) diventa una consapevolezza, che ha la tendenza a tenere il Sé processuale e l’istanza dell’Io (ivi incluse le funzioni psichiche, il conscio e l’inconscio e altri opposti psichici) in tensione dialogica, conferendo a tale configurazione la qualità di totalità. Il Sé è un’immagine psichica della totalità trascendente, indescrivibile in modo soddisfacente nel linguaggio duale e incomprensibile per la mente dialettica. Riscontriamo dettagliate disquisizioni sul Sé in molte opere di Jung. Leggiamo due dei brani di maggior rilievo:

Il Sé non è soltanto il centro ma anche la circonferenza che abbraccia ad un tempo conscio ed inconscio; è il centro di tale totalità come l’Io è il centro della mente conscia.

In quanto concetto empirico, il Sé denota il volume complessivo di tutti i fenomeni psichici nell’uomo. Esso rappresenta la totalità della personalità. In quanto, a causa della sua componente inconscia, può essere conscia solo in parte, il concetto del Sé è solo potenzialmente empirico e quindi è, allo stesso tempo un postulato. In altri termini, esso include ciò che è oggetto di esperienza e ciò che non lo è, ossia ciò che ancora non è entrato a far parte dell’esperienza […] è un postulato ed è un concetto trascendente, poiché, per ragioni empiriche infatti essa presuppone l’esistenza di fattori inconsci, e caratterizza con ciò, un’entità che solo parzialmente può venire descritta, ma che per quel che riguarda l’altra parte rimane pro tempore non conoscibile e non limitabile […] Empiricamente il Sé appare nei sogni […]in un’immagine di «personalità di grado superiore». […] Quando rappresenta una complexio oppositorum, una sintesi degli opposti, esso può apparire come diade unificata. […] Empiricamente, il Sé appare come un giuoco di luce e di ombra, quantunque inteso come una unità nella quale gli opposti trovano la loro sintesi. Poiché un concetto del genere non è rappresentabile -tertium non datur -esso è anche per questa stessa ragione, trascendente. […] I suoi simboli empirici possiedono spesso una notevole numinosità […] rivelandosi così una rappresentazione archetipica che si differenzia da altre rappresentazioni di tal genere in quanto occupa una posizione centrale adeguata all’importanza del suo contenuto e della sua numinosità.

Jung spesso insiste sul fatto che la sua psicologia del Sé è empirica e non metafisica poiché si occupa non del Sé nella sua specificità trascendentale, bensì nella sua qualità trascendente di unione degli opposti psichici. Però, come abbiamo constatato nelle precedenti pagine, egli postula il Sé non solo come concetto negativo e/o di confine alla stregua di «Cosa in Sé» (Ding an Sich), ma gli attribuisce anche caratteristiche di numinosità, totalità, illimitatezza etc. In ultima analisi, non si potrebbe parlare della manifestazione del Sé nella dimensione psichica, se il substrato di tale manifestazione non fosse prima ipotizzato. Altresì, il concetto dell’energia psichica, che è il corollario (del concetto) del Sé, viene ugualmente postulato come un concetto metafisico in quanto, secondo Jung, è equivalente alla concezione indiana del Brahman indifferenziato:

è chiaro che il concetto del Brahman in virtù dei suoi attributi e simboli, coincide con quel principio dinamico e creativo che ho chiamato la libido.

Per Jung la libido è neutra come il Brahman metafisico e assume, di volta in volta, forme di manifestazione diverse, come sessualità, arte, religiosità, etc.

Una psicologia che si autoqualifica come empirica, però contempla l’annullamento del tempo, dello spazio e della causalità ed integra il concetto operazionale della conoscenza apriori legata al simultaneo accadere degli eventi (sincronicità), una conoscenza che ha origine nella dimensione archetipica, è comunque più vicina alla metafisica orientale che all’empirismo classico. Secondo Jung, «la comprensione della sincronicità apre la porta alla visione orientale della totalità». Nelle prese di posizione ufficiali, Jung afferma che «la nostra psicologia è una scienza di puri fenomeni, priva di qualunque implicazione metafisica». Per ciò che riguarda la metodologia di osservazione, certamente può essere attribuito alla psicologia di Jung, almeno in parte, lo status empirico. Alcuni suoi postulati vanno considerati, comunque e senza ombra di dubbio, di ordine filosofico e metafisico. In una visione olistica dell’integrazione del corpo, della mente e dell’anima (quest’ultima intesa come riflesso dello Spirito Assoluto nell’individuo), in una visione della totalità dell’essere, che la psicologia venga compresa come radicata e postulata su premesse metafisiche, dimostra che Jung aveva largamente anticipato la visione transpsichica dell’uomo; e ciò non solo non è un difetto, ma anzi è uno dei meriti più importanti di Jung.

Come abbiamo visto sopra, nella concezione orientale il Sé, in primo luogo, è coscienza pura, immediata, impersonale e coscienza-essere, e si realizza per mezzo del graduale ritiro della coscienza dai sensi (stato di veglia), dal mondo interiorizzato psichico (analogo allo stato di sogno) e dall’intelletto puro (analogo allo stato di sonno senza sogni), praticando lo yoga e le tecniche meditative. All’inizio, è la mente che osserva tutto. Successivamente la coscienza osserva anche la mente ed acquisisce la qualità testimoniante. Testimonia l’assenza o la presenza di qualsiasi esperienza nei tre stati di veglia, sogno e sonno. Quando la coscienza perde perfino il suo carattere testimoniante, diventa pura coscienza e realizza il Sé. Così nella visione orientale il Sé può essere compreso sia come coscienza impersonale che come coscienza testimone.

In Oriente a scopo illustrativo si usa la seguente metafora: un pupazzo di sale vuole conoscere il mare. Al primo contatto con l’acqua del mare, il pupazzo perde le gambe e le mani. Con il contatto seguente e nel momento di dissolversi totalmente nel mare, esclama: «Allora, io sono il mare!». L’identità tra il pupazzo e il mare può essere considerata analoga alla coscienza impersonale, senza sovrapposizioni e senza distinzioni tra il soggetto e l’oggetto. Quando invece ci si sofferma sull’aspetto della testimonianza, cioè sul pupazzo testimone, si sottolinea di più il soggetto, il Sé archetipico-principiale, il primo riflesso dell’Assoluto nel manifesto.

Jung chiama il primo archetipo dell’inconscio collettivo, l’archetipo del Sé. Nella sua visione «empirica», il Sé diventa cosciente solo quando entra in contatto con l’Io e con la dimensione psichica individuale. Ciò nonostante, non sembra fantasioso ipotizzare che, come i nuclei psichici dell’inconscio personale -che sono inizialmente autonomi -diventano dei mattoni di costruzione dell’Io, cioè di un soggetto consapevole, così gli archetipi dell’inconscio collettivo con le caratteristiche di autonomia, dinamicità, numinosità, intenzionalità e volontà, possano ugualmente far riferimento ad un primo archetipo -un soggetto cosciente di là dell’Io e della dimensione psichica -al Sè-coscienza-testimone. Jung non esclude affatto la possibilità di una ipotesi del genere:

In quanto il punto di vista della psicologia analitica è realistico, cioè basato sull’assunto che i contenuti della psiche sono realtà, tutte queste figure (le immagini visionarie dell’Anthropos Primordiale) stanno ad indicare una componente inconscia della personalità che potrebbe essere dotata di una coscienza che trascende quella dell’essere umano ordinario [cioè la coscienza legata all’Io, n.d.A.].

Riferendosi ai simboli del Kundalini Yoga, Jung propone di considerarli come delle intuizioni sulla totalità psichica e dice:

Essi simbolizzano la psiche da un punto di vista cosmico. è come se una coscienza superiore, una coscienza divina onnicomprensiva, osservasse la psiche dall’alto.

Jung lascia aperta la questione se la coscienza superiore appartenga al mondo psichico o al mondo spirituale, anche se è evidente che la coscienza divina di cui parla Jung non può appartenere alla dimensione psichica, dal momento che la stessa psiche è l’oggetto osservato. Nel brano seguente, Jung è ancora più esplicito:

Dato che la coscienza egoica non abbraccia tutte le attività e tutti i fenomeni psichici, […] naturalmente ci si domanda se non esista una coesione di tutte le attività psichiche, simile alla coscienza legata all’Io. Essa può essere concepita come una coscienza superiore e più ampia, nella quale l’Io può benissimo essere collocato all’interno di una coscienza più completa, come un piccolo cerchio all’interno di un grande cerchio.

Così Jung si apre verso una possibile concezione del Sé-coscienza indipendente dalla coscienza egoica. Il soggetto che sostituisce l’Io ed ha come oggetto non solo la dimensione pre-egoica ma anche lo stesso Io, può corrispondere alla accezione del Sé delle dottrine orientali, cioè al Sé-coscienza-testimone. Per Jung anche questa dimensione che supera la coscienza dell’Io è una dimensione sì trascendente, ma comunque psichica. Per le dottrine orientali, tale stato di coscienza usa lo strumento-veicolo psichico per manifestarsi (può essere stabilito anche un rapporto di dialogicità e circolarità tra le due dimensioni) però non appartiene più alla dimensione psichica, essendone soggetto osservante.

Sulla concezione del Sé come intuizione metafisica si trovano dei riscontri esperienziali in Jung. Con l’espressione «metafisica», si intende un ramo di conoscenza che tratta del Reale Assoluto, al di là del tempo-spazio-causa, al di là del manifesto, al di là delle apparenze sensibili e fisiche. L’intuizione metafisica equivale alla realizzazione dell’Assoluto-Sé, per conoscenza di identità. In altri termini, il concetto della conoscenza metafisica sul piano pratico, coincide con l’intuizione sovra-sensoriale. In Ricordi, sogni, riflessioni e nelle Lettere, Jung parla dell’Assoluto e delle sue esperienze personali. Così per Jung, «Iddio, Assoluto, Metafisico è impersonale», è fuori del tempo, però si manifesta in tutto. L’Assoluto è senza qualità, è pienezza, al di là della dualità: «Gli uomini non si rendevano conto di abitare in un mondo unitario, nel mondo di Dio dove tutto era già nato e tutto era già morto». Tale realtà metafisica e divina non è un mito, ma «il mito è la rivelazione di una vita divina nell’uomo». Jung, che attribuiva al suo metodo di auto-osservazione lo status empirico-scientifico, afferma nel prologo della sua biografia: «Non posso sperimentare me come un problema scientifico». D’altronde, nella sua auto-comprensione egli è «un frammento dell’infinita divinità». In altri termini, la metafisica diventa comprensibile quando comincia a far parte dell’esperienza interiore. Il vissuto (Erlebnis) che sperimenta la matrice del proprio essere, cioè il vissuto del Sé, oltrepassa i limiti della conoscenza empirica (Erfahrung). Tale esperienza non si basa sull’intelletto, «è più evidente di tutte le esperienze e non deve essere provata», è un atto di «percezione impersonale con occhio interiore» e soprattutto è una esperienza «certa ed immediata». Siddetta esperienza-conoscenza certa ed immediata non può certo nascere dal processo empirico tracciato da Jung altrove, cioè dalla collaborazione dei dati sensoriali con le percezioni subliminali ed intuitive che, in un secondo momento, diventano consce e vengono convalidate. Nell’esperienza «certa ed immediata», non può esistere un prima ed un dopo del processo empirico, né la mediazione di altri fattori (sensazione e percezione) e tantomeno la necessità di convalidazione empirica, essendo questi una esperienza certa.

La realizzazione dell’intuizione metafisica si accompagna a certi vissuti esperienziali quali il sentimento dell’eternità, la relativizzazione del tempo-spazio, il senso di pienezza e soprattutto il sentimento di essere parte integrante della coscienza cosmica, tutti aspetti che Jung testimonia come elementi del suo vissuto esperienziale. Ascoltiamolo di nuovo:

La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura una sola estate, e poi sparisce, apparizione effimera. […] Io non ho mai perduto il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire. Quello che noi vediamo è il fiore: ma il rizoma perdura.

Il sentimento di eternità compare quando le categorie spazio-temporali sono relativizzate:

Posso descrivere la mia esperienza solo come la beatitudine di una condizione non-temporale nella quale presente, passato e futuro siano una cosa sola, […] nulla poteva essere misurato con concetti temporali.

Spesso avevo la sensazione che in tutte le questioni decisive, non ero più con gli uomini, ma solo con Dio: e quando ero «là» -dove non ero più solo -ero fuori del tempo, appartenevo ai secoli, e Quegli che mi rispondeva era Colui che era stato sempre, che era stato prima della mia nascita. Là vi era Colui che sempre è.

Tale stato di coscienza causa un senso di pienezza in colui che lo vive e la progressiva relativizzazione dell’Io-corporeo-sensoriale. Questo è superbamente descritto da Jung nel seguente brano:

[…] mia malattia […]mi desse l’inestimabile opportunità di guardare dentro il velo. La sola difficoltà è di allontanare il corpo, di diventare subito nudo e privo del mondo e della volontà egoica. Quando puoi abbandonare, lasciare questa volontà pazza di vivere […], a questo punto inizia la vera vita nel modo in cui tu dovevi vivere e non sei mai riuscito. è qualcosa di ineffabilmente grandioso. Ero libero, totalmente libero come non mi sono sentito mai […]. La morte è la cosa più dura, finché noi siamo esterni a lei. Ma quando sei dentro cominci a godere tanta consapevolezza e pienezza, che non vuoi più tornare […] non volevo più tornare a vivere questa vita frammentata, ristretta, meccanica, soggetta a leggi di gravità e coesione, imprigionata nel sistema di tre dimensioni . […] Lì c’era pienezza ed eterno movimento, e non il movimento del divenire-tempo.

Per Patanjali, uno dei codificatori principali del sentiero dello Yoga, l’attaccamento alla volontà di vivere (nel mondo psico-sensoriale) è da considerarsi come il maggior impedimento al raggiungimento dello stato di coscienza del Sé. Jung l’empirico, che affermava che la cessazione della coscienza legata all’Io significasse l’annullamento totale dell’uomo, nel brano succitato stabilisce che solo morendo all’Io sensoriale-empirico, si può realizzare la vera vita, libertà e totalità. Le dottrine indiane, quando parlano della morte dell’Io come presupposto alla realizzazione intuitiva della coscienza metafisica del Sé, intendono la relativizzazione dell’Io e non il suo anichilimento. E ciò può avvenire, sia quando siamo nel corpo che quando non lo siamo perché, secondo l’insegnamento indiano, tutti gli stati coscienziali sono suscettibili di essere deliberatamente indotti e consapevolmente controllati. Nella realizzazione del Sé, l’Io comprende di abitare in una casa più grande, quella del Sé. L’Io considera se stesso parte di un tutto, come il mignolo fa parte della mano, e la goccia dell’oceano. Nel brano seguente, Jung usa perfino «il colorito linguaggio metafisico dell’Oriente», che egli spesso criticava, per descrivere il medesimo stato di coscienza a cui fanno riferimento le dottrine orientali:

Quello che succede dopo la morte è così indicibilmente glorioso che la nostra immaginazione e i nostri sentimenti non sono sufficienti a darne nemmeno un’idea approssimativa. Pochi giorni prima della morte, la faccia di mia sorella assunse l’espressione di una sublimità così sovrumana che ero perfino impaurito. Anche un bambino entra in questa sublimità, e si distacca da questo mondo e dalle sue diverse individuazioni molto più velocemente di un vecchio. […] Presto o tardi tutti i defunti diventano quello che veramente siamo. […] La dissoluzione della nostra forma legata al tempo non comporta nessuna perdita di senso nell’eternità. Piuttosto, il mignolo riconosce di essere parte della mano.

Così, in Jung troviamo almeno tre versioni sul Sé: una empirica, cioè, il Sé come totalità psichica di cui, il centro coincide con un punto a metà strada tra conscio ed inconscio e, l’altra legata al concetto della sincronicità che in ultima analisi implica la possibile esistenza di un soggetto cosciente diverso dall’Io e la terza, quella della intuizione esperienziale e realizzativa, non lontana dagli insegnamenti dell’Advaita Vedanta. Jung non ha potuto o non ha voluto sviluppare sistematicamente le ultime due accezioni sul Sé, però nei suoi scritti ci sono ampi e frequenti riferimenti a tali stati di coscienza oltre l’Io e oltre la dimensione psichica. Questi stati sono stati da sempre oggetto di ricerche approfondite degli studiosi della metafisica orientale. Prima di liquidare tali studi come proiezioni cognitive degli Yogi, faremmo bene a sospendere il giudizio e a studiarli, consultando appunto i testi della metafisica Vedanta.

Il ricondurre il Sé transpsichico all’interno della dimensione psichica, porta alla riduzione della dimensione intuitivo-spirituale in quella psichica, analoga alla riduzione storica (per fortuna superata) del mondo psichico al mero epifenomeno del corpo. La domanda è se e fino a che punto la psicologia - quella junghiana e non - potrà continuare a trattare solo i contenuti psichici ignorando il substrato della stessa psiche - il Sé. Le enunciazioni orientali sul Sé vengono considerate, da alcuni, come estranee alla cultura, alla filosofia e al pensiero occidentale. In realtà un occidentale moderno non avrà molta difficoltà a comprendere le dottrine orientali sul Sé, a patto che egli comprenda anche i pensieri di Platone, Plotino, Origene, Meister Eckhart, Ruysbroeck, etc. Quello che viene richiesto è la sincera apertura verso la metafisica, sia nella tradizione occidentale che in quella orientale.

  

 

  


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