Renato Emanuele
Il silenzio del Buddha
Misticismo e tradizione buddhista

 


 

INDICE

 

1. Ascoltare il silenzio
2. E il Buddha non rispose…
3. Dal linguaggio all’ineffabile
4. L’eclissi delle speculazioni: Nâgârjuna
5. La solitudine del Pratyekabuddha
6. Subhûti: ovvero, il mondo come sogno
7. Il «Canto» di Tilopâ
8. La Verità silenziosa
9. Solitudine terapeutica
10. Shodoka: canto della via autentica
11. Al di là delle parole

  


 

PASSI SCELTI

 

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ASCOLTARE IL SILENZIO

Il linguaggio discorsivo imprigiona l’uomo in una sfera di mere apparenze, precludendogli la possibilità di svelare ciò che si configura quale intuizione immediata del fatto che l’esistenza umana è una forma di fenomenicità in grado di trascendere la sua stessa apparenza. Le parole hanno validità nell’àmbito della verità relativa, ma ogni discorso, in una prospettiva assoluta, è falso. L’errore, in tal caso, non concerne soltanto il valore di verità in senso logico, ma riguarda il modo di «essere nel mondo»: vivere nell’avidyâ è sofferenza, attraversare l’esistenza alla luce della visione illuminata è nirvâna. Non si tratta quindi di sostenere un punto di vista speculativo più convincente, avvalorato cioè da maggior rigore logico, quanto piuttosto di effettuare una scelta esistenziale, espressa in termini di opzione tra inautenticità dell’uomo, accecato dalle sue stesse illusioni, ed esistenza rischiarata dall’intuizione diretta di una Verità sempre presente, ma velata dall’«ignoranza».

Il discorso ordinario è subordinato ai canoni della comunicazione valida nell’àmbito dei modelli socio-culturali; il «silenzio» è transculturale, poiché non è condizionato né dalla storia, né dalla dimensione spazio-temporale dei fenomeni naturali. Tuttavia, c’è contrasto tra il silenzio del neonato, del muto, del catatonico e quello del mistico. Il primo esprime soltanto l’incapacità di comunicare, il secondo scaturisce dalla trascendenza delle usuali forme del linguaggio codificato.

Il bisogno di nominare le cose può assumere, talvolta, il senso di profanazione di ciò che deve rimanere avvolto nella sua sacralità. Il tentativo di definire una Realtà che sfugge ad ogni forma logica costituisce un atto di trasgressione nei riguardi di un segreto da custodire nell’intimità del silenzio. Tacere diventa, allora, un modo di manifestare una consapevolezza volta a proteggere l’ineffabile dalla curiosa invadenza di un intelletto che pretende di penetrare anche là dove la sua funzione appare quale indiscreta intrusione di un ospite indesiderato.

Il silenzio non è fenomeno acustico, ma atteggiamento mentale che, abbandonando ogni tendenza a interferire nell’accadere degli eventi, contempla le cose nella loro transitorietà. Ascoltando il canto degli uccelli di bosco, il tenue gorgoglio di un ruscello che scorre, il fruscio delle fronde vibranti al tocco della brezza primaverile: là c’è «silenzio», se la mente tace. I pensieri rappresentano, infatti, il vero ostacolo alla realizzazione del silenzio; mentre, se interiormente c’è uno stato di Vacuità, perfino il clamore di una folla o il frastuono delle metropoli non costituiscono affatto un problema. Il vero silenzio scaturisce dalla capacità di trasformare in serena osservazione degli eventi tutto ciò che appare, senza alcun coinvolgimento generato dal senso dell’io.

Meditazione significa ascoltare il «silenzio» della mente. Soltanto alla luce di questa esperienza si può recuperare il valore semantico della parola significativa, mirante a stabilire una comunicazione con chi condivide il bisogno di Verità: ogni altra forma di discorso rientra nella categoria della «chiacchiera» che tende a soddisfare istanze mondane.

Il corretto atteggiamento dell’uomo dovrebbe essere quello di lasciar parlare il «silenzio», riservando alla mente la più modesta funzione di mero strumento di ricezione di vibrazioni sonore provenienti da una dimensione spazio-temporale diversa da quella ordinaria. L’intelletto, al contrario, è arrogante, perché pretende di poter sentenziare su tutto, presumendo che la logica costituisca l’essenza della Realtà. L’orgoglio intellettuale rappresenta un ostacolo alla visione della Verità, in quanto il sentimento dell’io, contaminando lo spazio dell’interiorità con le sue istanze razionalistiche, impedisce alla Vacuità dei fenomeni di smascherare le apparenze dietro cui è celata.

La solitudine del «silenzio» è radicale antitesi di una mistificante socialità che tende ad attrarre gli individui verso scelte esistenziali ingannevoli, camuffando in tal modo l’essenziale Vacuità di ogni cosa.

I valori pragmatici e relativi di ogni organizzazione socio-culturale non possono smentire il fatto che, in un’ottica metastorica, qualunque modello sociale nasce dall’attività ludica di mâyâ, da un «gioco» che tende a velare la Verità. Il «silenzio» squarcia il «velo» di mâyâ, ponendo fine a quell’occultamento dal quale dipende una condizione umana di prigionia nell’apparenza del mondo. La liberazione assume, allora, la forma di un «silenzio» che sgorga dalla lontananza dalle ciarle mondane, da ogni vano sproloquio che pretende di definire vero o falso, bene o male, bello e brutto, da ogni seduzione volta ad adescare nella trappola degli attaccamenti e delle speranze di un domani migliore. Nel «silenzio» non c’è domani, là sussiste un semplice «qui e ora», un eterno presente che non vuole relazionarsi a nulla, né al passato, né al futuro. Allora, la vita è interamente attuata nell’attimo che si rinnova, sfuggendo alla transitorietà del divenire; anzi, il mutamento non genera più l’angoscia della perdita, perché è venuta meno ogni ragione di «guadagno e perdita»: l’esistenza non ha necessità di «andare» da nessuna parte. In questo librarsi in uno spazio sospeso, al di là del tempo scandito dalla storia umana, c’è la compiutezza del «vuoto», si afferma una rottura definitiva con il potere mistificante delle apparenze.

Le pratiche meditative costituiscono una sorta di propedeutica introduttiva al silenzio mentale: conseguito lo scopo, non è più necessario controllare la mente, dato che quest’ultima non rappresenta, ormai, un fattore di disturbo. Anzi, la mente può assumere la funzione di perfetto strumento di ascolto del «silenzio», non essendo più condizionata dal clamore mondano. Si potrebbe dire, quasi, che una specie di «sordità» terapeutica, dalla quale è stata affetta la capacità uditiva, permette alla mente di non percepire quanto non merita attenzione, consentendole di concentrarsi sull’essenziale.

La vera consapevolezza non è rappresentata dalla coscienza ordinaria, caratterizzata dall’identità personale e da un rapporto duale con il mondo esterno, ma è pura presenza osservante: il sentimento dell’io, negli stati profondi di shamatha, deve svanire. C’è consapevolezza, ma nessun io che si relaziona all’oggetto di osservazione. Quando il senso di identità, connesso alla temporalità storicizzata, riemerge, allora il mondo riacquista la sua connotazione di apparenza interpretata attraverso i filtri dell’intelletto. Entrare in samâdhi comporta un consapevole accesso all’inconscio: affermazione del tutto paradossale, dal punto di vista logico e psicologico; eppure, «stabilità mentale» significa proprio questo. Il silenzio del samâdhi è l’anticamera della Verità, dato che il senso di identificazione con l’immagine di sé, costruita sulla base della corporeità e dei contenuti della vita psichica, viene abbandonato per lasciare campo libero alla Vacuità.

L’avidyâ consiste nel confondere un’apparenza psicofisica con una realtà indipendente definita personalità. Questo errore di prospettiva determina l’attaccamento all’individualità fenomenica e, di conseguenza, al mondo. L’individuo, disconoscendo la sua radicale dipendenza dalla totalità interconnessa, compie un atto di orgoglio che lo separa dal fondamento dell’esistenza e lo sollecita a rivendicare una propria illusoria autonomia. «L’ignoranza», dalla quale dipende ogni sofferenza, consiste nel non «vedere» l’interdipendenza di tutti i fenomeni e, quindi, nel non riconoscere la Vacuità di io e mio. La «visione» che apre la porta della liberazione dal dolore non è generata dal sapere intellettuale, ma dall’abbandono della credenza nella sostanzialità dell’io. Allorché, infatti, l’individualità viene vista quale semplice apparenza, generata dai diversi fattori che la determinano, la Realtà si configura come vuoto di esistenza intrinseca di ciò che illusoriamente viene concepito come «entità» indipendente.

La mente ordinaria, caratterizzata dalla credenza in un io sostanziale, non è in grado di scoprire la Verità, poiché quest’ultima implica proprio lo smascheramento del falso sentimento di identità basato sull’idea di io. Il paradosso logico consiste allora nel fatto che quando emerge la Verità non c’è io; è soppressa, cioè, l’identificazione con la personalità empirica; e dove permane il senso dell’io non appare la Verità. Io e Verità sono due grandezze incommensurabili: l’una esclude l’altra.

La scelta dell’uomo è rappresentata dall’alternativa tra l’esistere per se stesso, nella fede illusoria di un sé indipendente, o il lasciare campo libero all’autorivelazione della Verità, attraverso la consapevolezza della mancanza di realtà in sé dell’individuo. Non c’è possibilità di relazione tra l’idea di io, intesa quale concetto relativo a un’entità sostanziale, e Verità, la quale comporta il riconoscimento della Vacuità di ogni apparenza: la loro incompatibilità può essere superata soltanto attraverso il «silenzio». Quest’ultimo infatti non pretende di definire alcunché, non discrimina, non propone soluzioni logiche: si limita ad attestare la semplice Vacuità di ogni cosa.

Il Buddha, seduto sotto l’albero della Bodhi, è simbolo della trasmissione di una Verità rivelata dal silenzio della meditazione. L’Ashvatta - l’Albero Sacro della tradizione iniziatica - sotto il quale il principe Siddharta ottenne il Risveglio, simboleggia l’Assoluto, mediante l’immagine della connessione tra i rami dell’albero che si protendono verso la Terra e le radici che s’innalzano verso il Cielo: chiara allusione simbolica all’interdipendenza tra la molteplicità fenomenica della vita e la Fonte dalla quale viene attinta l’energia manifestata nelle apparenze. La scelta dell’Albero, intimamente correlato all’Illuminazione, non è casuale, in quanto vuole evidenziare il fatto che la Verità non è svelata mediante l’uso del ragionamento, ma deve essere accolta come libera elargizione della Vacuità. Il «vuoto» è «silenzio», dal quale proviene la comunicazione del Dharma.

La mente, allorché si sforza di scoprire la Verità, è capace soltanto di produrre «rumori» che disturbano la quiete del «silenzio», condizione essenziale, quest’ultima, per chi si lascia «inondare» dalla Verità. Questa è sempre inesprimibile: si può soltanto scomparire nella Verità. Ma l’uomo teme la propria morte, perché scambia la fenomenicità per autentica realtà; di conseguenza, vede nella propria esistenza personale l’esclusiva possibilità di conferire senso alla vita. Di qui un atteggiamento mentale che porta a concepire il mondo come Verità dell’«essere», e il distacco quale annullamento dell’individualità. Ancorarsi ai valori mondani diventa, allora, una forma di difesa contro l’angoscia del nulla, generata dalla possibilità di perdere un io che, per confermare la propria illusoria esistenza, deve rimanere saldamente legato al mondo. Quest’ultimo non rappresenta, però, una realtà fisica, ma una costruzione mentale che mira a garantire all’io il suo bisogno di conferma. Si potrebbe ribaltare il senso del cogito cartesiano, affermando: «io esisto» in quanto c’è un mondo, non in quanto sussiste il cogito. L’io, quale falsa credenza in un’entità relazionata al mondo, svanisce, allorché le manifestazioni spazio-temporali vengono riconosciute nella loro essenziale Vacuità. Da tale consapevolezza non deriva una posizione di nichilismo, dato che le apparenze assumono il senso dialettico di antitesi della Verità: rappresentano infatti la «non verità» necessaria allo svelamento della Realtà. Vero e falso sono correlati: c’è Verità soltanto come smascheramento dell’errore.

Prendere le distanze dalla fallacità essenziale del mondo non implica negare la sua apparenza, ma significa riconoscerlo come «non verità». Lo svelamento del mondo quale illusorietà è la conseguenza di un bisogno di Verità e di Libertà assente nella dimensione fenomenica. Tuttavia, la Verità rimarrebbe inaccessibile senza la presenza di un mondo, sia pure irreale: la fenomenicità, proprio per il suo carattere di linguaggio simbolico che occulta la Verità, diventa, al tempo stesso, presenza allusiva di ciò che non può essere rivelato in modo diretto. L’evidenza percettiva della fenomenicità rimanda ad una prospettiva dalla quale ciò che appare reale, in termini empirici, viene riconosciuto nella sua essenziale Vacuità. L’intuizione della Verità si sottrae ad ogni forma di comunicazione razionale e, si potrebbe affermare, perfino alla funzione allusiva del simbolo, il quale rappresenta un tentativo di stabilire una relazione tra il noto e l’ignoto.

Saggio - in India - è sinonimo di muni, termine che indica «colui che è pervenuto al silenzio». Nel silenzio, infatti, le apparenze svelano la loro natura: effimere immagini simili a nubi fluttuanti nel cielo. A questo punto, ogni discorso perde la sua ragion d’essere, le parole si svuotano di ogni significato.

Protetto dal suo silenzio, lo yogin contempla con distacco lo spettacolo della mâyâ. Samâdhi non significa soltanto condizione yoghica di completa immobilità psicofisica, ma è altresì termine usato per indicare la sepoltura. Entrare in samâdhi implica, quindi, sperimentare la morte iniziatica. Lo yogin in samâdhi, per la società, è morto; la sua esistenza non è più coinvolta nelle vicende che vincolano alla dimensione mondana. Egli vive nella Verità, ma la sua esperienza non può essere trasmessa ai «dormienti», in quanto inaccessibile a livello profano. Il mondo, con i suoi problemi e i suoi valori, costituisce la condizione «onirica» della mente, mentre lo yogin in samâdhi vive nell’identificazione con la Realtà.

Il misticismo è crisi del linguaggio, inteso come tramite della comunicazione ordinaria. Esperienza ineffabile, attuata in una dimensione di solitudine trascendente il tempo, la storia, le culture, la società. Tacere: esito di un percorso interiore che, infine, schernisce le pretese della ragione e l’arroganza della parola. Sentiero iniziatico, precluso alle velleità del discorso che presume di poter definire il mistero. Consapevolezza totale che percepisce in ogni parola una dissonanza in contrasto con l’armonia di una Verità da contemplare in silenzio.

Il silenzio è come un fiore: sboccia attraverso i suoi ritmi di crescita. Soltanto allorché la mente ha abbandonato le sue istanze intellettualistiche, il silenzio fiorisce, rivelandosi atteggiamento adeguato al contatto con una Realtà che sfugge a ogni ambizione della ragione e ai sottili giochi della dialettica. Tentare di definire, mediante parole, la Realtà ultima significa estendere in modo illegittimo il campo di utilizzabilità dei termini, al di là del loro valore convenzionale, presumendo di potere includere nell’àmbito del discorso anche ciò che si sottrae alla tracotanza del pensiero discorsivo. Non è possibile conoscere, attraverso la logica, ciò che deve essere sperimentato come esito di una realizzazione spirituale. Tutti i discorsi concernenti il senso della verità ultima (paramârtha) sono falsi o inadeguati.

Se vogliamo penetrare nello spirito della tradizione indiana, dobbiamo cercarlo non tanto nelle dottrine filosofiche, sia pure profonde, quanto piuttosto in quei percorsi di purificazione mentale che trovano sbocco nel «silenzio» e nel distacco da ogni interesse mondano. Allorché il sentimento dell’ego si dissolve, il mistico vive immerso in una Luce i cui raggi non possono essere ostruiti dall’invadenza di «oggetti», che inevitabilmente proietterebbero «ombre». Avidyâ è dunque aggrapparsi alle «ombre», disconoscendo la Luce quale vera Realtà. Dalle «ombre» si può solo inferire l’esistenza della Luce; ma per accedere alla visione diretta è indispensabile che gli «oggetti» scompaiano e, assieme ad essi, le «ombre». Allora, non c’è più nessuno che guarda, nulla che possa essere visto, nessun suono, nessun discorso: nirvâna.

L’uomo ordinario non ama il silenzio, in quanto quest’ultimo comporta solitudine, capacità di stare con se stessi, senza andare alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Solitudine significa distanza da tutto ciò che un tempo ci aveva sedotti, abbandono di tutte le illusioni che ci avevano irretiti nel miraggio di una falsa realtà. Soltanto allora, l’esistenza palesa la sua vera natura: tragica conseguenza di un errore di prospettiva che la tradizione indiana definisce avidyâ. Abbiamo confuso, cioè, un mondo doloroso, impermanente, vacuo, per qualcosa di attraente, bello, appagante.

Si ritiene, di solito, che le dottrine indiane siano impregnate di profondo pessimismo, di un radicale sentimento di svalutazione della vita. Tale opinione - nella nostra epoca - è accreditata dalla prevalenza di scelte esistenziali fondate su valori edonistici e su una visione materialistica del mondo. Nella cultura indiana, l’affermazione personale non rappresenta un valore, bensì un’illusione fondata sulla presunzione dell’ego. Asmitâ, ahamkâra definiscono l’attaccamento alla falsa immagine di sé che l’uomo oscurato dall’ignoranza tende ad alimentare con cura, identificandosi con la transitoria apparenza psicofisica. Non c’è sentiero spirituale, in India, che non miri a smascherare tale dolorosa illusione: l’individuo è soltanto una maschera, al di sotto della quale si cela la vera Realtà.

Liberazione significa soppressione degli impulsi che ci legano alla schiavitù delle passioni, degli attaccamenti, dei timori derivanti dalla fallace identificazione con la personalità fenomenica.

La cultura occidentale - dall’Umanesimo ai nostri giorni - ha costantemente esaltato la personalità quale espressione della più completa realizzazione della natura umana. Valori quali genialità, creatività dell’artista, abilità e astuzia del politico costituiscono, nel periodo rinascimentale, i nuovi paradigmi di un ideale umano che segna il tramonto dell’età medievale. La posizione dominante dell’individualismo ha caratterizzato il trionfo della società borghese, con la conseguente esaltazione del denaro, del successo, della bellezza fisica, della spregiudicatezza. Tali valori hanno impregnato l’evoluzione storica della società occidentale negli ultimi cinque secoli, determinando le aspirazioni e gli ideali di vita dell’uomo contemporaneo. Successo nella professione, accumulazione di capitali, beni materiali in grado di rendere la vita più confortevole rappresentano, oggi, la configurazione assunta, attraverso il mutamento storico, dai precedenti ideali umanistico-rinascimentali.

Nonostante il levarsi di qualche voce critica contro un modello sociale alienante e per certi versi disumano, le società di tipo occidentale hanno ereditato, amplificandolo, un ideale di vita che ha cominciato a prendere forma durante il Rinascimento: «l’uomo signore e dominatore della natura». Basti pensare all’ottimistico entusiasmo dei primi teorici della società industriale - come Bacone - o alle varie utopie avveniristiche, che prefiguravano in termini di recupero di un «Eden perduto» la futura società tecnologica. L’efficienza produttiva, lo sviluppo del metodo scientifico, il desiderio di programmare la trasformazione sociale, la sete di beni materiali e di esperienze entusiasmanti hanno generato il mondo occidentale odierno. Denaro e successo sono diventati gli idoli della massa. Si è diffusa, come un’epidemia, la frenetica smania di essere qualcuno, di apparire, di mettersi in mostra: dal cantante di successo al politico, dall’aspirante diva del cinema all’intellettuale, dal professionista all’uomo ordinario, ciascuno tenta in tutti i modi di offrire agli altri un’immagine di sé accurata e migliorata. Viviamo in una società «dell’immagine», di conseguenza le apparenze diventano più importanti della realtà. Cinema, televisione, giornali, pubblicità alimentano senza tregua questa urgenza di diventare «qualcuno», di uscire dall’anonimato, dalla mediocrità. L’uomo comune vive in uno stato di costante frustrazione, dato che, attraverso il confronto tra il suo tenore di vita e quello del personaggio di successo, si fa strada nella sua mente la consapevolezza di una scialba condizione di mediocrità avvertita come fallimento esistenziale.

Nella tradizione indiana, essere «nessuno» indica uno stato di libertà dal senso dell’ego e dal desiderio di possesso; in ultima analisi, è un indizio di liberazione da tutte le forme di schiavitù della vita. Non c’è dunque contrasto più radicale - tra Oriente e Occidente - di quello relativo al valore dell’individualità. Nell’occidentale, il sentimento dell’ego è talmente amplificato e radicato, sin dall’infanzia, che parlare con lui di «trascendenza dell’io» può esporre al rischio di essere scambiati per psicotici da curare con terapie intensive.

L’uomo occidentale di oggi vede scopi soltanto nella caducità; egli si aggrappa alla speranza di un domani migliore, immaginato come più completo appagamento dei suoi insaziabili desideri. La sua sensibilità non viene per nulla scossa da uno dei princìpi di base del Dharma buddhista: «sarvam anityam, sarvam duhkham» (tutto è impermanente, tutto è doloroso). Anzi, proprio l’evidenza della suddetta verità provoca in molti individui un sentimento di ribellione, che si traduce nel cieco impulso ad aggrapparsi con maggiore tenacia a cose, persone, situazioni, nel vano tentativo di immobilizzarle nel tempo, impedendone l’inevitabile scomparsa nel vortice del perenne mutamento.

La cultura dominante, nelle società di tipo occidentale, è fondata sull’esaltazione di valori radicati nel divenire storico e quindi nella transitorietà. Viviamo in un’epoca quasi del tutto immune dalla tentazione di cercare un senso conclusivo della vita. Perfino le speranze fideistiche dei credenti sono animate più da fattori educativi di tipo convenzionale, che non da autentica convinzione derivante da scelta consapevole. Tuttavia, quando l’uomo non avverte più il bisogno di confrontarsi con alcuni interrogativi fondamentali relativi al significato della vita, allorché, in altri termini, egli vede nella propria esistenza un fenomeno casuale dell’evoluzione cosmica, non può che generarsi, in lui, un senso di smarrimento e di angoscia al quale cerca di sfuggire aggrappandosi a traguardi precari o a fedi religiose vissute, più che altro, come sentimento di sicurezza derivante dall’adesione a una tradizione consolidata attraverso i secoli. Aspirare a una condizione di benessere garantita da valori mondani, mediante la ricerca di mete esistenziali radicate nella transitoria esperienza della dimensione storico-sociale, significa andare incontro allo scacco finale, ovvero allo smarrimento.

La vita non sembra affatto un processo volto ad assicurare agli esseri viventi uno stato di felicità. Tutt’altro! L’esistenza degli individui si rivela più come dinamismo governato da insopprimibili bisogni, che non quale sviluppo di qualcosa mirante all’appagamento e alla completezza. Tutto ciò si esprime in molteplici forme di irrequietezza e, di conseguenza, in un perenne guardare a nuovi obiettivi. Ogni traguardo, per la sua precarietà, costituisce soltanto un attimo di pausa volto a rigenerare le energie destinate a un rinnovato slancio verso qualcos’altro. La momentaneità di ogni gioia, la caducità di ogni meta raggiunta, il timore di perdere all’improvviso i vantaggi ottenuti rendono l’uomo sempre esposto al rischio di doversi separare da ciò che ama. La vita rivela, allora, la sua vera natura: duhkha, perenne rinnovarsi di un dolore cosmico individualizzato in innumerevoli modi. L’esistenza è lotta, tensione, rischio, desiderio, paura: stati mentali alimentati dalla necessità di garantire la continuità del processo vitale. Il saggio indiano afferma, dunque: «Tutto è soltanto dolore».

Allorché si fa strada la consapevolezza del carattere illusorio di ogni felicità mondana, soltanto a quel punto, i sentieri spirituali possono essere additati come riferimento sicuro volto a eliminare la sofferenza. Si tende, allora, ad uno stato di beatitudine (ânanda) del tutto emancipato dalle ordinarie circostanze del vivere quotidiano e dagli scopi sostenuti dall’attaccamento al senso dell’io e del mio. Quanto più, infatti, si aspira alla calma mentale, alla pace, al silenzio, tanto maggiormente svaniscono le motivazioni che prima avevano sostenuto una scelta esistenziale caratterizzata da frenetica agitazione, in vista di gratificazioni narcisistiche o di accumulazione di beni materiali. La vita, ora, acquista diverso significato: non ci sono più mete indicate dalla forza persuasiva del desiderio e delle altre passioni. Quale ragione, infatti, potrebbe spingere a cercare traguardi visti ormai come illusioni simili a un miraggio? Guadagno, successo, potere, amore sensuale, affetti familiari rappresentano valori solo per chi è immerso in una dimensione mondana. L’uomo, inserito nell’attuale società tecnologica, s’illude di poter vivere a proprio agio nella sfera della finitezza e della precarietà dei beni cui aspira. Il suo «orizzonte» è circoscritto ad una prospettiva del tutto orientata verso il mondo esterno: fenomeni della natura, e fatti politico-economici.

Viviamo in un modello di civiltà dove prevale una titanica volontà di potenza volta a dominare le forze della natura, al fine di ottenere vantaggi pratici sempre più rilevanti. L’uomo contemporaneo, quindi, non ama affatto sentir parlare di Verità ultima, di «assoluti», né a maggior ragione di morte, dal momento che quest’ultima gli rammenta che un giorno o l’altro dovrà lasciare tutto ciò che egli considera un bene. Di conseguenza, l’individuo preferisce occuparsi di titoli di borsa, di programmazione economica, di mercato e altre consimili forme di impegno; attività certamente più congeniali ai suoi smodati desideri e al suo bisogno di sicurezza economica, ma che, per analogia, ricordano il comportamento delle formiche, le quali ammassano provviste per l’inverno. In tale ottica, l’esistenza finisce col diventare sinonimo di temporalità: soltanto natura e storia vengono riconosciute come manifestazioni della Realtà; in tale prospettiva, appare problematico trovare un posto perfino per Dio. La trascendenza della molteplicità spazio-temporale - aspirazione che, in altre epoche, aveva sostenuto le istanze metafisico-religiose e il misticismo, ovvero aveva giustificato l’influenza delle religioni nella vita quotidiana - tende ormai a svanire, nell’àmbito di una civiltà dominata dalla tecnologia e dalle scienze.

Ciò che traccia una netta linea di demarcazione tra conoscenza scientifica e ricerca spirituale è lo scopo che le distingue: le scienze guardano al mondo esperibile tramite un approccio sensoriale e intellettuale, un sentiero di «liberazione» mira all’emancipazione da ogni illusione mondana. La conoscenza empirica tende a obiettivi pratici, ovvero a elaborare modelli teorici di interpretazione dei fenomeni che hanno come punto di partenza l’esperienza concreta di fatti osservabili, o tali da postulare una potenziale verifica. La ricerca spirituale ha finalità soteriologiche, mira a svelare la meta finale dell’esistenza. Quanto più l’uomo percepisce se stesso come prodotto della natura, tanto più le scienze assumono il monopolio del sapere accreditato nelle società materialistiche. La conoscenza scientifica si sviluppa come processo cumulativo che si attua attraverso l’elaborazione metodica di dati ed esperienze sempre più complessi. La conoscenza spirituale, vidyâ, prajñâ, jñâna-yoga, è svelamento di una Realtà celata dalle apparenze. Scienze e tecnologia possono manipolare esclusivamente fenomeni: la loro sfera d’indagine e i conseguenti risultati concernono le manifestazioni empiriche dell’esistenza spazio-temporale. Non è possibile alcun passaggio scientifico dall’apparenza al Reale.

La spiritualità mistica scaturisce dall’anelito verso la trascendenza dei valori storico-culturali, visti come limitazioni insite in tutto ciò che si manifesta nella temporalità e nel mutamento. Eterno, Nirvâna, Assoluto, Regno dei Cieli sono termini convenzionali che alludono all’alterità radicale rispetto al mondo: essi implicano distacco da tutto ciò che ha valore e significato nell’àmbito dell’esperienza profana. L’ascesi è atteggiamento che nasce dal riconoscimento di una sostanziale inconciliabilità tra sacro e profano, tra esistenza immersa nel mondo e autentica libertà. La morte iniziatica del samnyâsin rappresenta - in India - la scelta di colui che si pone «di là degli stadi della vita e delle caste sociali» (ativarnâshramin). Mediante tale rinuncia prende forma umana la testimonianza di una Verità che risulta inaccessibile alla grande maggioranza del genere umano.

Una spiritualità - quella indiana - che alla società occidentale appare estranea e incomprensibile, dal momento che la storia d’Europa è stata contrassegnata dalla presenza del cristianesimo. La chiesa cattolica, oggi, invita i fedeli all’impegno nel mondo, ai fini di un miglioramento della società: valori quali la famiglia, la solidarietà sociale, l’aiuto agli emarginati, le missioni in diverse parti del mondo rappresentano i punti salienti dell’impegno cattolico nel mondo. Diversamente, la liberazione (moksha) - nelle tradizioni dell’India - non riguarda il tempo, né la storia, con i suoi drammatici avvenimenti, e neppure i problemi della vita quotidiana, con le sue inderogabili necessità pratiche. Liberazione significa non sentirsi più vincolati agli scopi di un’esistenza ingannevole, caratterizzata dall’inevitabile rinnovarsi di un processo di sofferenza.


 

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L’ECLISSI DELLE SPECULAZIONI: NÂGÂRJUNA

Dalla notte, o Shântamati, in cui il Tathâgata ha ottenuto la suprema completa Illuminazione fino alla notte in cui egli è entrato nel parinirvâna senza residuo, neppure una sola sillaba è stata da lui espressa né pronunciata né la pronuncerà.

Ispirato dall’arcana sentenza del Sûtra, Nâgârjuna intona il suo canto al «silenzio» del Buddha:

Tu, o Signore, non hai mai pronunciato neppure una sola sillaba: eppure tutti questi esseri da convertire son saziati dalla pioggia della Legge.

Il linguaggio mistico non è subordinato alle regole della logica formale: è trasgressivo, metaforico, paradossale, ambiguo. Il principio di non contraddizione delimita soltanto la validità e la fruibilità di una comunicazione che si stabilisce sul terreno dell’esperienza mondana. Il mistico allude alla Verità da una prospettiva interamente situata in una dimensione di alterità radicale rispetto all’uso delle categorie convenzionali del pensiero. Il tono paradossale degli enunciati mistici trascende la sfera della razionalità. Ciò che appare assurdo alla ragione diventa modalità espressiva di una Verità che può essere accolta soltanto nel silenzio dell’intelletto. È una Verità che si rivolge al cuore, non alla fredda e indifferente neutralità tipica di una razionalità da computer: l’esistenza non è un calcolo matematico!

Nâgârjuna parla della vita al culmine della sua consapevolezza, non si trastulla di certo con sofismi che mirano a convincere a tutti i costi. Egli non vuole persuadere per mezzo di parole il cui uso è rigidamente delimitato dalle regole semantiche. Il senso delle parole, per lo più, rimanda a eventi e situazioni del mondo; Nâgârjuna parla di altro: palesa una Verità che si sottrae alle forme logiche codificate, dato che queste ultime, in rapporto al fondamento assoluto, perdono la loro pregnanza e denunciano la loro non utilizzabilità.

Si può forse riscontrare un’analogia con la comunicazione artistica: il messaggio è espressivo, al di là della sua essenziale irrazionalità. Immaginiamo di ascoltare la musica di Bach, facendo uso di tecnologie elettroniche in grado di scomporre i singoli suoni e di analizzarne la frequenza, l’intensità, il timbro; cosa avremmo percepito del carattere sublime della musica? Proprio nulla! Il messaggio musicale avrebbe perduto la sua valenza comunicativa a causa della stupidità dell’intelletto raziocinante.

Accostarsi ai testi mistici con il manuale di logica formale sulla scrivania, pronti alla consultazione, è come esaminare gli affreschi della Cappella Sistina con il microscopio.

Torna alla memoria una celebre analisi del filosofo neopositivista Carnap relativa all’uso del termine «nulla» usato da Heidegger nel saggio Che cos’è la metafisica. Ebbene, Carnap cerca in tutti i modi di dimostrare che Heidegger ignora le regole della sintassi logica. Non sfiora neppure per un attimo le capacità di comprensione di Carnap l’idea che Heidegger adopera il termine «nulla» in un senso e in un contesto del tutto diversi da quelli della casalinga che, andando al supermercato, non trova «nulla» di quello che desiderava acquistare.

I logici e i teologi parlano di esistenza e di non esistenza avendo sott’occhio gli «oggetti» della vita quotidiana. I mistici cantano, danzano, s’immergono nel silenzio, comunicano l’ineffabile. Come interpretare allora l’espressione di Nâgârjuna: «Tu, o Signore, non hai mai pronunciato una sola sillaba?».

Secondo la tradizione, il Buddha trascorse quarantacinque anni, dopo il Risveglio, impegnato nella trasmissione del Dharma. È significativo però il racconto canonico dell’intervento di Brahmâ per indurre Shakyamuni, assalito dal dubbio relativo all’utilità pratica dell’insegnamento, a «mettere in moto la ruota della Legge». L’esitazione del Buddha viene attestata dai seguenti versi dei Majjhima-Nikâya:

Quel che con intimo sforzo ho trovato
or palesare è interamente vano:
agli uomini, che d’odio ardono e brama,
non conviene davvero tale dottrina.
Dottrina, che risale la corrente,
ch’è interna ed è profonda ed è nascosta:
essa resta invisibile ai bramosi,
nella più fitta tenebra ravvolta.

Ed ecco le parole di Brahmâ per sollecitare il Buddha a trasmettere la Dottrina:

Ben false cose furono annunziate
in Magadhâ; dottrine false e torbide,
da indegni escogitate e proclamate.
Questa porta di vita apri ora tu,
e guidaci alla nuova verità.
Com’un, che in cima stia ad alto monte
e sulla terra guardi tutt’intorno,
guarda or così, tutt’occhio, tu dal sommo
vertice del vero, su questo mondo
di dolore, tu dal dolor redento!
Guarda, o Savio, pietoso, all’esistenza
formarsi e trapassare è il suo tormento.
Tu, o Eroe, vincitor della battaglia,
volgiti, o duce senza macchia, al mondo!
annunziagli, o Signore, la dottrina:
intelligenti pur si troveranno.

Nei primi versi si afferma, tra l’altro, «Dottrina che risale la corrente, ch’è interna ed è profonda ed è nascosta». Andare contro corrente è una tipica espressione mirante a evidenziare il contrasto con quello che si crede, si pensa, si dice comunemente. L’umanità infatti è costituita, per lo più, da «uomini che d’odio ardono e di brama» e, di conseguenza, una dottrina opposta a queste insane passioni non può che essere incompatibile con il modo di sentire della stragrande maggioranza del genere umano.

L’intervento di Brahmâ mette in luce due validi motivi per indurre il Buddha a trasmettere l’insegnamento: 1) «Guarda, o Savio, pietoso all’esistenza»: la compassione del Buddha come fattore determinante dell’aiuto elargito agli altri esseri; 2) «Intelligenti pur si troveranno»: è vero che la massa degli individui è dominata da offuscamento mentale, odio, brama e altre nocive passioni, ma è pur sempre possibile trovare, tra questa folla di ciechi, qualcuno in grado di «vedere».

A tal punto, i versi di Nâgârjuna rivelano un senso nascosto: il Dharma si diffonde non mediante la forza persuasiva di parole che seducono l’intelletto, ma attraverso la potenza della Verità (Dharmakâya) accessibile in modo intuitivo a coloro che sono dediti alla pratica del «Sentiero». In realtà, per tutti quelli che, limitandosi ad ascoltare, si rivelano incapaci di mettere in pratica l’insegnamento nella vita concreta, il Buddha non parlò affatto. C’è qui un senso analogo a quello riscontrabile nel Sûtra del Diamante, dove si afferma:

Coloro che mi videro attraverso la mia forma (corpo) e coloro che mi seguirono attraverso la voce sforzi sbagliati tentarono, quelli non mi vedranno.

Dal Dharma si dovranno vedere i Buddha, dai Corpi-di-Dharma viene la loro guida. Tuttavia la vera natura del Dharma non si può discernere, e nessuno di essa può essere conscio come di un oggetto.

Tenuto conto, poi, che il Buddha umano è Nirmânakâya, corpo fenomenico attraverso il quale la Verità (Dharmakâya) si rivela agli uomini, coloro che seguono l’insegnamento non sono guidati da parole, bensì dalla volontà di purificare la mente dagli âsrava (veleni) che impediscono di accedere alla Verità.

In questo senso i Discorsi del Buddha sono propedeutici al «silenzio»; il messaggio più profondo del Buddha viene trasmesso senza parole.

La Verità è «realizzazione» inesprimibile, non descrizione di qualcosa che si contrappone al soggetto: il dualismo soggetto-oggetto è caratteristico della conoscenza empirica. La conoscenza intuitiva (Prajñâ) trascende la prospettiva dualistica che scinde il reale nell’antitesi soggetto-oggetto. La frammentazione del mondo in una molteplicità spazio-temporale concerne l’esperienza ordinaria e il modello di conoscenza empirica che sta a fondamento della ricerca scientifica. La Prajñâ è abbandono di tutte le modalità tipiche della conoscenza empirica, in quanto coincide con il fondamento ultimo di tutti i fenomeni.

Ciò che trascende essere e non essere e, insieme, non li trascende, ciò che non è in nessun luogo, né conoscenza né conoscibile, né esistente, né inesistente, che non è né uno né molteplice né ambedue né non ambedue, privo di sostrato, immanifesto, impensabile, invisibile, senza arresto, senza nascita, senza annientamento, senza eternità, questo è simile all’etere, trascende pensiero e parola.

Così Nâgârjuna allude alla Vacuità quale fondamento dei fenomeni. Vacuità - è bene precisarlo - non significa realtà antitetica al mondo delle apparenze, quanto piuttosto essenza ultima di tutto ciò che si manifesta in qualche forma, essendo i fenomeni privi di sostrato sostanziale. Il linguaggio di Nâgârjuna è apofatico e rammenta senza dubbio la Teologia Mistica di Pseudo-Dionigi; ma le parole, in tale contesto, non hanno lo scopo di definire qualcosa di inaccessibile alla ragione, bensì acquistano valore simbolico per comunicare un’esperienza di tipo iniziatico. Qui, le parole hanno significato ingiuntivo: costituiscono un invito al «silenzio», rimandano all’intuizione immediata di una Verità che può essere accolta dopo avere messo da parte ogni pretesa di definizione concettuale. Nâgârjuna si avvale della sua dialettica critica non per dimostrare la Verità, ma per confutare il dogmatismo implicito in ogni dottrina metafisica o teologica. Egli giudica qualunque concezione speculativa una manifestazione velleitaria dell’intelletto, il quale si arroga la capacità di poter elaborare immagini del mondo che - alla luce di una logica spinta alle sue estreme conseguenze - appaiono del tutto infondate.

Per il Buddha, le speculazioni di ogni genere rientrano in quella categoria di contaminazioni della mente che viene chiamata drishti-âsrava (veleno delle opinioni errate). Qualunque pretesa metafisica - ma anche scientifica, si potrebbe aggiungere - di conoscere razionalmente il fondamento assoluto dei fenomeni appare del tutto ingiustificata, dal momento che le categorie utilizzate dal pensiero non esprimono affatto le caratteristiche ontologiche della realtà ultima. È questa una posizione diametralmente antitetica a quella della logica hegeliana, per la quale vi è assoluta identità tra categorie del pensiero e realtà.

Secondo Nâgârjuna la mente produce immagini delle cose non corrispondenti affatto alla natura ultima dei fenomeni, costituita dalla Vacuità di ogni apparenza. Il fondamento assoluto di ciò che appare non può essere definito per mezzo della logica, ma si rivela alla visione diretta del mistico attraverso un tirocinio di purificazione mentale e di meditazione.

La saggezza (Prajñâ) - nell’insegnamento buddhista - non può sorgere senza due presupposti preliminari: condotta regolata da una disciplina etica e pratiche meditative volte alla calma e alla purificazione mentale. Saggezza, per il Buddha, non significa né erudizione del dotto, né abilità pratica nell’affrontare i problemi e le difficoltà della vita quotidiana. Saggezza, nel senso di Prajñâ, è visione delle autentiche caratteristiche di tutto ciò che sperimentiamo: impermanenza, dolore, insostanzialità, Vacuità. Mediante la purificazione mentale è possibile intuire la Verità ultima.

La conoscenza concettuale, discorsiva, è un errore che affonda le sue radici nella stessa struttura del pensiero, nel quale c’è una specie di ignoranza innata, di impotenza a cogliere la realtà così com’è. Quest’errore è tuttavia utile e fino a che non abbiamo raggiunto un’esperienza diversa della realtà, «una revulsione del sostrato», non ne possiamo fare a meno, proprio per poterla raggiungere e quindi per superarlo.

Il mistico e l’artista hanno in comune l’idiosincrasia per il linguaggio razionale: li unisce l’esperienza di un mondo che non può essere rappresentato in forma logica. Per loro è indispensabile trovare una modalità espressiva che aggiri «l’ignoranza» dell’intelletto: un modello semantico in grado di superare le barriere del discorso «sensato».

È interessante notare ciò che scriveva Mahler, a proposito del VI movimento della Terza Sinfonia:

È come la sommità, come il più alto livello dal quale si può ammirare il mondo. Avrei potuto intitolarlo «Ciò che Dio mi dice», nel senso che Dio può essere compreso solo come amore.

La musica, tra le manifestazioni artistiche, è la più mistica, per il fatto che i suoni subentrano alle parole. Nell’induismo, il suono sacro, Aum (Om), è il simbolo della vibrazione primordiale che genera l’universo. Anche nel misticismo Sufi il suono Hu - contratto nella sillaba Ham - è l’inizio e la fine di tutti i suoni: è chiamato Ism-e Azam ed è il nome di Dio.

Inayat Khan, un musicista dedicatosi nella seconda parte della sua vita alla divulgazione della dottrina Sufi, concludeva una sua conferenza con queste parole:

Lo scopo della vita consiste nel guardare il cielo. Ciò che è miracoloso nella musica è che questa aiuta l’uomo a concentrarsi e a meditare indipendentemente dal pensiero. Per questo la musica sembra essere il ponte sopra l’abisso tra ciò che ha forma e ciò che non l’ha.

L’ultima frase richiama, in modo sorprendente, il rapporto tra vuoto e forma dei testi del Mahâyâna, dove troviamo l’idea di completa interdipendenza tra Vacuità e fenomeni. Il suono musicale s’insinua negli spazi del silenzio, costituito dalle pause che scandiscono la relazione tra gli intervalli: una composizione non può nascere senza uno spazio vuoto tra le note, le quali acquistano, così, ritmo e armonia. Non è possibile disgiungere i suoni dal silenzio senza disgregare la struttura della composizione.

Visibili, suoni, sapori, tangibili, odori ed entità sono unicamente una costruzione mentale, simili a una città di geni celesti, pari a un miraggio o a un sogno.

Il mondo è creazione della mente, come l’opera d’arte. Michelangelo, contemplando il blocco di marmo dal quale avrebbe tratto la sua statua di Mosè, esclamò:

È già qui: debbo soltanto liberarlo dalla materia.

L’artista crea un universo più vicino alla Verità di quanto non lo sia il mondo dell’esperienza comune al quale attribuiamo una realtà inesistente senza l’attività della mente. Invero, siamo tutti degli artisti potenziali, senza saperlo, perché ciò che ci appare è creazione della nostra mente. Realtà oggettiva e fenomeni in sé, postulati dalle scienze, sono illusioni derivanti dall’«ignoranza». L’uomo comune crede che la mente sia una specie di macchina fotografica che, per quanto sofisticata, si limita a riprodurre immagini di una realtà indipendente. Il realismo «ingenuo» è sempre stata la tendenza più spontanea dell’uomo, quasi una filosofia popolare che ha finito poi per trovare spazio anche negli indirizzi speculativi. In genere, l’uomo ha l’istintiva tendenza a pensare che il mondo, così come gli appare, attraverso l’immagine elaborata dai sensi e dall’intelletto, sia già ordinato in base a leggi universali che ne assicurano l’esistenza oggettiva, a prescindere dalla presenza di qualunque forma di soggettività: in fondo, in tale ottica, all’uomo non resterebbe altro ruolo se non quello di spettatore di una realtà indipendente e di fruitore in grado di modificare i processi naturali in vista di svariati scopi. Distorsione mentale, quest’ultima, difficile da sradicare, dato che, al giorno d’oggi, viene avvalorata, in un certo senso, perfino dal sapere scientifico, basato sul postulato dell’esistenza in sé dei fenomeni. Lo scienziato infatti crede di scoprire la struttura intima che si cela dietro le apparenze sensibili, ritenendo in tal modo di possedere la chiave di lettura delle manifestazioni naturali. Paragonare, quindi, il mondo ad un sogno - come propone Nâgârjuna, condividendo la convinzione di altri mistici - genera, nell’àmbito della cultura occidentale, adusa ad una chiara propensione verso la concezione «realistica» del mondo, un atteggiamento di ironia o quanto meno una risposta di totale dissenso. Per l’occidentale, dubitare - come fecero Berkeley e Hume - dell’esistenza fisica dell’universo significa veder traballare i valori di una civiltà che, sin dai suoi esordi, ha mostrato una spiccata tendenza a vedere nel mondo l’opera di un Creatore, ovvero il prodotto di forze naturali sottostanti al processo evolutivo del cosmo. Come dire: tanto i credenti delle religioni monoteistiche, quanto gli scienziati più agnostici coltivano un’idea dell’universo fisico che è frutto dell’avidyâ. Una critica della tradizione occidentale difficile da mandar giù: un «cibo» troppo indigesto, per la maggioranza degli individui, intellettuali compresi.

Se il mondo fosse non vuoto, non si potrebbe né ottenere ciò che non si possiede già, né mettere fine al dolore, né eliminare tutte le passioni.

La dialettica critica di Nâgârjuna si esprime in un linguaggio incomprensibile dal punto di vista della logica comune, che è quella dell’uomo nutrito dalle credenze convenzionali e dello scienziato troppo imbevuto di fervore devozionale nei riguardi dei suoi «idoli» di oggettività sperimentale. Quale significato infatti potrebbero attribuire entrambi a enunciati come i seguenti?

Un essere non nasce da un essere.
Un essere non nasce da un non essere.
Un non essere non nasce da un non essere.
Un non essere non nasce da un essere.
Chi crede all’esistenza di un essere, è vittima, in conseguenza, delle teorie dell’eterno e dell’annientamento.
Quest’essere, infatti, sarà permanente o impermanente.

Nâgârjuna - nella prima strofa - esamina le quattro possibilità logiche del concetto di origine di qualcosa, confutandone la validità.

Infatti: 1) un essere esistente non nasce, in quanto esiste già; 2) un non essere (qualcosa che non esiste) non può generare alcunché. A maggior ragione: 3) qualcosa di inesistente non deriva da nulla; 4) ciò che non esiste non dipende da ciò che esiste.

Conclusione: l’essere o è eterno o è soggetto all’annullamento; chi crede in una delle due possibilità cade o nella falsa visione dell’eternalismo o in quella del nichilismo. Entrambe le opinioni vengono considerate errate e ad esse il Buddha oppone la «Via di mezzo», che consiste nella teoria della «produzione condizionata». Per Nâgârjuna, quest’ultima coincide con la dottrina della Vacuità, cioè con la tesi della non esistenza intrinseca di alcun fenomeno indipendentemente dalla sua relazione con gli altri. Il mondo fenomenico è un sistema di relazioni tra elementi privi di esistenza propria: un fenomeno, considerato in se stesso, è vuoto, nel senso di non poggiare su alcunché di sostanziale come fondamento. Tenuto conto, poi, del fatto che tale caratteristica è comune a qualunque genere di fenomeno, si perviene alla conclusione che tutto ciò che si manifesta, a livello empirico, è vuoto di natura propria, in quanto le sue caratteristiche dipendono da cause e condizioni specifiche e queste ultime rimandano ad altri fatti. Nessun evento, nessun oggetto, nessuna forma di esistenza dunque sussiste di per sé: ogni cosa rimanda a tutto il resto.

È quest’ultima una concezione molto più radicale di quella spinoziana, in quanto Spinoza negava certamente le sostanze finite, ma riconosceva Dio come unica sostanza. Nella dottrina della Vacuità non ci sono sostanze, né finite, né infinite. Il vuoto è il fondamento di questo sistema di relazioni che comunemente denominiamo mondo. Se poi si volesse definire concettualmente la Vacuità, la ragione cozzerebbe contro le barriere del paradosso logico: definire significa marcare i limiti di qualcosa in relazione ad altro, ma il vuoto sfugge a questa istanza.

Rimane tuttavia un altro aspetto da chiarire: cos’è la mente? In sé, anche la mente è vuota di esistenza inerente, dal momento che il suo manifestarsi rientra nel sistema di relazioni interconnesse, convenzionalmente chiamato universo. Mente ed eventi sono interdipendenti, non c’è mente senza connessione con altri fenomeni e viceversa non esiste alcunché senza mente. Allorché nel Vajrayâna si utilizza l’espressione «mente di Chiara Luce», come fondamento ultimo dell’esperienza, non si allude ad un’entità paragonabile all’Âtman dell’induismo, ma all’esperienza ineffabile della Vacuità di tutti i fenomeni.

Un soggetto si manifesta attraverso un oggetto.
Un oggetto si manifesta attraverso un soggetto.
Come potrebbe un soggetto esistere senza oggetto?
Come potrebbe un oggetto esistere senza soggetto?

L’interdipendenza implica che soggettività e fenomeni non possono essere disgiunti, se non per astrazione intellettuale. Nell’esperienza concreta non esistono individui non relazionati a qualcosa, né oggetti privi di rapporto con la mente.

L’universo fenomenico è una totalità interconnessa; le definizioni sono relative al punto di vista di chi sperimenta gli eventi: «questo luogo», dove mi trovo, diventa «altrove» per un individuo lontano; «adesso» è già «passato», appena ho compiuto l’atto di scrivere tale parola. La causa di un evento non è causa prima che si verifichi l’effetto, altrimenti sarebbe causa di qualcosa che non ha esistenza: pertanto la sua caratteristica di «essere causa» dipende dall’esistenza dell’effetto; in altri termini, si potrebbe affermare che la causa dipende dall’effetto, e quindi che l’effetto è la «causa» della causa.

Lo stesso ragionamento può essere applicato al concetto di temporalità: infatti, se ciò che esiste in atto dipende dal passato e quest’ultimo, in quanto già trascorso, non può essere modificato, allora neppure il presente, in quanto conseguenza del passato, può subire trasformazioni; così come, per analoghe ragioni, il futuro. In altre parole, passato, presente e futuro, in quanto dimensioni interdipendenti, non sono disgiunti; quindi ciò che appare nell’esperienza attuale non è altro che la conseguenza necessaria di ciò che è accaduto in precedenza, cioè costituisce una frazione della continuità temporale, dove ogni momento è connesso alla totalità del tempo. La percezione fenomenica del tempo, quale flusso di istanti separati, in quanto distinti tra loro, occulta la vera caratteristica della temporalità, la quale implica una indissolubile interdipendenza tra tutti i momenti che scandiscono il fluire del tempo. La dottrina del karma, interpretata alla luce delle suddette considerazioni, implica il fatto che ogni azione del passato, producendo conseguenti effetti nel presente, determina un condizionamento necessario delle azioni attuali, le quali, a loro volta, eserciteranno conseguenze inevitabili nel futuro. A questa ciclicità temporale (samsâra) non ci si può sottrarre se non mediante la visione illuminata, la quale elimina la possibilità di compiere atti (karma) che continuerebbero a creare legami con il mondo.

Altro punto concernente il tempo è rappresentato dall’idea di assenza di inizio del samsâra. Infatti, se il samsâra avesse avuto origine, si dovrebbe postulare una causa eterna; ma ciò appare contraddittorio, in quanto, essendo l’eternità assenza del tempo, non risulta logicamente possibile una relazione, di qualunque genere, tra una dimensione trascendente il tempo e quest’ultimo. Per motivi analoghi, viene affermato che l’ignoranza (avidyâ) è senza inizio: pertanto, non esiste un momento cronologico a partire dal quale sorge la condizione di ignoranza.

Ogni forma di vita fenomenica dipende dall’ignoranza, ma quest’ultima è, al tempo stesso, condizione del Risveglio, dato che se non esistesse uno stato di offuscamento mentale non ci potrebbe essere, neppure, Illuminazione; così come sonno e veglia, luce e tenebre rappresentano fenomeni interconnessi.

Di qui la tesi dell’unità, in senso assoluto, di nirvâna e samsâra; infatti l’ignoranza si configura tale soltanto nell’ottica di un’esperienza di Risveglio, e quest’ultimo ha senso soltanto per il fatto che esiste l’ignoranza. Dunque, dal momento che le categorie basilari del pensiero umano sono essenzialmente contraddittorie, sul piano logico, da esse dipende l’apparenza di un mondo fenomenico, illusorio in sé, ma efficiente sul piano empirico: è proprio tale paradosso la conseguenza del potere della mâyâ.

Questi e altri simili paradossi logici dimostrano l’impossibilità di concepire i fenomeni indipendentemente da una trama di rapporti che, in ultima analisi, collega ogni evento a tutto il resto.

Uno dei maggiori studiosi della dialettica di Nâgârjuna, il pandit indiano Murti, dopo avere analizzato le ragioni logiche che stanno a fondamento della teoria dell’interdipendenza, afferma:

Queste insormontabili difficoltà (derivanti dalla separazione di concetti connessi in un rapporto di reciproca dipendenza) ci costringono a concludere che causa ed effetto, sostanza e attributo, intero e parti, soggetto e oggetto, etc., sono reciprocamente dipendenti e relativi; non sono quindi cose in sé. Ciò che è relativo è soggettivo, irreale. Le categorie sono artifici concettuali (vikalpa, prapañca) attraverso i quali la Ragione cerca di apprendere il Reale, che non può essere categorizzato e reso relativo. La ragione (buddhi) viene quindi condannata come falsificatrice del Reale (samvriti). Nessun fenomeno, nessun oggetto di conoscenza (bhâva o abhâva) sfugge a questa relatività universale.

A conclusione del citato periodo, Murti riporta le parole di Âryadeva, discepolo di Nâgârjuna:

Colui che percepisce la natura di un singolo ente, percepisce la natura di tutti gli enti; la Shûnyatâ di uno è la Shûnyatâ di tutti.

Di certo, le precedenti argomentazioni non tendono a mettere in discussione l’utilità pratica delle verità convenzionali: il fatto che il fuoco dipenda dal combustibile e che quest’ultimo sia tale in relazione al fuoco non significa negare gli effetti concreti della fiamma. È indispensabile tenere presente la fondamentale distinzione fatta da Nâgârjuna tra verità relativa (samvriti) e verità assoluta (paramârtha). La verità relativa concerne l’ordine fenomenico, basato sulla regolarità che caratterizza il rapporto tra le apparenze. La verità assoluta - afferma Candrakîrti nel suo commento alle Madhyamaka Kârikâ - «è il silenzio dei santi».

Dunque, tutto il discorso ci riconduce al silenzio mistico, all’impossibilità di definire la Realtà al di là delle apparenze. È proprio questo il senso del versi di Nâgârjuna citati all’inizio: «il Buddha non pronunciò una sola sillaba» in quanto il suo insegnamento più profondo venne trasmesso senza parole.

L’ineffabilità dell’esperienza iniziatica diventa la ragione più significativa del prevalere, nell’iconografia tibetana, del linguaggio simbolico delle immagini. La Verità assoluta non può essere espressa per mezzo di parole, ma il simbolo per la sua valenza allusiva può diventare mezzo adeguato per far nascere un’intuizione trascendente il discorso razionale. Questo il motivo centrale delle innumerevoli rappresentazioni iconografiche tibetane di «divinità» e mandala che indicano il «percorso» e i «pericoli» della mente orientata verso la via dell’Illuminazione. La potenza evocatrice dell’immagine prende il posto della parola, mettendo in moto, nella coscienza dell’adepto, un processo energetico in grado di generare una purificazione della mente da tutte quelle contaminazioni che ostruiscono la visione della Verità. Rituali con profondo valore simbolico, recitazione di mantra e di pûjâ, tecniche esoteriche di controllo mentale subentrano, in tal modo, alle pretese razionali del discorso. Il veicolo del Vajrayâna acquista il sopravvento sulle precedenti forme di trasmissione dell’insegnamento del Buddha. Essendo un percorso iniziatico, per la sua pratica è richiesta, in modo tassativo, la guida del maestro.

Le immagini risvegliano emozioni sepolte nell’inconscio, esprimono tendenze archetipiche che la componente razionale della mente tiene a bada, in quanto evocatrici di potenze interiori temute dall’uomo ordinario. Dove la parola si spegne in un muto silenzio, l’immagine genera la capacità di entrare in contatto con una dimensione preclusa al discorso logico. Riappare qui il motivo dell’analogia tra arte e misticismo. Il linguaggio della ragione, dinanzi al mistero, è impotente; ma la rappresentazione simbolica, nella forma di archetipi evocati tramite l’immediatezza dell’immagine, o il risveglio di energie psichiche, radicate nella profondità della vita, diventano mezzi di un’esperienza per la quale si richiede il totale abbandono del sâdhaka alla forza delle emozioni.

Scrive Lama Anagarika Govinda:

L’astrazione dei concetti e delle conclusioni filosofiche deve essere continuamente corretta con l’esperienza diretta, l’esercizio della meditazione e le contingenze della vita di ogni giorno. L’elemento antropomorfico del Vajrayâna non ha avuto, quindi, origine da una mancanza di comprensione intellettuale (come nel caso dell’uomo primitivo), ma piuttosto dal desiderio cosciente di passare da un atteggiamento puramente intellettuale e teorico ad una diretta consapevolezza della realtà. Ma ciò non si può ottenere costruendo convinzioni, ideali e fini, e fondandoli sul ragionamento: occorre penetrare coscientemente in quegli strati della nostra mente che non possono essere raggiunti con argomentazioni logiche o pensieri discorsivi influenzati da esse. Questa penetrazione e questa trasformazione è possibile solo attraverso la forza irresistibile della visione interiore, le cui immagini primordiali, o «archetipi», sono i principi formativi della nostra mente. Come i sensi, essi affondano nel fertile terreno del nostro subconscio per germogliare, svilupparsi e dispiegare le loro potenzialità.

Il tirocinio propedeutico, basato sulla disciplina etica e sull’ascolto del Dharma, costituisce il momento iniziale di un percorso culminante nel superamento di ogni teorizzazione, alla quale subentra l’acquisizione di tecniche e di pratiche iniziatiche tendenti a trascendere il piano dell’esperienza razionale. Così come non è possibile praticare lo yoga leggendo libri, allo stesso modo non si fa esperienza di una dimensione sovrarazionale accumulando conoscenze discorsive.

Coloro che dispiegano discorsivamente lo Svegliato, il quale trascende, immutabile, ogni spiegamento del pensiero discorsivo, son tutti ingannati da questo spiegamento stesso e non vedono il Tathâgata.

In questi versi di Nâgârjuna, il termine Tathâgata non si riferisce al Buddha umano Shâkyamuni, visto soltanto come Nirmânakâya (manifestazione fenomenica), ma al Buddha eterno che coincide con il Dharmakâya, il Corpo-di-Verità quale fondamento assoluto della Realtà.

La «visione» della Realtà Assoluta è riservata tuttavia ai Bodhisattva che hanno raggiunto la decima bhûmi (terra) e ai Buddha dei diversi kalpa.

Il dolore esistenziale, duhkha, è la conseguenza della stoltezza, di quell’impulso cieco che spinge ad aggrapparsi a cose e traguardi inconsistenti. Nirvâna e samsâra non sono luoghi fisici, né realtà contrapposte all’interno dell’universo: sono possibilità implicite nella mente. La mente genera la sofferenza, così come, allorché è purificata dagli âsrava, produce beatitudine.

Il misticismo Mahâyâna abbandona la contrapposizione dualistica di nirvâna e samsâra - caratteristica delle scuole Hînayâna - in quanto tutti i fenomeni esprimono nella loro essenza ultima la natura della Vacuità. Perfino il nirvâna non è più inteso come una realtà in sé contrapposta al samsâra: non c’è nirvâna senza samsâra e viceversa, perché entrambi di per sé sono vuoti di essenza propria. Coincidentia oppositorum: nirvâna è samsâra. La logica non può avallare questo paradosso.

Realtà in sé e fenomeni, in tale prospettiva, indicano un’identità che può essere considerata da due punti di vista differenti: la fenomenicità è il mondo esperito attraverso le forme dell’intelletto e della sensibilità, il vuoto è il fondamento di ciò che si mostra come apparenza. Il rapporto di interdipendenza tra vuoto e forma non può essere oggetto di verifica sul piano empirico, in quanto i fatti dell’esperienza ordinaria presuppongono come fondamento la suddetta relazione. Soltanto nel silenzio del mistico il reale manifesta la sua natura paradossale: ogni sforzo tendente alla dimostrazione razionale, infine, rivela la sua vanità.

Questo il motivo che induce Nâgârjuna a confutare, mediante la sua dialettica, tutte le opinioni metafisiche e perfino le interpretazioni convenzionali del Dharma del Buddha. Il messaggio definitivo dello Svegliato non può essere comunicato attraverso parole. Tutto ciò che la tradizione tramanda come Discorsi del Buddha costituisce soltanto un «abile mezzo» (upâya-kausalya) che il Bodhisattva utilizza per condurre gradualmente tutti gli esseri al nirvâna. La verità ultima (paramârtha) è il superamento di tutte le concezioni fondate sull’analisi intellettuale: «La Vacuità - han detto i vittoriosi - è eliminazione di tutte le opinioni».

Candrakîrti - uno tra i maggiori rappresentanti della scuola Mâdhyamika - commenta il suddetto enunciato con le seguenti parole:

La Vacuità è l’eliminazione di tutte le illusioni provocate dalle opinioni. La cessazione di queste illusioni non è, s’intende, un’entità a sé stante. A coloro che credono che la Vacuità stessa sia una cosa reale, non c’è, per noi, modo alcuno di rispondere. Essi non potranno mai raggiungere la liberazione che, secondo il nostro insegnamento, richiede appunto l’eliminazione di ogni costruzione mentale.

A questo punto, l’insegnamento mediante «il silenzio», che Nâgârjuna esalta nei versi citati all’inizio, svela il suo autentico significato. La Verità è al di là delle parole e dei concetti: ciò che trascende essere e non essere non sottostà ad alcuna definizione logica. L’uomo che perviene a questa certezza adopera il linguaggio soltanto per le esigenze pratiche e per la comunicazione ordinaria, ma rinuncia a ogni pretesa di comunicare ciò che non può essere detto.

Nel suo Tractatus logico-philosophicus, Wittgenstein conclude la sua analisi relativa al significato delle proposizioni logiche, affermando:

Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse - su di esse - oltre esse.

(Egli deve per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito).

Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

La metafora della scala da buttar via rimanda inevitabilmente al «discorso della zattera», pronunciato dal Buddha. Perfino l’insegnamento ha soltanto un uso pratico, come una zattera per traghettare il guado di un fiume: ottenuto lo scopo, la zattera va abbandonata. Le parole sono come la «zattera», rappresentano soltanto una «segnaletica stradale» che indica una meta: il traguardo non coincide con i «cartelli segnaletici». Liberarsi dal potere accattivante delle parole costituisce l’ultima tappa del viaggio. Infine, qualunque discorso perde la sua funzione semantica. Adesso, non rimane altro che contemplare il «sogno» della mâyâ riflesso nelle limpide acque di un lago di montagna.


 

9

SOLITUDINE TERAPEUTICA

Pochi sono fra gli uomini quelli che attraversano; tutti gli altri corrono invece lungo la riva.
Quelli che si conformano alla ben annunciata Dottrina andranno oltre il regno della morte difficile da attraversare.
Abbandonata l’oscurità coltivi il saggio la luce; abbandoni la casa per la vita senza casa, per quella solitudine difficile da amare.
Là cerchi egli diletto; abbandonati i piaceri, senza nulla possedere, mondi il saggio se stesso dalle impurità della mente.

Allorché una dottrina, la cui originaria divulgazione perseguiva lo scopo di emancipare l’uomo da ogni forma di dipendenza mondana, assume le caratteristiche di religione istituzionalizzata, non può che verificarsi un progressivo depauperamento dello spirito che aveva ispirato il messaggio iniziale. Ciò è inevitabile nel momento in cui un sentiero spirituale viene conformato alle istanze della società, per diventare mera credenza collettiva, condivisa da una comunità le cui aspirazioni riflettono i valori tipici di uno specifico contesto socio-culturale. Nel caso del buddhismo, tale processo di trasformazione degli ideali primitivi cominciò a verificarsi ai tempi dell’imperatore Ashoka, artefice di una diffusione del Dharma caratterizzata dalla volontà di adeguare l’insegnamento del Buddha alle istanze della società indiana. L’opera di Ashoka potrebbe essere paragonata, in qualche misura, a quella attuata - nell’àmbito del cristianesimo - dall’imperatore Costantino; infatti, entrambi i sovrani sfruttarono la grande forza insita in una dottrina spirituale per finalità politico-sociali, sostanzialmente estranee ai veri scopi dell’insegnamento diffuso dal Buddha e da Gesù. Pertanto, lo spirito evangelico del cristianesimo primitivo andò perduto, a tutto vantaggio di una gerarchia ecclesiastica funzionale al modello sociale dominante, mentre l’impronta decisamente libertaria del Dharma buddhista venne ridimensionata, attraverso la priorità accordata a istituzioni monastiche, a rituali e a tutti quegli aspetti devozionali tipici di ogni religione di massa.

Se, fortunatamente, nella storia del buddhismo mancarono le scomuniche nei riguardi dell’eresia e le condanne dei dissidenti - come si verificò nel caso del cristianesimo - bisogna riconoscere, tuttavia, che le dispute dottrinali, l’autorità crescente dei grandi monasteri, le speculazioni astratte relative a problemi metafisici finirono spesso col prevalere sulle caratteristiche fondamentali di una dottrina che mirava soprattutto a rendere l’uomo libero da ogni forma di dipendenza e di attaccamento mondano.

Nessuna società può tollerare una reale autonomia degli individui, in quanto la libertà del singolo viene vista come minaccia alle istituzioni preposte al mantenimento delle regole vigenti, le quali spesso hanno lo scopo di inculcare uno spirito gregario e una supina accettazione dell’ordine costituito. Il principe Siddharta, abbandonando la reggia paterna, si avviò verso un sentiero caratterizzato dal netto rifiuto di ruoli sociali e di legami familiari, quali forme tipiche di dipendenza dell’individuo dalle istituzioni. Il padre di Siddharta, Shuddhodana, al contrario, incarnava la «legge», cioè l’insieme di norme che devono garantire il funzionamento e la conservazione di uno specifico assetto politico-istituzionale. Il conflitto tra Siddharta e suo padre assume, dunque, valore emblematico, in quanto esprime, in forma simbolica, la radicale antitesi tra le istanze di libertà dell’uomo che vuole sfuggire a ogni illusione collettiva e gli scopi della vita associata, garantiti da uno specifico ordine istituzionale.

Siddharta, come ogni fanciullo della sua casta, ricevette una educazione mirante allo sviluppo delle qualità necessarie all’espletamento dei suoi futuri compiti di governo; ma, nonostante tale tentativo di plagio messo in atto dalla corte paterna, la sua personalità, predestinata ad altri scopi, si sottrasse al potere vincolante del ruolo sociale, emancipandosi dalle influenze dell’educazione ricevuta.

«Abbandonare la casa», formula tradizionale della scelta monastica, rappresenta - nel buddhismo - non soltanto recisione dei legami familiari, bensì radicale libertà dalle forme di condizionamento psicologico derivanti dal processo formativo della personalità nel contesto del gruppo familiare e sociale. L’educazione, infatti, mira all’adattamento dell’individuo ai mutevoli modelli di società: senza tale trasmissione di codici di comportamento e di valori collettivamente riconosciuti, nessuna società potrebbe perpetuare se stessa. In fondo, alla società, a prescindere dallo specifico sistema, interessa soltanto il fatto che l’individuo possa integrarsi nel modello dominante, in relazione alle specifiche capacità o, talvolta, in base al ruolo svolto dal gruppo sociale di appartenenza nel contesto politico-economico. In altri termini, si può affermare che a nessun tipo di società sta realmente a cuore l’effettiva libertà dell’uomo, dal momento che una personalità emancipata dalle opinioni collettive e da ogni «credo» religioso o laico che sia, in fondo risulterebbe scomoda per la stabilità di sistemi il cui funzionamento è assicurato, tra l’altro, dalla condivisione di valori e di credenze, giustificati da illusioni collettive.

La fuga notturna di Siddharta dalla reggia paterna rappresenta inequivocabilmente un atto di ribellione nei confronti di norme convenzionali preposte alla conservazione dell’ordinamento sociale. Il primo atto, indicante la scelta di un sentiero di libertà, si configura quindi come trasgressione e volontà di opporsi alle regole codificate, ai valori condivisi dalla collettività, alla sottomissione derivante dall’accettazione di ruoli che ogni società deve imporre per garantire il proprio funzionamento. Siddharta, dunque, fugge nella foresta, cioè lontano dal consorzio civile e dallo spazio «recintato» dalle convenzioni della vita associata, perché soltanto là, nella solitudine silvestre, egli può incontrare altri uomini alla ricerca della libertà spirituale. Le città, i villaggi, i borghi sono sempre luoghi di incatenamento al samsâra, mentre Siddharta è cosciente del fatto che la vera libertà dell’uomo può nascere soltanto mediante una rottura radicale con i legami derivanti dal bisogno di trovare sostegno nelle false sicurezze offerte dalla vita sociale. Ruoli, famiglia, ricchezze, potere, rappresentano per Siddharta «premi di consolazione» assegnati dalla società ai «perdenti», a coloro, cioè, che hanno rinunciato a conseguire il vero scopo della vita: la libertà assoluta. Bisogna riconoscere, tuttavia, che i «perdenti» costituiscono la grande maggioranza dell’umanità e, di conseguenza, qualunque modello sociale è organizzato in funzione dei loro interessi e dei loro timori.

Il principe Siddharta, al contrario, impersona colui che riesce a sganciarsi dalle dipendenze; rappresenta, quindi, l’individuo capace di ravvisare, al di là degli allettanti richiami della vita sociale, la dolorosa condizione di schiavitù nella quale si dibatte l’uomo imprigionato in una «ruota» di innumerevoli rinascite, caratterizzate da molteplici generi di sofferenza. Rinunciare al samsâra implica, quindi, capacità di saper dire «no» alle seduzioni del mondo: la sicurezza sociale, il prestigio, la ricchezza, gli affetti familiari, o altro. Il «sentiero» del Buddha prende l’avvio da una serie di «no»: agli attaccamenti, alle abitudini di vita, alle avversioni, alle illusioni collettive, ai falsi valori della mondanità.

Si coglie un senso simbolico nella storia di Siddharta: metafora di una condizione esistenziale il cui valore rimane integro anche per l’uomo inserito nell’attuale società occidentale. Il principe Siddharta, infatti, nasce in una famiglia reale e, quindi, la sua sorte naturale sarebbe stata quella di succedere al padre nel governo del regno. Egli non appartiene alla casta brahmanica, dove il figlio eredita dal padre il ministero sacerdotale, ma a quella dell’aristocrazia militare; pertanto, Siddharta riceve il genere di formazione adatto al suo ruolo sociale. Si potrebbe vedere un’analogia con la condizione - nella società attuale - del figlio di un magnate dell’industria educato in funzione della continuità dinastica di un impero economico. Ma Siddharta, nonostante i tre palazzi del «piacere» fatti edificare per lui dal padre per sottrarlo alla visione di qualunque dolore, e malgrado una vita giovanile trascorsa nel lusso e senza alcuna occasione di turbamento, si rivela infine figlio «ribelle» ai voleri del padre. Si potrebbe paragonare, quasi, la scelta di Siddharta a quella del giovane appartenente ad una famiglia dell’alta borghesia di oggi, che preferisce la vita dello hippy piuttosto che quella di manager nell’azienda paterna. Dunque, la storia di Siddharta appare emblematica, in quanto vuole evidenziare il fatto che, sino a quando l’individuo rimarrà vincolato ai valori dell’esistenza mondana, non sarà mai in grado neppure di compiere il primo passo sul «sentiero» verso il Risveglio.

Nella società di oggi, l’educazione tende a rafforzare il senso dell’io, favorendo l’autoidentificazione dell’individuo con il ruolo lavorativo e familiare: il soggetto, cioè, finisce per attribuirsi un’identità personale, mediante un’immagine di sé costruita attraverso la progressiva integrazione di nuclei della psiche derivanti da esperienze interpersonali radicate nell’infanzia e nell’adolescenza, e il loro ulteriore rafforzamento attraverso le funzioni svolte nell’àmbito lavorativo e nella sfera dei rapporti affettivi. Tale immagine di sé sostiene l’illusione di una sostanzialità dell’io, dal momento che l’individuo, tra l’altro, trova conferma della propria identità nel riconoscimento sociale derivante dal ruolo. Allorché, quindi, Siddharta si spoglia dei suoi sfarzosi abiti principeschi, in realtà, tramite tale atto, si denuda di un’identità sociale, che era stato costretto a «indossare» sino a quel momento, per andare alla ricerca del suo vero sé. Ciò vale anche per l’uomo di oggi, dato che la personalità di ciascuno è una maschera che la società ci ha imposto sin dall’infanzia. Aspirare alla «liberazione» implica, in primo luogo, essere disposti a gettare la maschera sociale per incamminarsi verso un percorso di ricerca della propria autentica «natura». Soltanto in tal modo l’uomo può sperare di riuscire a liberare la mente da predisposizioni negative, derivanti dal karma e dai condizionamenti sociali volti a rafforzare l’attaccamento al samsâra.

La via del nirvâna è una strada da percorrere alleggerendosi, ad ogni passo, di qualche fardello addossato sulle spalle dell’individuo socialmente condizionato. Si procede, dunque, lasciando sempre, lungo la via, qualcosa: prestigio, beni materiali, legami sentimentali o altro. Si va innanzi deponendo gradualmente tutti i pesi che sino a quel punto hanno intralciato il cammino verso la meta.

La vita in società tende a favorire un processo di accumulazione di qualcosa; si cerca sempre di ottenere un aumento di ciò che si possiede e di aggiungere quello che viene percepito come mancanza: successo, denaro, coniuge, figli, una nuova casa, vacanze e così via. La via di «liberazione» è esattamente il percorso opposto: si cerca di «togliere» di continuo il superfluo, sino a quando non si avrà coscienza del fatto che tutto ciò che era stato accumulato in passato costituiva soltanto la materializzazione tangibile di una serie di dipendenze assolutamente nocive. A tal punto, finalmente, si comincia a respirare aria di libertà: si avverte il sollievo derivante dalla sensazione di non essere più imprigionati in quello spazio ristretto dove ogni nostro movimento non avrebbe potuto andare oltre la lunghezza delle catene che ci legavano. È proprio questo l’inizio di un’esistenza autenticamente umana: quella precedente, in fondo, rappresentava soltanto un livello appena un po’ più su di quello animale.

La spiritualità indiana interpreta il senso della vita come tendenza alla «liberazione da»; cioè aspirazione verso la non dipendenza, desiderio di affrancamento da ogni legame. Ogni altra finalità dell’esistenza viene considerata di valore relativo e contingente; in fondo, si tratta di un vano dispendio di energie che avrebbero potuto essere impiegate per finalità più autenticamente umane.

L’insegnamento del Buddha è contenuto interamente nell’assunto di una possibile liberazione da ogni dipendenza, dato che la sofferenza scaturisce dall’essere vincolati a qualcosa o a qualcuno. Un messaggio di libertà, dunque, troppo incompatibile con le istanze sociali e con le innumerevoli forme di schiavitù che ogni società genera nella vita degli individui per mantenerli in uno stato di soggezione. L’invito del Buddha, rivolto a coloro che aspirano alla liberazione - «lascia la casa» - significa: «svìncolati» da tutti i legami che hai contratto nella vita sociale e familiare; «purifica» la tua mente dai veleni che la contaminano, anche a causa dei nocivi influssi della società.

Non risplende, Anando, un monaco amico della società, amante della società, innamorato della società, amico della compagnia, amante della compagnia, compiaciuto della compagnia. Invero, Anando, che un monaco amico della società, amante della società, innamorato della società, amico della compagnia, amante della compagnia, compiaciuto della compagnia; ciò che è piacere della rinunzia, piacere della solitudine, piacere della quiete, piacere del Risveglio; che di tale piacere egli divenga possessore agevolmente, senza difficoltà, senza pena: ciò non è possibile.

È opportuno, a tal punto, ricordare alcune caratteristiche della società brahmanica ai tempi del Buddha, per valutare in modo più esatto le parole sopra riportate.

Una società rigidamente strutturata, mediante il sistema delle caste: dove i chandala, i fuoricasta, venivano considerati più impuri di qualunque animale; dove il valore dell’individuo era predeterminato dalla casta di appartenenza; dove le donne dovevano immolarsi sulla pira del marito morto, in quanto lo scopo della loro esistenza era giunto a termine; dove lo shûdra (il servo) che avesse involontariamente ascoltato qualche verso dei Veda sarebbe andato incontro alla colata di piombo fuso dentro le orecchie e così via.

Il principe Siddharta, dunque, ebbe il coraggio non soltanto di rifiutare il suo ruolo di governante, cioè di complice di questa barbarie, ma perfino di accogliere nel Sangha fuoricasta, briganti e donne: non avrebbe potuto esserci provocazione più radicale nei riguardi dell’ordinamento della società indiana. Con ciò non si vuole affermare affatto che Siddharta fosse un rivoluzionario o un riformatore, ma si cerca soltanto di evidenziare l’atteggiamento di rottura con la tradizione.

Certamente i valori storici hanno carattere relativo e mutevole, ma ciò che più conta non è il fatto di stabilire quali valori socio-culturali siano preferibili - in quanto tale scelta è sempre opinabile - bensì la posizione assunta dal Buddha nei riguardi dell’esistenza nella dimensione sociale.

Il Sangha buddhista della tradizione antica rifiutò sempre, e in modo drastico, due aspetti essenziali per la continuità storica di qualsiasi modello di società: la vita familiare e il lavoro. Basti pensare che, ancor oggi, la psicanalisi indica, come criteri di valutazione del normale adattamento dell’individuo alla realtà, la capacità di stabilire legami affettivi e di svolgere una qualsiasi attività lavorativa. In base a tali parametri di «normalità», l’intero Sangha buddhista, buona parte di yogin e di maestri della tradizione indiana, i maggiori Siddha del tantrismo - come dire, alcuni milioni di individui - avrebbero dovuto essere curati per nevrosi o psicosi.

L’adattamento alla società rappresenta la forma assunta, attraverso l’evoluzione culturale dell’umanità, da quegli istinti che, nell’animale, si manifestano come capacità di risposta adeguata all’ambiente naturale. In entrambi i casi, il processo di adattamento ambientale è un meccanismo biologico, volto a garantire la sopravvivenza delle specie viventi. Tale scopo riguarda la conservazione della vita, ma non implica alcuna finalità in sé del perpetuarsi ciclico dell’esistenza.

Nel caso del genere umano, ogni società rappresenta un modello organizzato in funzione della sopravvivenza della collettività e relativo alle mutevoli circostanze storiche. Le finalità di qualunque società, per quanto ampliate attraverso l’evoluzione culturale, si limitano a perpetuare l’esistenza della specie. In tal senso, ogni società è espressione del ciclico avvicendarsi della «ruota» del samsâra, nonostante il mutamento delle condizioni politico-economiche e culturali.

L’energia che alimenta l’intero processo di riproduzione della vita è rappresentata - secondo il buddhismo - da bhava-tanhâ, sete di esistenza, cioè dall’istinto di autoconservazione presente in ogni essere vivente. Tutto ciò che vive tende a salvaguardare la propria esistenza, in modo consapevole ovvero inconscio: è questa la forza che fa girare la «ruota della vita». Il senso dell’io e l’attaccamento possessivo a beni o persone scaturiscono da tale energia, la quale si manifesta come insieme di pulsioni che assicura la continuità della vita: mezzi di sussistenza e legami di gruppo. Dal comportamento dei felini che marcano il loro territorio con l’urina, al fine di evitare invasioni di altri predatori, a quello delle società tribali, le quali delimitano lo spazio intorno al villaggio, riservato alla caccia e al reperimento dei prodotti necessari alla sopravvivenza, al caveau blindato delle Banche Centrali, dove vengono custodite le riserve auree degli Stati, il principio essenziale di tutela della continuità della vita rimane, in fondo, identico.

L’insegnamento del Buddha rappresenta lo smascheramento di tutte le illusioni che celano la vera natura dei suddetti meccanismi: un cieco attaccamento ad una realtà dolorosa e impermanente. Tuttavia, alla maggioranza del genere umano interessa solo il valore delle verità empiriche, di quelle verità pragmatiche, cioè, che garantiscono risposte più adeguate alle istanze di conservazione e di rafforzamento delle pulsioni che legano all’esistenza samsârica. In tal senso, le verità scientifiche si configurano come sbocco evolutivo di un istinto gregario mirante al ciclico perpetuarsi della specie umana. Controllo delle risorse materiali e delle energie fisiche, maggiore produttività esprimentesi in aumento di beni di consumo, condizioni di vita più agevoli in senso materiale, maggiore longevità e trattamento terapeutico di molte malattie, servizi più efficienti e spazi riservati al godimento nel tempo libero: tutto ciò indica il progetto di un samsâra abbastanza accettabile; insomma una vita, tutto sommato, niente male, da conservare il più a lungo possibile.

La Verità del Buddha appare, dunque, in stridente contrasto con le aspettative e le speranze della grande maggioranza dell’umanità, la quale aspira, in fondo, ad un samsâra con tutti i conforts della tecnologia e del consumismo di massa. Sottrarsi ai condizionamenti socio-culturali non è mai stata un’impresa di facile realizzazione e, oggi, in un mondo controllato dalle tecnologie e dall’informatica, sfuggire alle innumerevoli forme di dipendenza, alimentate da una società consumistica, appare particolarmente arduo. Si richiede, in primo luogo, una consapevolezza in grado di evidenziare il fatto che la formazione della personalità dipende non solo da predisposizioni, ma anche da un processo di condizionamento sociale. L’individuo conformato a certi canoni di acculturazione viene plasmato in una forma che se, da un lato, gli permette di elevarsi al di sopra della vita animale, dall’altro, lo vincola alle necessità di adattamento alle istanze collettive, le quali finiscono in molti casi per circoscrivere a uno spazio ridotto le potenzialità della sua condotta e del suo modo di pensare. La libertà di scelta, a tal punto, appare piuttosto illusoria, in quanto viene condizionata dai molteplici fattori che caratterizzano uno specifico modello di società. Nella maggioranza delle situazioni, l’accettazione di una determinata condizione di vita appare più conseguenza di fattori incontrollabili che non risultato di un’autentica scelta esistenziale. Bene-male, vero-falso, bello-brutto, utile-nocivo, sono antitesi attraverso le quali vengono definiti i valori convenzionali di ogni società: rappresentano, cioè, i criteri di valutazione dell’esperienza che debbono essere introiettati da parte di ogni individuo attraverso il processo educativo. I genitori sono i primi mediatori di tale trasmissione culturale, mediante la quale la società difende la stabilità di un particolare modello di vita collettiva. Si viene al mondo in uno stato di avidyâ, ma il processo educativo, in molte circostanze, finisce per conferire maggior forza all’ignoranza innata e alle altre contaminazioni mentali.

Si muove una certa critica all’interpretazione del Dharma proposto dalla tradizione Theravâda, in quanto si ritiene che la prospettiva del buddhismo Hînayâna implichi un atteggiamento di fuga dal mondo e di svalutazione della vita sociale. Da tale punto di vista, la via di liberazione, per l’uomo, è rappresentata dalla rinuncia a ogni coinvolgimento di tipo mondano e dal distacco da tutto ciò che ci incatena mediante il desiderio, l’avversione, l’attaccamento, l’ambizione.

I discorsi contenuti nel Sûtta-Pitaka - forse la più antica raccolta degli insegnamenti del Buddha - non lasciano adito a dubbi: il messaggio, ripetutamente trasmesso, evidenzia proprio l’idea di un radicale distacco da ogni interesse mondano. La via di salvezza, in tale ottica, è ravvisata nell’abbandono di tutte le condizioni che vincolano ad una realtà dolorosa. I legami sono rappresentati, in primo luogo, dalle diverse forme di dipendenza dell’individuo: valori sociali e varie finalità perseguite da coloro che non hanno una retta visione della vita. Non v’è aspetto significativo della realtà sociale che non venga smascherato, nella sua essenziale falsità: successo, potere, ricchezza, affetti familiari, amicizia, affermazione nel lavoro, vantaggi economici, bellezza fisica, sapere speculativo o scientifico, politica e così via. Sembrerebbe pertanto che nessuna delle motivazioni a fondamento della condotta della grande maggioranza degli individui venga riconosciuta come degna di qualche considerazione positiva.

La tradizione Hînayâna - conservata oggi soltanto dai Theravâda - rappresenta certo un’interpretazione del Dharma poco praticabile per l’uomo inserito in un modello sociale caratterizzato dalla tendenza a lasciare scarso spazio all’autonomia dell’individuo. La società occidentale, in modo particolare, si regge su un sistema politico-economico e su valori culturali che implicano una quasi totale dipendenza dell’individuo dalla collettività. L’idea di un radicale distacco appare, di conseguenza, poco realizzabile in un contesto dove l’individuo, sin dalla nascita, viene conformato alle istanze della vita collettiva. Famiglia, scuola, mass-media, spettacoli, relazioni sociali o di gruppo rendono l’individuo del tutto incapace di sottrarsi a tali forme di condizionamento psicologico ed esistenziale. La solitudine, in una società massificata, viene percepita dal singolo come condizione di emarginazione, di frustrazione o di fallimento esistenziale.

Al contrario, nella tradizione più antica del buddhismo, la solitudine si configurava come stato ideale per raggiungere autonomia, consapevolezza, quiete mentale, controllo delle pulsioni nocive. C’è una forte dose di anacoretismo nell’insegnamento delle più antiche scuole del buddhismo: il monaco, prima che si affermasse il modello sedentario dei grandi monasteri, era un asceta itinerante, legato al Sangha soltanto dal rapporto di adesione alle norme di condotta previste dal Vinaya e dalla fiducia nell’insegnamento del Buddha. Anche i legami tra le diverse comunità monastiche erano inizialmente occasionali e sporadici, dato che la vita del monaco consisteva in una forma di impegno totale nei confronti di un «sentiero» implicante continua riflessione e prolungata meditazione, volte a purificare la mente.

L’impronta primitiva del buddhismo non fu quella di una religione organizzata e sostenuta dalla devozione di un grande numero di seguaci laici, ma piuttosto quella di un percorso spirituale che avrebbe dovuto condurre individui in grado di troncare ogni vincolo di appartenenza sociale verso una condizione di totale libertà: il nirvâna.

La pressione esercitata dai laici per ottenere una forma di spiritualità più adeguata alle possibilità e ai bisogni di coloro che vivevano nella dimensione mondana finì per produrre le prime spaccature all’interno del Sangha: i Mahâsanghika divennero i fautori di un buddhismo più conciliante con le esigenze della società. Le istanze delle masse, a poco a poco, cominciarono ad avere il sopravvento sulla «purezza» del messaggio originario del Buddha, fino a trasformarlo in religione istituzionalizzata.

A questo punto, la fede cieca di un numero sempre crescente di devoti laici subentrò alla verifica pratica del valore dell’insegnamento del Buddha; i rituali e le altre pratiche formali di religiosità popolare ebbero il sopravvento sulla rigida autodisciplina e sul bisogno di «liberazione» dei primi seguaci del Dharma; colui che si era presentato semplicemente come «Maestro», capace di indicare una via di emancipazione dalla sofferenza, venne divinizzato per soddisfare le istanze devozionali dei fedeli. In altri termini, le ragioni della società, organizzata in funzione della sottomissione degli individui, s’imposero, a discapito dell’esigenza di libertà espressa nel messaggio originario. La pratica del «sentiero» si trasformò in conformistica adesione ad una moralità che, in fondo, finiva per rafforzare le tendenze alla passiva accettazione dell’ordine costituito, mentre l’aspirazione ad abbandonare il samsâra veniva rinviata a tempi più maturi, in termini di cronologia scandita da kalpa, cercando nel frattempo di rendere la vita mondana più sopportabile e più compatibile con le istanze sociali, nella speranza di una rinascita più favorevole quanto a ricchezza, salute, buona famiglia e longevità.

Il processo di graduale trasformazione delle caratteristiche originarie del Dharma buddhista trovò infine espressione nelle diverse scuole del Mahâyâna, le quali sancirono la definitiva metamorfosi di un «sentiero» riservato a pochi eletti in religione di massa, conformata alle esigenze e ai valori delle diverse culture dei popoli asiatici: India, Tibet, Cina, Giappone. Tuttavia, perfino nei paesi dell’Asia meridionale, dove c’era stata una prevalenza delle scuole Hînayâna, non mancò una sostanziale trasformazione in senso devozionale del Dharma del Buddha, per renderlo compatibile con i bisogni delle masse e con gli interessi del potere politico. L’espressione più radicale di questo mutamento della Dottrina, tendente a generare una religione devozionale adatta alle masse, fu il culto di Amitabha in Cina e Giappone: in tale forma di fideismo assoluto, animato dal desiderio di una rinascita nel paradiso di Sukhâvatî, l’insegnamento del Buddha si ridusse alla pura e semplice recitazione continua del nome di Amitâbha (in giapponese: Namu Amida-butsu). A tal punto, non si comprende più che cosa sia rimasto del Dharma trasmesso dal Buddha: lo snaturamento è talmente accentuato da rendere incomprensibile il fatto che la suddetta scuola possa essere annoverata tra quelle di tradizione buddhista.

Con la crescente divulgazione del Dharma in Occidente si avvertono i segni di un ulteriore processo di «evaporazione» dello «spirito» dell’insegnamento del Buddha: gli indizi sono alquanto eloquenti, perché evidenziano la tendenza a diffondere un nuovo «credo» religioso in concorrenza con le altre tradizioni.

Invero, se proprio c’è qualcosa di cui l’Occidente non avverte affatto il bisogno, è una nuova «chiesa» organizzata, con rituali, fedeli, preghiere e sacerdoti investiti di autorità carismatica. La società occidentale avrebbe urgente bisogno, piuttosto, di «spiriti liberi», di individui indipendenti da un’omologazione culturale che rischia di trasformare l’uomo in una mera macchina molto efficiente. L’invito del Buddha è anche quello di svincolarsi dalle diverse opinioni accreditate dalle convenzioni sociali e dalla cultura dominante. Una delle più forti illusioni da contrastare è quella derivante dalla fede nelle opinioni condivise dalla maggioranza: l’opinione pubblica non è altro che una delle tante espressioni dell’avidyâ. Basterebbe un rapido sguardo alla storia delle credenze collettive o delle ideologie di massa per rendersi conto che buona parte dei malanni dell’umanità è derivata da tali fedi cieche. Oggi perfino la scienza ha assunto un atteggiamento fideistico in merito a princìpi che hanno soltanto un valore relativo, ma vengono conclamati come qualcosa di assoluto e di definitivo.

Di certo, il singolo che volesse opporsi alle tendenze dominanti di un’epoca storica - come la nostra - non potrebbe, infine, non riconoscere la propria solitudine esistenziale. Eppure, in tale solitudine non si avverte affatto amarezza, né mancanza di qualcosa di importante; anzi, c’è senso di libertà, si afferma in modo deciso uno stato di emancipazione da tutte quelle forme di schiavitù che gravano sull’uomo massificato della società contemporanea. Osservare gli eventi della vita interponendo una distanza emotiva, quasi una barriera protettiva, consente di percepire l’essenziale Vacuità di ogni cosa: la natura evanescente di un io che vuole imporre le sue pretese illusorie. Allora, la vita fluisce come se nessuno fosse presente, assumendo la caratteristica di processo alimentato solo dalla forza di un karma che non ha ancora esaurito le sue energie.

Ogni progettualità svanisce, allorché tutte le aspirazioni appaiono insensate e il desiderio viene depauperato della sua energia. Forse, nirvâna è proprio questo stato di confine tra essere e nulla: qui, bene, male, guadagno, perdita, passato, futuro hanno perduto qualunque significato, in quanto tutto ciò da cui ci si è distaccati è stato riconosciuto nella sua essenziale vanità. A tal punto, il mondo non esercita più alcuna attrattiva, non c’è più nulla per cui si debba lottare o di cui si abbia timore, dato che l’esistenza ha svelato il suo volto di semplice illusione che ci ha incantato troppo a lungo.

Il mondo fenomenico, in quanto evanescente visione di un sogno ad occhi aperti, assume ora una mistica bellezza, derivante dallo sguardo purificato di chi osserva ogni cosa senza alcuna volontà di possesso, senza desiderare, né criticare alcunché: una visione che scaturisce da un atteggiamento mentale improntato al lasciar essere le apparenze, senza alcuna pretesa di trasformarle né di subirne il fascino. Il mondo è ancora lì, davanti ai nostri occhi, non è affatto svanito, ma non esercita più quel potere ammaliante che un tempo ci aveva privati di ogni vera libertà, perché è mutato il nostro sguardo, non più contaminato dal senso di autoidentificazione con un io ormai messo da parte, in quanto strumento inadeguato alla pura contemplazione della realtà.

Nella società contemporanea si è smarrita la capacità di saper semplicemente contemplare il mondo, senza alcuna pretesa di interferire di continuo nell’accadere degli eventi: l’uomo vuole sempre trasformare le cose, modificare l’esistenza in ogni sua espressione, come se nulla fosse perfetto, come se il divenire esprimesse una radicale carenza da dover colmare di continuo con la spasmodica volontà di intervenire su ciò che appare inappagante. È proprio questa la radice della sofferenza umana: desiderare che le cose non siano come sono (Tathatâ).

C’è un celebre detto dello Zen che afferma:

Seduto quietamente,
senza far nulla.
Arriva la primavera
e l’erba cresce da sola.

Tale atteggiamento di serena contemplazione dell’accadere può sembrare inerzia, una sterile passività che soggiace alla necessità degli eventi. Ma si tratta di altro: è distaccata consapevolezza di un ordine fenomenico che muta in base alle proprie leggi; cosicché ogni sforzo volto ad alterare l’armonia naturale degli eventi, il più delle volte si traduce in squilibrio delle relazioni che collegano ogni cosa a tutto il resto e, di conseguenza, nella produzione di maggiore sofferenza.

Ciò che, nel contesto della tradizione occidentale, chiamiamo natura, in una prospettiva assoluta, non è altro che «sogno» da contemplare alla luce di una consapevolezza definita, nella tradizione buddhista, Risveglio. Raggiungere l’Illuminazione significa osservare la personalità fenomenica quale elemento costitutivo del «sogno», riconoscendo la vera realtà mediante la consapevolezza generata dalla mente liberata dall’illusione.

Il senso dell’io, l’autoidentificazione, cioè, con l’individualità empirica, rappresenta l’ostacolo alla visione della Verità, la quale subentra allorché l’io viene trasceso. Sino a quando, dunque, si attribuirà valore sostanziale alla personalità, si vivrà in conflitto con la vera realtà e proprio da tale contrasto scaturisce la sofferenza.

«Risvegliarsi» comporta, altresì, l’arte di saper vivere nella solitudine di un mondo dove quasi tutti sono ancora «addormentati». C’è, a tal proposito, un bellissimo verso della Bhagavad-gîtâ che suona:

Quando per tutti gli esseri è notte,
allora è sveglio l’asceta padrone di sé.
Quando gli esseri sono svegli,
è notte per il veggente silenzioso.

Con ciò si vuole evidenziare il fatto che gli «illuminati» e i «dormienti» vivono in dimensioni differenti come il giorno e la notte, la luce e le tenebre. La percezione della realtà da parte dei risvegliati e dei dormienti è talmente diversa che, allorché essi s’incontrano, non riescono a parlare di esperienze comuni. La separazione tra i diversi individui non concerne soltanto la realtà spazio-temporale, ma anche l’evoluzione della coscienza, la quale determina stadi differenti del percorso interiore verso il Risveglio.

Spesso la voce di chi è andato molto innanzi nel «sentiero» non è più udibile da parte di coloro che sono rimasti indietro: distanziare gli altri, lungo il tragitto, implica inevitabilmente rimanere soli. Tuttavia la solitudine non rappresenta affatto un male, in quanto in essa possiamo trovare la vera libertà. Montaigne, nei suoi Saggi, scriveva:

Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, sicuro, in cui possiamo collocare la nostra vera libertà e il più importante ritiro è la solitudine.

Perfino nella psicologia contemporanea c’è stata, da parte di alcuni analisti, una rivalutazione della capacità di stare con se stessi, senza dipendere dalle relazioni interpersonali. Lo psichiatra inglese, di orientamento junghiano, Anthony Storr, nel suo saggio Solitudine, scrive:

L’individuo creativo è sempre intento a scoprire se stesso, a rimodellare la propria identità, a trovare significato nell’universo per mezzo di quello che crea. Questo è per lui un prezioso processo integrativo che, come la meditazione o la preghiera, ha poco a che fare con gli altri; ma che ha una sua validità autonoma. I suoi momenti più significativi sono quelli in cui giunge a una nuova intuizione o fa qualche nuova scoperta; e questi momenti arrivano molto spesso, se non sempre, quando è solo.

Naturalmente, questa capacità di ridurre al massimo il rapporto con gli altri è vista, sotto il profilo psicologico, come una caratteristica riservata agli individui introversi e creativi, perché, nella grande maggioranza dei casi, i rapporti affettivi, radicati nella prima infanzia, rappresentano un condizionamento molto marcato nella direzione opposta: il bisogno di stabilire intense relazioni interpersonali.

L’insegnamento del Buddha non si pone in contrasto con le conclusioni cui è pervenuta, attraverso l’osservazione empirica, la psicologia delle relazioni oggettuali, in quanto riconosce il grande potere di condizionamento emozionale dei rapporti familiari e interpersonali in genere. Il tirocinio di trasformazione dell’individuo, tendente all’emancipazione da tali dipendenze affettive, muove proprio dal riconoscimento del fatto che la famiglia e l’educazione costituiscono fattori di primaria importanza nella formazione psicologica; ma, proprio per tale ragione, appare opportuno un processo di decondizionamento, in grado di sottrarre l’individuo alle diverse forme di dipendenza emozionale che lo vincolano in modo tenace al rapporto con altre persone significative.

Tra l’altro, per il monaco, il senso di appartenenza al Sangha, anche nei casi di lunghi periodi di totale solitudine, rappresenta una compensazione della completa mancanza di rapporti familiari e sociali. Proprio per questo motivo, col tempo, il Sangha acquistò sempre maggiore importanza nella tradizione buddhista, dato che esso garantiva ai monaci una relazione interpersonale compensatoria delle carenze affettive derivanti dalla deprivazione di altri rapporti di tipo familiare e sociale.

In particolari condizioni, la solitudine può rappresentare il miglior modo per conoscere e controllare i processi psichici dai quali deriva la sofferenza e per trovare una perfetta armonia interiore. A tal proposito, Storr scrive:

Saper stare soli è una preziosa risorsa quando ci è necessario cambiare il nostro atteggiamento mentale. Si può verificare infatti, in seguito a radicali mutamenti delle circostanze, la necessità di riconsiderare il significato e l’importanza della nostra esistenza. In una cultura come la nostra, nella quale i rapporti interpersonali vengono generalmente considerati la risposta giusta a ogni problema, è difficile, a volte, riuscire a persuadere i nostri volenterosi protettori che la solitudine può essere una terapia altrettanto valida quanto il sostegno emotivo.

Non c’è dunque nessun sentimento di asocialità patologica nel desiderio di cercare nell’autonomia un equilibrio interiore; anzi, proprio tale scelta favorisce lo sviluppo di una consapevolezza preclusa a chi vive nell’ambiente caotico e coinvolgente delle relazioni sociali. Per tale ragione, in quasi tutti i sentieri spirituali è sempre previsto, come tirocinio di purificazione mentale, un periodo più o meno lungo di completa solitudine dell’aspirante al Risveglio.

Una fase della vita dedita interamente alla riflessione e alla meditazione costituisce un iter necessario per ogni genere di realizzazione spirituale. Senza tale rientro in se stessi è alquanto improbabile che si possano fare molti passi sulla via della liberazione dalla sofferenza, dato che i rapporti interpersonali esercitano una costante influenza, buona o cattiva che sia, sul nostro modo di vivere e di pensare, impedendoci di pervenire ad una più autentica conoscenza di noi stessi e della realtà che ci circonda.

Soprattutto nella società odierna, gli spazi riservati alla pura e semplice contemplazione dell’accadere degli eventi sono molto ridotti, perché l’uomo contemporaneo tende di continuo ad agire in vista di svariati scopi. Il wu-wei della saggezza taoista e il nivritti-mârga della tradizione indiana sembrerebbero atteggiamenti del tutto improponibili all’individuo ormai abituato, sin dall’infanzia, a concepire l’esistenza come costante sforzo per modificare la realtà esterna o per soddisfare desideri e aspirazioni personali.

L’insegnamento del Buddha mira a trasformare la mente, non il mondo esterno, in quanto le condizioni esistenziali positive o negative dipendono innanzitutto dallo stato mentale. Una mente irrequieta, bramosa, impregnata di rabbia o di livore non può che generare un inferno, a prescindere dalle condizioni ambientali. Un certo periodo di isolamento, per sottrarre la mente agli stimoli nocivi che la condizionano, può rappresentare una valida terapia contro le afflizioni mentali.

Nella sua raccolta di riflessioni Ernst Bernhard, psicoterapeuta junghiano, scriveva:

La nevrosi generale, in mezzo a cui siamo costretti a vivere, ci ha infettati e ci infetta continuamente. Poiché essa generalmente si ritiene sana, anche noi sembriamo sani quando partecipiamo a essa e malati là dove in fondo siamo sani. Una vera guarigione individuale richiederebbe un isolamento generale (ovvero un’immunizzazione) di fronte alla nevrosi collettiva, un isolamento che naturalmente la nevrosi collettiva ci imputerebbe a malattia. Ciò che dovremmo fare sarebbe: riconoscere, con totale capovolgimento di valori, che siamo malati, quindi isolamento, per sfuggire alle continue infezioni e risanare interamente in solitudine.

Un fatto è assolutamente certo: tutti i grandi maestri della tradizione buddhista ottennero il Risveglio mediante la meditazione in solitudine. Il Buddha, seduto in meditazione sotto l’albero della Bodhi, rappresenta l’ideale di una condizione che sottrae la mente ad ogni stimolo esterno ed interno.

Uno degli effetti positivi della solitudine è quello di consentire all’individuo, dedito alla meditazione, di sfuggire alla futile chiacchiera sollecitata dalle relazioni sociali. Soprattutto oggi, la mente è letteralmente impregnata di stimoli derivanti da spettacoli, televisione, giornali, telefono, conversazioni banali, opinioni varie; il pensiero non può che riflettere, pertanto, tale deleteria influenza. In fondo, la meditazione ha lo scopo di liberare la mente da una molteplicità di contenuti psichici che deriva, per lo più, da influssi sociali: credenze collettive, bisogni indotti dalla società consumistica, legami sentimentali, aspirazioni illusorie, ecc. Tale pratica di purificazione mentale implica solitudine, in quanto qualsiasi interferenza mondana genererebbe nuove sollecitazioni e nuovi impulsi volti a reagire a situazioni di vario genere.

La calma mentale (shamatha) è il prerequisito indispensabile per riuscire a vedere la realtà senza falsificazioni illusorie (vipashyanâ). D’altra parte, è del tutto improbabile che si possa pacificare la mente continuando a vivere in un contesto sociale come quello attuale, caratterizzato da agitazione, stress, rabbia, aggressività e competizione. Senza un radicale cambiamento delle condizioni concrete di vita, la meditazione non può certo sortire risultati di grande rilievo.

La storia di Bodhidharma, il primo patriarca del buddhismo Ch’an, è piuttosto indicativa in merito, in quanto si narra che egli avrebbe trascorso ben nove anni assorto in meditazione, con il viso rivolto contro un muro, prima di ottenere il Satori.

Bisogna riconoscere che, per la mente ordinaria, una condizione di immobilità e di assenza di stimoli rappresenta quanto di più innaturale si possa concepire. L’uomo comune, infatti, non ama la stasi e il silenzio, perché la sua mente è sempre orientata verso qualche obiettivo da realizzare, ovvero tende di continuo a fantasticare, rimuginando le più svariate idee.

Se si osserva con attenzione lo stato mentale nella sua condizione abitudinaria, si nota un costante movimento di pensieri, di impulsi e di percezioni che indica la natura irrequieta della mente non controllata. Lo scopo della meditazione è proprio quello di calmare il flusso di contenuti psichici e di osservare i fenomeni senza lasciarsi condizionare dalle distorsioni generate da emozioni quali attrazione, repulsione, rabbia, timore, ecc. In tal modo, si produce un atteggiamento mentale volto alla pura consapevolezza dell’accadere e alla continua presenza mentale relativa a ciò che appare «qui ed ora», senza lasciarsi condizionare da associazioni di pensieri che ci proietterebbero verso il passato o verso il futuro.

La pratica meditativa comporta solitudine e scarsi stimoli provenienti dall’ambiente, perché le condizioni abituali della vita sociale impedirebbero il mantenimento di uno stato di vigile attenzione nei confronti di tutto ciò che attraversa la mente. È importante acquisire un metodo di osservazione dei contenuti psichici in grado di consentire uno sguardo distaccato, come se tutto ciò che entra nel campo della coscienza non ci riguardasse affatto.

Imparare a esplorare i contenuti mentali con atteggiamento neutrale permette progressivamente di smascherare il carattere illusorio dell’idea di io, quale entità stabile della vita psichica. La continuità dei contenuti mentali è certamente governata da un principio ordinatore - il karma - ma non implica alcun presupposto di tipo sostanziale concernente l’identità dell’io. Si può dunque affermare che l’attività mentale procede sollecitata dall’energia impressa dal karma individuale; di conseguenza, quanto più ci si impegna in azioni o pensieri che lasciano tracce negative nel continuum mentale, tanto più si accresce lo stato di agitazione, con le relative emozioni perturbanti che ne conseguono. Silenzio e solitudine, in quest’ottica, rappresentano condizioni ideali per conoscere gli stati mentali e per frenare l’impulsività che ci spinge ad agire di continuo. La parola d’ordine è «fermarsi»: per imparare l’arte della pura osservazione. A questo punto, non siamo affatto interessati a modificare ciò che appare; ci rendiamo conto di quanto sia più opportuno lasciare che il divenire proceda secondo il suo corso, senza alcuna pretesa di trasformare la realtà. Ciò che più ci preme è soltanto la purezza del nostro sguardo, non più offuscato da emozioni quali brama, odio, rabbia, orgoglio o altro.

In tal modo, il silenzio assume la caratteristica di condizione interiore non inquinata da potenziali fattori di turbamento generati dall’ambiente: ciò che conta veramente è la condizione di quiete realizzata dentro noi stessi.

Il percorso meditativo culmina nell’abbandono del senso dell’io e di ogni altra illusione relativa alla realtà fenomenica. Solo a questo punto è possibile ristabilire significative relazioni interpersonali motivate, adesso, da un sentimento di compassione nei confronti di coloro che sono afflitti da una sofferenza prodotta da una visione offuscata dalle passioni e dall’avidyâ. È proprio questo il significato del ritorno del principe Siddharta, divenuto ormai il Buddha, nel mondo ordinario: il suo unico scopo era quello di aiutare gli altri a uscire dalla sofferenza.

L’insegnamento del Buddha dà origine a due correnti interpretative diverse che scorrono parallelamente nella storia del buddhismo: le scuole del Hînayâna e quelle del Mahâyâna, mentre il Vajrayâna rappresenta un ulteriore sviluppo del Mahâyâna. I percorsi dei due indirizzi si separano allorché subentra la necessità di definire l’atteggiamento nei confronti del mondo (samsâra) da parte di coloro che sono giunti alla completa purificazione mentale. L’Arhat rappresenta la scelta di colui che abbandona definitivamente ogni coinvolgimento mondano; il Bodhisattva, al contrario, esprime l’ideale di un impegno mirante ad aiutare gli altri a raggiungere il Risveglio. È questa una differenziazione tipica di ogni percorso spirituale: da una parte, l’attivismo di chi vuole salvare il mondo (pravritti-mârga); dall’altra, la posizione distaccata e disinteressata di chi vede una rigida contrapposizione tra samsâra e nirvâna (nivritti-mârga). Ogni tentativo volto a giustificare la superiorità di un indirizzo rispetto all’altro, storicamente rappresentato dalle contrastanti posizioni di scuole sorte per avvalorare le ragioni dei rispettivi punti di vista, infine si rivela del tutto opinabile.

Il motivo che giustifica la scelta di una specifica interpretazione del Dharma va ricercato, in fondo, nella diversità di atteggiamenti mentali, caratterizzati da svalutazione della realtà mondana da parte del Hînayâna, e da una posizione di rivalutazione della vita da parte del Mahâyâna. Il Mahâyâna e, in modo più radicale, il Vajrayâna appaiono correnti più concilianti con il mondo, in quanto assumono una posizione compatibile con le esigenze emotive dell’uomo comune, il quale, il più delle volte, non aspira affatto alla liberazione, bensì ad una vita migliore. La solitudine dell’Arhat incute timore alla maggioranza delle persone, dato che gli istinti di autoconservazione prevalgono su ogni altra considerazione relativa all’essenza insoddisfacente del mondo.

Eppure, perfino un maestro della corrente Mahâyâna, quale Shântideva, scrive: «L’uomo nasce solo e muore solo», alludendo, con queste parole, alla condizione di essenziale solitudine dell’essere umano. Gli altri, in effetti, costituiscono più un’immagine elaborata dalla mente, alla quale ci rapportiamo mediante sentimenti ed emozioni di varia natura - attaccamento, avversione, indifferenza, invidia, rancore - che non persone in grado di tirarci fuori dalla nostra solitudine. In fondo, la relazione con l’altro è un rapporto intrapsichico tra parti del sé, dove il ruolo della persona concreta svolge la funzione di schermo sul quale proiettiamo i nostri bisogni, le nostre insicurezze, la nostra esigenza di amare o di odiare. Quando tali bisogni rivelano la loro reale natura, l’altro può essere considerato più come compagno di strada, che non come individuo in grado di consentirci il superamento del nostro essere confinati in un mondo mentale.

Dalla suddetta prospettiva, l’amore si configura come tentativo di uscire da una radicale condizione di solitudine - ed è questa la potenza del sentimento amoroso - proprio per il fatto che l’individuo percepisce lo stato di separazione dagli altri come sofferenza. Ma l’amore che ci lega provvisoriamente a qualcuno si conclude, in ogni caso, con la conferma di un’essenziale distanza dall’altro: la morte di una persona alla quale si è legati sentimentalmente, ovvero la propria morte attestano l’impossibilità della relazione assoluta alla quale si aspira. Perfino la condizione del feto che vive in simbiosi nel grembo materno rappresenta già un processo di separazione generato dalla vita che si rinnova: la madre e il figlio sono già, sin dal primo momento della gestazione, due entità distinte. Il dolore psicologico del bambino che, nella prima infanzia, scopre di essere un sé separato dalla madre, a cui è attaccato tenacemente, rappresenta una prima espressione della verità di base che governa la vita degli individui. Il Buddha, enunciando la «Prima Nobile Verità», afferma, tra l’altro: «la nascita è dolore…»; infatti la nascita ci getta in un mondo di sofferenza e in una situazione di essenziale solitudine karmica.

La liberazione dalla sofferenza implica il superamento di questa spiacevole percezione di solitudine, la quale svanisce attraverso il riconoscimento di una necessità imposta ad ogni essere vivente: quella di esaurire le potenzialità del karma individuale, dal quale dipende l’esperienza esistenziale. Il karma ci ha generati e l’estinzione dell’energia karmica ci libererà dal dolore.

L’accettazione della condizione di separazione dagli altri è anche la premessa di un percorso che si conclude con il distacco da ciò che abbiamo considerato la nostra intima realtà: il senso dell’io. Anche l’io rappresenta una semplice immagine che abbiamo costruito mentalmente, ma che non ci appartiene affatto, così come non possiamo possedere altre persone.

Avalokita, il Santo Signore e Bodhisattva, si stava muovendo nel profondo corso della Sapienza che è andata al di là. Egli dall’alto guardò giù, Egli scorse soltanto cinque aggregati, ed Egli vide che nella loro essenza essi erano vuoti.

Accettare la condizione di radicale solitudine che caratterizza l’esistenza significa altresì vedere la Vacuità di ogni fenomeno. Infine, ciò che collega ogni manifestazione della vita a tutto il resto è proprio la Vacuità intrinseca di tutto ciò che appare. Si potrebbe dunque affermare: siamo uniti soltanto dalla Vacuità e nella Vacuità, ogni altra unione rappresenta, in ultimo, una mera illusione.

  

 

 


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