Premessa
1. I fondamenti della spiritualità indiana
2. Le radici della sofferenza
3. La concezione della mente nel buddhismo
4. La ruota dell'esistenza
5. Il potere della mâyâ
6. Impermanenza
7. I limiti della scienza
8. Filosofie ellenistiche e tradizioni orientali
9. Jung e l'Oriente
10. Né nascita, né morte
11. Il sentiero dell'intuizione
12. Quiete e movimento
13. Vuoto e forma
14. Yoga e occidente
15. L'idea della morte in Occidente
16. L'altra sponda del fiume
Epilogo
PASSI SCELTI
Nel suo significato più ovvio, un sentiero costituisce una via da percorrere per raggiungere un luogo preciso. Tuttavia, i «Sentieri» ai quali allude il titolo della presente raccolta di riflessioni, ispirata alla spiritualità indiana, non pretendono di orientare verso una meta prestabilita. Al contrario, la loro configurazione topografica è quella di una mappa offerta a chi volesse smarrirsi, piuttosto che dirigersi verso un traguardo prestabilito.
Eppure, da questo «smarrimento» potrebbero scaturire visioni inconsuete, cangianti immagini di uno scenario tale, forse, da indurre l’eventuale esploratore ad abbandonare il progetto iniziale di una destinazione. Sentieri, pertanto, che s’interrompono ad un tratto, nel fitto intreccio di rami e di liane di una foresta incontaminata, dove le motivazioni che avevano sollecitato a partire vengono gradatamente depauperate della loro forza emozionale.
Allora, dall’incanto dei luoghi può nascere una condizione mentale più incline all’oblìo e al silenzio; presupposto necessario per dimenticare il pensiero di dovere arrivare da qualche parte.
Se poi si reclamasse, a tutti i costi, un vago orientamento, allora sarebbe utile precisare che i diversi «Sentieri» s’intersecano in un sol punto: il luogo, cioè, dove il viaggiatore è disposto a liberarsi dei pesanti fardelli che, sino a quel momento, hanno intralciato il suo procedere nel tragitto. Qui, i «Sentieri» si unificano, trasformandosi in un vasto spazio aperto la cui dimensione coincide con l’accesso ad un’autentica libertà. Di certo, non una libertà politico-economica, né tantomeno ideologica; ma una forma di emancipazione che costituisce la meta dell’esistenza: libertà dall’illusione.
La preminenza attribuita all’ottica del buddhismo Hînayâna è giustificata non tanto dall’inclinazione personale dell’autore, quanto dal fatto che tale tradizione mette in evidenza, in modo specifico, il tema dell’irriducibile contrasto tra dimensione ordinaria del vivere (samsâra) e condizione di affrancamento dai vincoli che legano al mondo (nirvâna). D’altra parte, tale contrapposizione si configura quale motivo dominante di quasi tutte le espressioni della cultura indiana. Ritenere quindi che sia possibile adottare come paradigma esistenziale il modello della spiritualità indiana senza prendere le distanze dai valori e dalle aspirazioni della società occidentale di oggi significa tradire del tutto il messaggio che ci giunge dall’India.
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I FONDAMENTI DELLA SPIRITUALITÀ INDIANA
Non si può interpretare in modo esatto il significato della spiritualità indiana senza tenere conto di uno dei princìpi che la ispirano: il riconoscimento del carattere doloroso dell’esistenza in tutte le sue manifestazioni: «Per il saggio - afferma Patañjali - tutto è soltanto dolore».
D’altra parte, il Buddha aveva posto alla base del suo insegnamento l’enunciato: «Tutto è dolore, tutto è impermanente».
Di conseguenza, in tale prospettiva, nessuna finalità mondana è in grado di porre termine allo stato di costante e profonda insoddisfazione che sollecita l’uomo a cercare la felicità in varie direzioni. Ricchezza, potere, amore, successo, affetti, bellezza costituiscono valori la cui relatività e precarietà non consentono di appagare il bisogno di compiutezza esistenziale avvertito quale aspirazione fondamentale della vita.
Uno dei maggiori studiosi della cultura indiana, Mircea Eliade, riconduce i fondamenti della spiritualità dell’India a quattro idee portanti, comuni alle diverse correnti: karma, mâyâ, nirvâna, yoga.
Sarebbe opportuno, però, aggiungere a queste categorie di base l’idea di samsâra: il ciclo perpetuo di nascite e morti attraverso cui l’esistenza si rinnova. In effetti, il concetto di tempo ciclico rappresenta uno dei presupposti speculativi e mitologici della cultura indiana. Tale principio, infatti, distingue la cosmologia indiana da quelle basate sulla concezione del tempo lineare.
In base all’interpretazione ciclica, l’Universo si evolve in lunghi periodi di tempo (Kalpa), per ritornare infine al suo stato primordiale. Le fasi emanative e quelle di riassorbimento della molteplicità nell’unità indifferenziata si alternano ciclicamente; di conseguenza, le idee di inizio e di estinzione hanno un significato relativo.
Per la cultura indiana, la conoscenza autentica ha carattere soteriologico: costituisce, cioè, una via di liberazione dal dolore esistenziale. D’altra parte, l’aspirazione alla liberazione sorge soltanto allorché si riesce a discriminare il carattere relativo della molteplicità fenomenica dalla vera Realtà. Nell’induismo, l’Assoluto viene indicato con nomi diversi: Brahman-Âtman, Shiva, Vishnu; per il buddhismo l’Assoluto è nirvâna o shûnyatâ; per il jainismo, è l’anima liberata dal ciclo delle incarnazioni.
I diversi sentieri di liberazione dal dolore costituiscono modelli di comportamento e pratiche spirituali additati a coloro che vogliono affrancarsi da ogni forma di schiavitù: sia essa rappresentata dall’attaccamento a beni materiali, ovvero da altre forme di legame mondano.
Una celebre metafora paragona il mondo fenomenico ad una corda che, al buio, viene scambiata per un serpente. In realtà non esiste alcun serpente di cui avere timore: basta accendere la «luce» della conoscenza per comprendere che si tratta soltanto di una corda. Il potere della mâyâ conferisce carattere di esistenza a qualcosa che in effetti maschera il fondamento autentico dei fenomeni. Sino a quando, dunque, l’uomo continuerà ad attribuire valore assoluto alla molteplicità sensoriale, cercando in essa il significato dell’esistenza e la fonte di una condizione di benessere, egli verrà trascinato da un’illusione ad un’altra.
Il termine mâyâ (illusione) ha un duplice significato: da una parte, indica il potere di generare un mondo di apparenze (la dimensione spazio-temporale dell’esistenza); dall’altra, allude alla tendenza originaria della mente di lasciarsi ingannare da oggetti e traguardi inappaganti, quasi fossero in grado di generare una condizione di felicità. Il primo significato - fondamentale per l’induismo - vede nella mâyâ la potenza (Shakti) di Brahmâ o Shiva (personificazioni del fondamento assoluto), il gioco divino (Lilâ) dal quale scaturisce l’Universo fenomenico. Il secondo significato (mâyâ = avidyâ, cioè ignoranza metafisica) prevale nella concezione buddhista.
La dottrina buddhista vede nella mâyâ una delle forze psichiche fondamentali - unitamente a râga (passione) e dvesha (avversione) - da cui dipende l’incessante movimento della Ruota del samsâra.
La vita, pertanto, viene interpretata come il prodotto di un’ignoranza (avidyâ) senza inizio, dell’assenza di consapevolezza che connota la condotta di coloro i quali non hanno raggiunto una visione illuminata. Si potrebbe interpretare tale energia come l’insieme di pulsioni, istinti, tendenze psichiche preposti al perpetuarsi della vita e dell’affermazione egocentrica dei diversi individui. Desideri, passioni, volontà di dominio rappresentano l’espressione concreta del potere della mâyâ.
Per la spiritualità indiana, in fondo, tutto è mâyâ; i fenomeni empirici, le aspettative più o meno illusorie degli individui, la bellezza fisica, il potere, il successo, l’intero universo fisico, se rapportati alla vera Realtà, rivelano la loro inconsistenza e vanità.
La meditazione e i diversi sentieri della spiritualità indiana mirano a liberare l’uomo dall’influenza ingannatrice di mâyâ. Tale scopo è perseguibile solo attraverso un processo di purificazione mentale in grado di produrre una nuova visione della realtà.
Ad un atteggiamento accentrato sul senso dell’«io» e del «mio» deve subentrare una posizione di distacco da tutto quello che, per il suo carattere transitorio, si rivela incapace di appagare le istanze più profonde dell’essere umano. Di qui la posizione di completa indifferenza assunta dallo yogin nei confronti di quei valori e beni mondani considerati, nell’ottica dell’attuale cultura occidentale, punti di riferimento essenziali per conferire significato alla vita.
Al dinamismo frenetico della società tecnologica e consumistica, la spiritualità indiana contrappone la quiete della mente, la compassione rivolta verso ogni essere vivente, il superamento delle passioni, l’aspirazione verso la Realtà autentica. Tutto questo comporta un lungo tirocinio, una costante purificazione mentale, un’emancipazione sempre più accentuata dai legami mondani. Per attuare simile trasformazione della personalità, il sapere empirico e razionale appare del tutto inadeguato, dal momento che il suo àmbito rimane quello della fenomenicità e degli interessi mondani.
Le scienze e la tecnologia rappresentano forme di un sapere saldamente collegato all’esperienza profana, alla dimensione del desiderio, alla volontà di affermazione, agli interessi mutevoli del divenire storico.
La vera conoscenza (vidyâ o jñâna) non può essere conseguita mediante gli strumenti resi disponibili da una cultura mirante ad integrare l’individuo in uno specifico modello sociale.
Trascendere la visione illusoria dei fenomeni significa, in primo luogo, liberarsi dall’attaccamento a tutto ciò che rappresenta una causa di schiavitù. Le passioni, e innanzitutto kâma e dvesha - sensualità e avversione - costituiscono gli ostacoli fondamentali che impediscono la vera conoscenza della Realtà. Avidità, odio, egoismo, privando l’uomo di una corretta visione delle cose, lo rendono schiavo di pulsioni incontrollate che generano sofferenza.
Il vero sapere ha una finalità soteriologica. Esso non può derivare da mera curiosità intellettuale, né da volontà di affermazione individuale, bensì dall’esigenza di sottrarsi ad una condizione di ignoranza e di sofferenza.
Il valore liberatorio dei sentieri spirituali indicati dalla tradizione indiana implica l’adesione ad un principio generale che regola le vicende dell’esistenza: la legge del karma e della rinascita.
Il termine karma - in sanscrito - indica qualsiasi azione di tipo mentale, verbale o fisico in grado di generare conseguenze, tanto positive, quanto negative. A tale idea è strettamente associata la dottrina della rinascita: il principio, cioè, che ogni essere vivente è espressione di una forma individualizzata nella quale trovano attuazione predisposizioni karmiche derivanti da esistenze precedenti. Questa tesi non implica, tuttavia, che lo stesso individuo debba incarnarsi in corpi diversi (metempsicosi), quanto piuttosto l’idea che un filo invisibile di energie mentali collega un particolare individuo a forme di vita precedenti.
La legge del karma definisce un ordine generale in senso morale, dal momento che ogni azione, positiva o negativa, produce conseguenze del tutto proporzionali al genere di condotta praticata dagli individui o dai gruppi sociali. Indubbiamente tale principio si configura come postulato indimostrabile; ma è altrettanto vero che, anche nella nostra tradizione occidentale, finiamo con l’accettare determinate credenze non in quanto dimostrabili razionalmente, ma per il fatto che hanno una validità pratica: ad esempio, la fede nella libertà. A tal proposito, basti ricordare che l’intera etica kantiana è fondata su postulati: l’esistenza di Dio, dell’anima e della libertà.
Una corretta interpretazione della dottrina del karma non può prescindere dall’analisi del rapporto che intercorre tra condotta dell’individuo e specifiche condizioni storico-culturali viste quale contesto al cui interno si esplica l’azione del soggetto umano. In tale prospettiva, la teoria del karma si configura quale visione della realtà che, andando oltre i limiti di una mera questione individuale, assume il significato di legge universale in grado di fornire una spiegazione plausibile relativa all’interdipendenza che collega i moventi dell’azione del singolo ai destini collettivi di popoli e di civiltà.
Se è vero che, nella tradizione indiana, la prospettiva storica è stata spesso occultata dalla prevalenza di un tempo mitologico bisogna riconoscere tuttavia che l’idea di moksha o di nirvâna, quale meta ultima dell’esistenza, implica, di per sé, il principio di una teleologia dove il tempo diviene movimento orientato verso un esito conclusivo capace di conferire senso compiuto alle mutevoli e contraddittorie vicende della storia umana. Si potrebbe osservare che siamo in presenza, forse, di un’immagine orientale della teoria dell’apocatastasi di Origene, pur tenendo conto delle ineliminabili distinzioni implicite nella diversità dei punti di vista culturali.
Se la vita dell’individuo è condizionata da predisposizioni psichiche ereditarie (samskâra e vâsanâ), nonché dall’ambiente socio-culturale nel cui ambito si sviluppa la personalità, è altrettanto vero che le condizioni storiche di una specifica società rappresentano l’eredità karmica di azioni collettive compiute da generazioni precedenti. A tal punto, teoria del karma e storicismo convergono verso un comune punto di vista: le azioni accumulate costituiscono la causa della realtà presente; in senso analogo - come direbbe Leibniz - «il presente è gravido dell’avvenire».
Quali implicazioni derivano dalla suddetta connessione tra legge del karma ed evoluzione storica della società?
In primo luogo, sembra opportuno sottolineare l’inevitabile interdipendenza che collega i destini individuali al processo storico di trasformazione sociale. Un’idea di karma individuale del tutto disgiunta da una prospettiva storico-culturale si configurerebbe quale interpretazione riduttiva e, in ultima analisi, falsa del principio che collega le azioni alle loro inevitabili conseguenze. L’individuo agisce non soltanto motivato da predisposizioni karmiche ereditarie, ma altresì all’interno di condizioni storico-sociali e culturali che fanno sentire la loro influenza sulle scelte esistenziali e sul comportamento.
Il karma individuale, in altri termini, non può essere inteso come processo autonomo che unisce atti e conseguenze di una determinata condotta al di fuori di ogni contesto socio-culturale.
L’individuo è erede non solo di predisposizioni psichiche e somatiche derivanti da un passato insondabile, ma assume altresì una specifica personalità sulla base di un processo di educazione e di acculturazione le cui radici sono di carattere storico. Concepire il karma come se si trattasse di una specie di predestinazione individuale significa travisare del tutto il significato profondo del rapporto che sussiste tra vicenda individuale e ordine cosmico generale. L’individuo è «momento» - importante sì, ma non autosufficiente - di un processo di sviluppo che - nella sua prospettiva globale - implica la vita nella sua interezza e le sue finalità ultime. Dunque, idee quali fortuna, sfortuna, caso rivelano una totale incomprensione di un ordine cosmico dove ogni cosa è collegata a tutto il resto. Tali considerazioni, riferite alla storia dei popoli e dell’umanità nel suo complesso, implicano che bene e male nella vita sociale sono il prodotto di azioni collettive.
La legge del karma connette il particolare all’universale, garantendo al singolo individuo uno spazio di crescita graduale e l’opportunità di procedere, attraverso innumerevoli occasioni, verso il «Risveglio». Vivere nell’epoca del kali-yuga significa essere nati in un periodo sfavorevole alla crescita spirituale, ovvero dovere confrontarsi con un karma negativo. Le condizioni sociali, a tal punto, diventano fattore di grande rilievo in relazione alla legge del karma.
Una delle divergenze più marcate tra cultura occidentale moderna e visione indiana del tempo concerne non soltanto la concezione lineare opposta a quella circolare, ma altresì l’antitesi progresso-decadenza.
Per l’Occidente post-illuministico la storia è orientata verso il progresso materiale della società; per la cultura indiana, viceversa, le epoche cicliche si susseguono attraverso la progressiva degenerazione di uno stato iniziale nel quale prevale il Dharma, cioè la Legge, l’Armonia, la Verità.
Di qui la necessità di una periodica restaurazione dell’Ordine (del Dharma) che si esprime nella dottrina degli Avatâra, nell’induismo, o nell’attesa del futuro Buddha Maitreya.
Oggi viviamo in un’età di profonda degenerazione, la società è guidata da affaristi e da mercanti: i titoli che dominano le prime pagine dei giornali e le notizie principali offerte dai mass-media riguardano le quotazioni della Borsa, il Mercato dei Cambi Valutari e l’Indice della Produzione. L’uomo medio soggetto a tali influenze non può che pensare al denaro come autentico valore della vita: nella sua prospettiva, il denaro rappresenta il mezzo per ottenere qualsiasi cosa. A questo punto, l’uomo non avverte più il bisogno di interrogarsi su grandi temi dell’esistenza: la nascita, la morte, il dolore, l’amore.
Anzi, di morte non vuole neppure sentire parlare, in quanto la sola idea gli rammenta la possibilità di perdere di colpo tutto ciò che egli ritiene importante. Nascere in una società del genere, nella prospettiva indiana, significa essere eredi di un karma oltremodo sfavorevole. Si nota dunque un ribaltamento dell’ordinaria visione occidentale: ciò che per l’Occidente rappresenta progresso, miglioramento della qualità di vita, maggiori possibilità di affermazione dell’individualità, per la cultura tradizionale indiana significa decadenza, degenerazione, cattivo karma che lega maggiormente gli individui al samsâra. La storia, dunque, come luogo di schiavitù o di liberazione, di abbrutimento o di elevazione spirituale, di grandi passioni o di mistica ascesi.
Probabilmente, però, l’espressione culturale della tradizione indiana più nota in Occidente è lo yoga. Bisogna precisare, tuttavia, che la divulgazione occidentale dello yoga - in una sua specifica espressione, lo hatha-yoga - ha generato una serie di equivoci e, in molti casi, una vera e propria mistificazione.
Il termine yoga deriva dalla radice yuj la quale indica l’atto di legare, unire, aggiogare. Lo scopo della pratica yoga è quello di controllare i processi psico-fisici mediante adeguate tecniche miranti a generare il dominio degli stati mentali e corporei.
Le diverse forme di yoga scaturiscono dalla comune istanza di liberare l’individuo dai legami generati dall’illusione e dall’attaccamento. Pertanto, mentre lo hatha-yoga muove dal controllo del corpo, in quanto fondamento dei processi psichici, altre forme di yoga - quali bhakti, karma, jñâna, râja - seguono percorsi differenti, pur essendo orientati verso una stessa meta.
Lo yoga è una disciplina volta al riconoscimento della natura spirituale dell’uomo. Tale natura è mascherata dalla tendenza dell’individuo a identificarsi con il corpo e con gli stati mentali. L’essenza umana, al contrario, è purusha (spirito) non contaminato dai fenomeni psico-fisici, i quali rappresentano solo manifestazioni transitorie dell’ordine naturale (prakriti).
L’uomo comune è condizionato da uno stato originario di ignoranza e da passioni (klesha) che impediscono di riconoscere l’essenza spirituale della sua esistenza. Pertanto il primo scopo dello yoga è quello di purificare la mente dalle innumerevoli contaminazioni che l’affliggono, rendendola incapace di vedere la Realtà autentica.
I klesha (passioni) costituiscono l’ostacolo alla liberazione dal dolore. Senza un lungo e difficile tirocinio di purificazione psico-fisica, è impossibile conseguire quella condizione di pace assoluta della mente che viene definita samâdhi. D’altra parte le contaminazioni mentali, in quanto hanno radici profonde nell’inconscio, possono essere eliminate solo mediante tecniche di autocontrollo volte a dominare processi psico-fisici di cui l’individuo ordinario non è affatto consapevole.
Avidità, odio, egoismo sono stati mentali che possono essere eliminati soltanto grazie ad un costante controllo della mente.
Il contrasto tra cultura occidentale moderna e spiritualità indiana emerge in tutta la sua profondità allorché si mettono a confronto due modelli esistenziali tra loro incompatibili. L’uno - quello occidentale - interamente animato dalla volontà di affermazione egocentrica della personalità e dallo sforzo teso ad appagare il desiderio; l’altro, al contrario, orientato a dominare le energie stesse che stanno a fondamento della vita.
Nelle società del benessere, il desiderio rimane imprigionato nelle reti di un’illusione perennemente rinnovantesi nelle forme seducenti di un fantasmatico giuoco di immagini pubblicitarie e del costante avvicendarsi di richiami sempre più accattivanti. L’uomo esibisce, orgoglioso, i miracoli della tecnologia e delle scienze, ostenta la sicurezza di un controllo delle forze naturali, rispecchiandosi narcisisticamente in un mondo di oggetti che gli rimandano il riflesso di una volontà di potenza ormai sottratta alle capacità direzionali degli individui.
Le culture orientali, diversamente, vedono nell’attaccamento ai beni esteriori il segno dell’ignoranza, la prova del potere suadente dell’illusione, la condizione dolorosa nella quale si dibatte l’uomo non raggiunto dall’illuminazione. Pertanto, proprio nel desiderio, congiuntamente all’odio e alla mancanza di consapevolezza, buddhismo e induismo individuano la fonte primaria di ogni sofferenza.
Tale assunto viene avvalorato dalla constatazione del carattere instabile di ogni situazione esistenziale: nulla può garantire uno stato di appagamento che non si riveli, infine, precario e deludente.
Nel mondo occidentale, l’idea di benessere coincide in larga misura con uno status di appagamento del desiderio, espresso in termini di possesso, successo, potere, amore. Dalla mancata realizzazione di tali ambizioni deriva uno stato d’animo di frustrazione che spinge gli individui a lottare senza tregua per il conseguimento delle loro aspettative. Siffatto comportamento genera l’attivismo frenetico tipico delle società industrializzate e alimenta negli individui ansia, competitività, smania di affermazione, senso di solitudine.
Nel pulsare di una vita interamente esternata in un dinamismo senza sosta si avverte una mancanza, uno spazio vuoto: l’assenza di un dubbio che imponga un’interrogazione sul senso esistenziale del nostro agire. Assenza emblematica di un’esistenza smarrita in un mondo di oggetti divenuti i veri protagonisti di una scenografia dove ogni gesto umano acquista le sembianze di un movimento automatico guidato dall’infallibile precisione di un sistema computerizzato.
Erich Fromm, criticando i modelli consumistici delle società opulente, ha indicato lucidamente le ragioni fondamentali del malessere dell’uomo occidentale, ravvisandole in modo specifico nella brama di possesso e nell’avidità. Le affermazioni di Fromm sottolineano in modo esplicito il fatto che l’atteggiamento psicologico occidentale è orientato verso l’appropriazione, l’avidità, il narcisismo. Diversamente, le culture orientali si caratterizzano per l’esaltazione di una posizione di distacco nei confronti dell’esteriorità, e per il disinteresse verso tutto ciò che appare di importanza relativa ai fini di una comprensione dei valori autentici della vita.
Il contrasto tra le due civiltà si approfondisce qualora venga esaminato il diverso modo di considerare le finalità del sapere.
L’Occidente moderno ha delimitato il campo della conoscenza nell’àmbito dei fenomeni empiricamente osservabili, allo scopo di definire con precisione le leggi naturali. Il valore della conoscenza viene riposto esclusivamente nei vantaggi pratici, nella possibilità di trasformazione e di miglioramento delle condizioni materiali dell’esistenza umana.
In Oriente, al contrario, la vera conoscenza implica sempre una connotazione metafisica che si manifesta in un atteggiamento di svalutazione del mondo esterno, considerato fonte d’errore e d’illusione.
L’obiettivo del sapere non consiste, pertanto, nel miglioramento delle condizioni economiche, né tanto meno nei vantaggi materiali derivanti dalle scoperte scientifiche; quanto piuttosto nella possibilità di liberare l’uomo dal dolore esistenziale e da ogni forma di illusione.
Si può affermare che la cultura orientale affonda le sue radici nel pressante bisogno di abbandonare una condizione di vita dominata dal desiderio e dall’ignoranza, per ascendere ad un livello di realtà ultima che si sottrae alle categorie interpretative della logica e delle scienze empiriche.
L’Occidente, dall’illuminismo in poi, ha interpretato la storia alla luce di una categoria centrale: l’idea di progresso. Di qui l’ottimistica visione di un processo di trasformazione della società orientato in modo costante verso il miglioramento e una più soddisfacente risposta data ai bisogni e alle aspettative dell’umanità.
Tale concezione non può trovare alcun riscontro nella prospettiva orientale, dove mutamento e temporalità acquistano significato solo in relazione alla legge del karma. In base a tale principio, tutto ciò che si attua nel samsâra - l’eterno flusso di nascite e morti - è sempre la conseguenza di azioni compiute in precedenza.
L’idea di progresso appare perciò del tutto estranea alle filosofie orientali dato che, dal loro punto di vista, nessuna trasformazione storico-sociale può influire in modo rilevante sull’essenza metafisica della vita, il cui carattere predominante è individuato nel dolore, nell’insoddisfazione perenne (duhkha). Schopenhauer, riferendosi ai mutamenti storici, afferma: «Eadem, sed aliter»; facendo suo, in tal modo, un punto di vista tipicamente orientale.
In questa prospettiva, il processo di emancipazione umana non si attua mediante il progresso scientifico-tecnologico, né attraverso l’innalzamento del tenore di vita in senso economico-sociale, bensì per mezzo della rinuncia e della caduta del desiderio.
Tutto ciò che, nel mondo occidentale, appare segno di miglioramento delle condizioni di vita, dal punto di vista orientale viene giudicato espressione di un sempre più forte coinvolgimento dell’uomo nella ruota del samsâra e di un più intenso legame che incatena agli oggetti del desiderio. Le trasformazioni sociali rivelano soltanto un mutamento delle aspirazioni e dei bisogni umani, ma non incidono in alcun modo sull’essenza della vita, non ne modificano affatto il nucleo più intimo. Soltanto la rottura con il piano della temporalità e del mondo del divenire rappresenta la via di salvezza che libera dalla sofferenza e dall’attaccamento a beni precari.
Agli occhi dell’uomo occidentale moderno abituato a considerare valori inalienabili l’affermazione dell’individualità, l’impegno nella vita sociale, il piacere connesso all’appagamento di determinate aspettative, una concezione fondata sulla rinuncia e sulla svalutazione dei beni esteriori non può che apparire incomprensibile e priva di senso. E ciò, soprattutto, per il fatto che - come acutamente ha fatto osservare Jung - la mentalità occidentale è caratterizzata da un atteggiamento estroverso, al contrario di quella orientale decisamente incline alla introversione.
Tale contrasto si esprime in tutte le manifestazioni della cultura e nei modelli di comportamento che diversificano le due civiltà. In campo religioso, per esempio, l’Occidente cristiano concepisce la salvezza come possibilità derivante da un’autorità esterna, Dio o la Chiesa; mentre l’Oriente considera l’uomo stesso artefice del proprio destino. Nella vita sociale, l’occidentale interpreta la realizzazione delle finalità della vita come appropriazione del mondo esteriore e godimento nel possesso; l’orientale, al contrario, scava nella propria interiorità per trovare i mezzi adeguati al conseguimento di uno sviluppo completo e armonioso.
L’occidentale, inoltre, nutre grande fiducia nei poteri della razionalità e dell’attività cosciente, tendendo a relegare l’inconscio in uno spazio da tenere debitamente separato e controllato, di modo che non interferisca sulla vita ordinaria. L’orientale, al contrario, vede nel Sé - termine paragonabile al concetto junghiano di inconscio collettivo - la vera matrice di tutti i fenomeni e della vita stessa.
Per l’occidentale, il samâdhi - il livello profondo di meditazione - rappresenta uno stato di regressione dell’io simile alle forme psicotiche della patologia mentale. Per l’orientale, al contrario, il senso dell’oggettività e il dinamismo frenetico caratteristici del comportamento occidentale costituiscono una manifestazione di totale abbandono al flusso del samsâra.
La valorizzazione della sensualità, dell’erotismo, dell’impulso all’appropriazione sono tratti specifici dell’attuale società occidentale; a tutto ciò, l’Oriente contrappone una prospettiva che estende lo sguardo a dimensioni della realtà inevitabilmente precluse all’uomo integrato nei modelli di vita che prevalgono nella nostra epoca.
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Una delle immagini più suggestive dell’iconografia tibetana è la «Ruota della Vita», dove l’esistenza - nelle sue diverse forme - viene rappresentata tramite quattro cerchi concentrici al cui interno sono raffigurate simbolicamente le condizioni che determinano il perpetuo rinnovarsi della vita. La «Ruota» allude alla temporalità ciclica del samsâra dove le diverse situazioni esistenziali si avvicendano in base al principio della rinascita. Il moto circolare esprime un movimento privo d’inizio; cosicché il samsâra si configura come processo di trasformazione dell’esistenza fenomenica che vincola gli esseri viventi ad una condizione essenzialmente dolorosa. La vita può manifestarsi in forma più o meno favorevole, quale espressione del karma individuale, ma in nessun caso rappresenta una situazione in grado di generare una duratura felicità. L’esperienza individuale rappresenta una tappa di un lungo percorso, costituito da innumerevoli nascite in forma diversa, attraverso il quale la coscienza può gradualmente purificarsi dalle passioni che la vincolano al samsâra, ovvero rimanere imprigionata a tempo indeterminato nella «Ruota» che gira incessantemente. L’unico scopo della vita degno di essere perseguito è la «liberazione»; le altre finalità hanno soltanto valore relativo e transitorio.
Nel cerchio interno della «Ruota» - indicante il mozzo - sono rappresentate in forma di serpente, maiale, gallo, le energie che generano il movimento samsârico. La vita viene quindi alimentata di continuo da tre forze: l’ignoranza (maiale), il desiderio (gallo), l’odio (serpente).
Il samsâra non è altro che l’espressione fenomenica delle suddette energie psichiche. L’essere vivente è destinato a ritornare, in forma diversa, nel samsâra sino a quando non si libererà completamente dall’influenza del desiderio, dell’odio e dell’ignoranza.
Nel secondo cerchio, è raffigurato un individuo trainato da una corda che lo fa ruotare verso il basso o verso l’alto. Ciò allude alla rinascita nei regni di esistenza inferiori o superiori, in base alla legge del karma.
Il terzo cerchio è diviso in sei sezioni ognuna delle quali rappresenta una condizione di esistenza: dèi, antidei, spiriti affamati, esseri infernali, animali, uomini. Anche se il simbolismo relativo ai sei regni dell’esistenza indica una separazione in termini di luoghi diversi, in realtà le differenti condizioni riguardano lo stato più o meno favorevole in cui si può trovare la coscienza nelle sue varie rinascite. Così, ad esempio, il regno degli dèi allude ad una condizione piacevole che può durare per un lungo periodo di tempo, come retribuzione di meriti accumulati in vite precedenti.
Il quarto cerchio - il più esterno - è costituito da una catena di dodici anelli all’interno dei quali sono raffigurate alcune scene che simbolicamente esprimono la dottrina della produzione condizionata. Gli anelli sono collegati secondo il seguente ordine:
1) ignoranza: una donna cieca sta per cadere in un baratro;
2) predisposizioni karmiche: un tornitore è intento a produrre dei vasi;
3) coscienza: una scimmia entra in una casa;
4) corpo-mente: due uomini in barca;
5) sei organi di percezione: casa con sei finestre;
6) contatto sensoriale: una coppia di amanti;
7) sensazione: un uomo colpito da una freccia;
8) desiderio: un uomo che beve;
9) attaccamento: una scimmia che raccoglie frutti;
10) esistenza rinnovata: una donna incinta;
11) rinascita: una partoriente;
12) morte: un funerale.
Si può considerare la dottrina della produzione condizionata come il cuore dell’insegnamento del Buddha. La concatenazione dei dodici anelli infatti costituisce la risposta a tutti i problemi relativi alla condizione di infelicità che caratterizza la vita nelle sue diverse espressioni. Ogni anello è causa e, al tempo stesso, effetto delle condizioni che precedono e seguono la sua manifestazione. In senso relativo, tuttavia, l’ignoranza viene considerata la causa prima dei momenti successivi. Il primo punto da chiarire dunque è il significato specifico che assume il termine «ignoranza» nell’àmbito del Dharma. Si può affermare, innanzitutto, che il samsâra esiste in quanto c’è ignoranza senza inizio. L’ignoranza pertanto è la condizione fondamentale della ciclica ripetizione di nascita, invecchiamento, morte.
A questo punto la domanda più ovvia è: ignoranza di chi?
Cominciamo dall’ultima domanda: chi è ignorante?
L’ignoranza è lo stato mentale di una coscienza offuscata da contaminazioni che la vincolano ad un mondo doloroso. Il primo errore generato dall’ignoranza è quindi quello di scambiare una dimensione esistenziale caratterizzata da sofferenza, impermanenza, non sostanzialità dei fenomeni, per qualcosa di desiderabile a cui aggrapparsi. In senso più specifico, si configura inoltre come ignoranza delle quattro «nobili verità» del Buddha, della legge del karma e della vacuità dei fenomeni. In altri termini, la vita non rischiarata dalla «luce» della consapevolezza generata dall’insegnamento del Buddha non può che dare origine ad uno stato di sofferenza rinnovantesi di continuo sulla base di una condizione di ignoranza relativa alla vera natura delle cose.
L’uomo comune, in quanto immerso in una dimensione illusoria, giudica piacevole e attraente ciò che, col trascorrere del tempo, si trasformerà in dolore, frustrazione, infelicità. L’ignoranza è la condizione che genera il secondo anello: gli atti compiuti senza vera consapevolezza dalla cui accumulazione dipendono le predisposizioni karmiche. Qualunque atto del pensiero, della parola, del corpo, dal momento che produce effetti adeguati, lascia tracce nel continuum mentale, dando origine in tal modo ad una particolare forma di coscienza sostenuta dalle forze psichiche che l’alimentano.
La coscienza (terzo anello) è il fattore che collega i processi della vita psico-fisica, garantendo la continuità dell’esperienza fenomenica. La mente non è quindi una sostanza, ma un flusso di stati psichici che si rinnova di continuo come il processo di combustione di una fiamma. Come il combustibile alimenta il fuoco, allo stesso modo la coscienza viene sostenuta da una molteplicità di atti che ne orientano l’evoluzione.
L’individuo, in questa prospettiva, non è altro che la manifestazione transitoria di un lungo processo caratterizzato dalla rinascita in nuova forma sino all’esaurimento delle forze karmiche che l’alimentano. Lo stato di coscienza di ogni momento esistenziale è la continuazione delle condizioni che lo precedono e tale collegamento non viene interrotto dalla morte. Solo mediante la comprensione di tale rapporto si può interpretare in modo esatto la teoria della rinascita: il legame cioè tra individui diversi uniti dallo stesso flusso karmico.
L’idea di rinascita è stata spesso fraintesa, in quanto la continuità da una forma di esistenza ad un’altra, dopo la morte, è stata interpretata come trasmigrazione di un’anima da un corpo a un altro. Diversamente, per rinascita - nel buddhismo - s’intende la prosecuzione, dopo la morte, del processo vitale alimentato da energie psichiche che trovano espressione in un diverso individuo, considerato erede della persona estinta. I primi tre anelli della produzione condizionata - ignoranza, predisposizioni karmiche e continuum mentale - costituiscono dunque i fattori determinanti della rinascita.
Il quarto anello - Nâma-rûpa - indica l’individuo, inteso come unità psico-fisica, che incarna la prosecuzione di un processo karmico i cui effetti non sono cessati. Tuttavia, nella tradizione mahâyâna, viene riconosciuta una forma particolare di rinascita: quella del Buddha e dei Bodhisattva i quali compaiono nel samsâra soltanto allo scopo di aiutare altri esseri a ottenere la liberazione. Tranne per quest’ultimo caso, la nascita è conseguenza di karma accumulato a partire da un tempo senza inizio. Il karma continuerà a generare conseguenze sino a quando il continuum mentale non riuscirà ad eliminare completamente le impurità che lo vincolano al samsâra.
Gli anelli dal quarto al settimo - nome-forma, organi di senso, contatto, sensazione - fanno da supporto al desiderio (ottavo anello). Quest’ultimo, unitamente all’avversione, rappresenta una delle forze determinanti del legame con il mondo fenomenico. I processi psicologici sono caratterizzati da forte attrazione verso ciò che procura piacere e da repulsione nei confronti delle esperienze dolorose. Ciò spiega il senso del nono anello, l’attaccamento: vogliamo mantenere ciò che piace e sfuggire al dolore. Dal momento, però, che le situazioni della vita mutano incessantemente, non è possibile conservare a lungo ciò che amiamo, né evitare quello che non vorremmo sperimentare. Di qui la continua lotta mirante a rinnovare le condizioni favorevoli e a rifiutare quelle negative. Tale attività garantisce il perpetuarsi dell’esistenza (decimo anello). Da questo impulso a rinnovare l’esistenza deriva la rinascita (undicesimo anello) con tutte le conseguenze correlate e con la sua inevitabile conclusione (dodicesimo anello): vecchiaia e morte.
La concatenazione dei dodici anelli implica che il processo di liberazione coincide del tutto con la raggiunta capacità di dominio delle pulsioni vitali e delle passioni che legano all’esistenza. Naturalmente, la comprensione teorica della produzione condizionata non costituisce affatto motivo sufficiente per emanciparsi dai legami del samsâra: la liberazione è conseguenza di un tirocinio pratico, volto a svincolare l’individuo da ogni catena.
Esercitare un controllo sulle tendenze nocive richiede una costante attenzione nei riguardi degli stati mentali e degli impulsi che sollecitano ad agire o a progettare azioni generatrici di dolore. La liberazione consiste nella purificazione della mente da tutti i processi che legano ad una condizione di dipendenza da cose, persone, situazioni. Dal punto di vista psicologico, ciò comporta una padronanza delle emozioni e degli impulsi che premono per ottenere gratificazione. La mente non è altro che un campo di forze psichiche in costante stato di trasformazione e di conflittualità. Il provvisorio equilibrio tra tendenze contrastanti è dato dal prevalere di uno specifico gruppo di predisposizioni che impongono il loro sopravvento su altre. Osservare i processi mentali permette di conoscere le forze psichiche che lottano per la supremazia. La prevalenza di stati mentali nocivi, quali avidità, ambizione, rabbia, illusione, crea una condizione di dipendenza da impulsi sui quali non riusciamo ad esercitare alcun controllo. A tal punto sono le tendenze mentali negative ad imporre il loro potere, determinando pensieri e forme di condotta che si traducono in situazioni di infelicità.
Nel buddhismo, la condotta morale (sila) non ha lo scopo di conformare l’individuo a codici di comportamento collettivo, ma quello di liberare la mente da impulsi nocivi. Azioni quali arrecare danno agli esseri viventi o rubare non sono negative solo in quanto condannate dall’etica sociale, ma proprio perché tali atti si ritorcono contro l’individuo che li compie come conseguenza karmica. Il conflitto, che la filosofia occidentale ha interpretato come contrapposizione tra ragione e istinti, viene giudicato - nella psicologia buddhista - espressione di predisposizioni latenti che operano nella mente non purificata. Vâsanâ e samskâra - tendenze inconsce - condizionano la condotta dell’individuo, orientandolo verso mete di sofferenza.
L’uomo comune crede sempre di poter conseguire vantaggi mediante specifici comportamenti e scelte esistenziali; ma, proprio per la ragione che le sue azioni sono guidate dall’ignoranza, le conseguenze si rivelano infine insoddisfacenti o del tutto negative. Le pulsioni inconsce trovano modo di manifestarsi anche in forma di comportamenti socialmente giustificati quali ambizione, ricerca di godimento, affermazione narcisistica del proprio io. Le motivazioni che guidano la condotta degli individui sono quasi sempre espressione razionalizzata di bisogni che traggono la loro origine da tendenze inconsapevoli. Il senso dell’io non è altro che il centro organizzativo dove vengono mediate esigenze spesso conflittuali.
Il samsâra è di fatto la condizione della mente contaminata dalle passioni e dall’illusione. La produzione condizionata chiarisce il processo attraverso il quale si genera la sofferenza, mettendo in luce la concatenazione dei diversi fattori che sostengono l’esistenza samsârica. L’interdipendenza dei vari anelli implica che, mediante un’inversione del loro collegamento automatico, si può trascendere il samsâra ponendo fine alla sofferenza.
Se viene eliminata l’ignoranza non si generano più azioni che vincolano la coscienza al samsâra; di conseguenza non c’è rinascita, né desiderio, né attaccamento alla vita, né nuovo processo di invecchiamento e morte. Questa la ragione per cui il «Risveglio» viene concepito come superamento della condizione di ignoranza che caratterizza la mente ordinaria. L’ignoranza è dunque la radice di tutti i mali. La vita si riproduce in modo ciclico, con tutte le relative conseguenze, perché gli esseri viventi sono dominati dall’illusione. Tale condizione non può essere superata tramite cambiamenti della società, in quanto i diversi modelli sociali sono, essi stessi, espressione dell’ignoranza. Ogni organizzazione economico-sociale, con i suoi valori culturali, non è altro che la manifestazione collettiva delle illusioni dominanti in una specifica epoca storica. L’individuo si illude di riuscire a raggiungere una condizione di felicità o di poter conferire significato alla propria vita perseguendo mete che la società gli addita come valori dell’esistenza. È vero piuttosto che tutti i valori relativi della storia umana, confrontati con il bisogno di liberazione dal samsâra, appaiono come beni del tutto insoddisfacenti, in quanto incapaci di porre fine al problema del dolore.
L’immagine del mondo come viene prodotta dall’attività mentale è soltanto una elaborazione fittizia di apparenze che si susseguono secondo un ordine definito. Il corpo stesso è la manifestazione esterna di processi di trasformazione generati da un’energia biologica che tende a perpetuarsi in forme diverse. L’essenza di tale energia è la coscienza, intesa quale fondamento di tutto il vivente.
La teoria evoluzionistica, se opportunamente adeguata ai princìpi del buddhismo, può costituire un valido punto di riferimento per il collegamento tra scienza occidentale e Dharma. È necessario però intendere l’evoluzione non come processo naturale di adattamento della vita all’ambiente, ma come processo di crescita e di sviluppo della coscienza che passa da forme più primitive a espressioni sempre più complesse e intelligenti.
Il buddhismo afferma il principio dell’interdipendenza e quindi del collegamento tra tutte le manifestazioni della vita. L’eredità karmica può essere - oggi - reinterpretata come processo di graduale purificazione mentale, in completa sintonia con le leggi biologiche dell’evoluzione. In tal senso, la nascita in forma umana rappresenta la condizione più favorevole per portare a compimento il percorso di una sempre più accentuata consapevolezza delle autentiche caratteristiche della realtà.
Le predisposizioni mentali che l’individuo possiede sin dalla nascita possono essere interpretate come eredità karmica derivante da un passato dove si mescolano istinti arcaici dell’animale, pulsioni inconsce, ma anche potenzialità di sviluppo tipicamente umane. Lo scopo dell’evoluzione, in questo senso, diventerebbe allora la realizzazione della buddhità, cioè di una completa purificazione della mente da tutte le contaminazioni.
Il conflitto tra forze psichiche contrastanti si configura come antitesi tra determinismo biologico delle leggi di natura e libertà potenziale, intesa come possibilità di sottrarsi ai condizionamenti istintivi. L’uomo non è dotato di libero arbitrio, ma può generare le condizioni idonee all’affermazione di un’autentica libertà. La libertà assoluta - per il buddhismo - coincide con la possibilità di sottrarsi all’influenza delle energie psichiche che generano il samsâra. L’uomo diventa tanto più libero quanto più riesce a sfuggire al condizionamento di pulsioni, emozioni, istinti che lo vincolano alle leggi di natura. Non si tratta quindi di una forma di libertà politico-sociale, ma di un’emancipazione dai legami con il samsâra.
In questa prospettiva, la vita di ogni individuo rappresenta una tappa di un lungo percorso di purificazione mentale. La rinascita assume il significato di nuova occasione per proseguire il processo di liberazione della mente dalle contaminazioni che l’affliggono. Le differenze tra le varie tipologie umane si configurano come stadi evolutivi orientati verso l’emancipazione dal samsâra. Quanto più l’individuo è attaccato al senso dell’io e alla volontà di possesso, tanto più il suo egocentrismo e il suo desiderio di conseguire traguardi mondani lo vincolano al ciclo delle rinascite.
Un atteggiamento di distacco nei confronti del mondo e dei valori convenzionali diventa perciò il presupposto fondamentale dell’aspirazione alla liberazione. La dimensione sociale, in quest’ottica, non può che rivelare un significato relativo, dato che le finalità proposte dalle diverse culture sono mete incapaci, per la loro transitorietà, di delineare un senso ultimo del divenire storico.
D’altra parte, se il processo evolutivo della vita non dovesse avere alcuno scopo finale, l’esistenza umana sarebbe condannata a lottare per l’affermazione di valori relativi e contingenti. A questo punto, la vita apparirebbe come manifestazione di istinti e di tendenze irrazionali miranti soltanto a garantire il cieco perpetuarsi delle specie viventi. La ciclica ripetizione dello stesso processo - nascita, sviluppo, decadenza, morte - conferirebbe all’esistenza il carattere di assurda vicenda priva di ogni significato. Il transitorio appagamento di alcuni bisogni e desideri non si configurerebbe quale ragione sufficiente a conferire un senso alla vita. Questo il motivo per cui - nella tradizione indiana - l’esistenza viene ritenuta una conseguenza dell’avidyâ (ignoranza). Soltanto dei ciechi impulsi istintuali possono perpetuare il ciclico movimento della «Ruota» della vita.
La mente illuminata vede il mondo come luogo di sofferenza e di illusione. Infatti, la felicità mondana è paragonabile al momentaneo stato di euforia provocato da una droga: passato l’effetto, l’esistenza si manifesta nuovamente in tutta la sua drammatica condizione di miseria e infelicità. L’uomo comune non è in grado di riconoscere questa verità evidente in quanto la sua mente è offuscata dall’illusione e dalle passioni. I meccanismi biologici che - nel regno animale - appaiono come istinti, nel mondo umano si esprimono come valori culturali volti a rafforzare l’attaccamento al samsâra, mediante scopi ritenuti in grado di giustificare la vita quale processo positivo. La ragione, pur elevando l’uomo al di sopra dell’animale, non è altro, in ultima analisi, che uno strumento più efficiente mirante all’adattamento alle diverse condizioni ambientali. La volontà di vivere rappresenta, in ogni caso, la forza determinante che garantisce il ciclico perpetuarsi dell’esistenza.
Il valore rivoluzionario dell’insegnamento del Buddha viene evidenziato dal fatto che la sua dottrina - diversamente dalle religioni del «Libro» - non considera la vita un «dono divino», ma un processo essenzialmente negativo, in quanto conseguenza di uno stato d’ignoranza. Pertanto «Risveglio» assume il significato di condizione di libertà da ogni legame con la realtà fenomenica. Chi infatti potrebbe rivelarsi tanto stolto, una volta desto, da continuare a nutrire attaccamento per un sogno? In fondo, la vita non è altro che uno spiacevole incidente provocato dall’ignoranza. Nonostante i tentativi di alcuni interpreti miranti a conciliare il messaggio del Buddha con i valori mondani, lo spirito autentico dell’insegnamento si rivela, in modo inequivocabile, proprio nella concatenazione dei dodici anelli, dove l’ignoranza si configura come causa di tutta la sequenza negativa che si conclude con vecchiaia e morte. Il Dharma del Buddha non è un’ideologia politico-sociale volta a modificare l’organizzazione della società, ma un «sentiero» di liberazione volto ad eliminare le cause metastoriche della sofferenza. È vero certamente che spesso l’infelicità umana deriva da specifiche situazioni sociali, ma queste ultime sono conseguenza di stati mentali nocivi.
Il vero problema con il quale l’uomo deve fare i conti non è quello di una trasformazione della società, ma del controllo degli stati mentali generatori di sofferenza. Nel nostro secolo abbiamo registrato grandi mutamenti sociali, conflitti militari e ideologici, progressi tecnologici e scientifici, rinnovamento del costume e delle abitudini di vita, eppure non si può certamente affermare che l’umanità di oggi abbia conseguito uno stato di benessere.
Il divenire storico determina cambiamenti più o meno soddisfacenti delle condizioni di vita, ma non è in grado di liberare l’uomo dalle radici profonde del dolore esistenziale. L’insegnamento del Buddha riguarda, al contrario, proprio l’essenza della vita e del dolore; di conseguenza il Dharma trascende le particolari condizioni storico-sociali. Tale considerazione è avvalorata dal fatto che il Dharma, nel corso di duemilacinquecento anni, si è diffuso in paesi profondamente diversi, sia dal punto di vista economico-sociale, sia in senso culturale, riuscendo sempre a far emergere, al di là delle differenze contingenti, gli aspetti universali della condizione umana.
L’esistenza (anello 10 della produzione condizionata) è la conseguenza diretta di attaccamento e desiderio (anelli 9 e 8). Questi ultimi rappresentano quindi le forze decisive della dipendenza samsârica. Tutto ciò che vincola l’individuo ad una particolare condizione di vita crea le premesse di future esperienze dolorose. Qualunque legame rappresenta una forma di schiavitù, in quanto determina uno stato psicologico di dipendenza da cose, persone, situazioni che, per il loro carattere impermanente, non possono garantire in nessun modo una duratura felicità.
Infrangere le catene che vincolano alla dimensione samsârica significa allora emanciparsi dalle diverse forme di schiavitù, siano esse rappresentate da condizioni sociali, ovvero da aspirazioni egocentriche miranti all’affermazione personale. Tanhâ, il desiderio, è l’energia che genera l’attaccamento al mondo fenomenico, imprigionando in tal modo l’individuo in una dimensione dolorosa. La speranza di ottenere uno stato di felicità spinge l’uomo a progettare un futuro in grado di appagare i suoi desideri. L’illusione nasce proprio da questa aspettativa incompatibile con le leggi dell’esistenza fenomenica. Colui che comprende il collegamento tra i diversi anelli del samsâra è in grado di emanciparsi da tutte le illusioni.
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Nella cultura occidentale odierna prevale un’eccessiva e talvolta ingenua fiducia nei poteri della scienza e della tecnologia. Il razionalismo scientifico tuttavia rivela diversi punti deboli, allorché pretende di utilizzare metodi e mezzi idonei a fornire specifiche conoscenze in settori circoscritti dell’esperienza, come strumenti adeguati alla risoluzione di ogni problema o in grado di fornire risposte valide agli interrogativi fondamentali dell’esistenza. L’immagine scientifica della realtà diventa illusoria, allorché, come spesso accade, l’uomo mette tra parentesi se stesso - la coscienza dell’osservatore - assumendo un atteggiamento riduzionistico che lo induce a considerare i fenomeni come processi oggettivi, indipendenti dal punto di vista di chi osserva, e la vita quale casuale evoluzione di elementi fisico-chimici.
La nostra tradizione filosofico-scientifica ha elaborato, nel corso del suo sviluppo storico, alcuni concetti di base che rappresentano il fondamento logico di ogni modello di indagine conoscitiva. Categorie quali sostanza, causalità, movimento, spazio, tempo, materia, costituiscono - nonostante la rivoluzione dei paradigmi operata dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica - punti di riferimento ineliminabili di ogni descrizione scientifica della realtà. Tuttavia, al di là dei risultati operativi e dei vantaggi pratici conseguiti dalla ricerca, la «visione scientifica del mondo» non è certo immune da dogmatismo, riscontrabile soprattutto nella credenza in un presunto ordine oggettivo dei fenomeni non condizionato dal ruolo dell’osservatore, né dagli strumenti di indagine. Talvolta la critica dei postulati epistemologici è stata giudicata un tentativo di riproporre prospettive prescientifiche o irrazionali, dal momento che viene messa in discussione l’evidenza di fatti verificabili empiricamente. Niente di più falso! La riflessione critica sui fondamenti della scienza è sempre stata la spinta più forte nella direzione di un ampliamento della consapevolezza umana relativa al mondo e alla vita stessa. Ogni fase di sviluppo della conoscenza è passata attraverso la confutazione di verità ritenute indiscutibili, in quanto consacrate da una tradizione culturale tenacemente ancorata a specifici dogmi. Oggi, la «religione della scienza» ha preso il posto delle fedi tradizionali, finendo con l’assumere la guida degli orientamenti mentali e pratici della maggioranza delle persone. D’altra parte, è pur vero che attualmente nessun settore della vita sociale può fare a meno del sapere scientifico: al punto che il mondo nel quale viviamo si configura ormai come il prodotto della rivoluzione tecnologica. Perfino il concetto di fenomeno naturale sembra aver perduto ogni significato, se prescindiamo dai filtri intellettuali e dalle tecnologie che l’uomo, animato dalla volontà di generare un mondo a propria immagine e somiglianza, ha sovrapposto all’esperienza diretta della natura. Inoltre, la sempre più netta separazione tra sapere specialistico e visione olistica della realtà, conseguenza del definitivo divorzio tra scienze sperimentali e filosofia, pone oggi molti scienziati in una posizione di grande sicumera nell’àmbito del loro campo di ricerca, ma anche di palese ingenuità di fronte ai grandi temi del tradizionale dibattito filosofico.
L’immagine della realtà delineata dal modello scientifico, ad un esame più approfondito, mostra i limiti derivanti da un’ottica troppo unilaterale. A partire dalla fisica galileiana, infatti, l’idea di un ordine oggettivo dei fenomeni - indipendente dall’osservatore - ha guidato l’indagine conoscitiva in tutti i settori della ricerca. Tale assunto, pur messo in discussione dalla fisica relativistica e dalla meccanica quantistica, ha continuato ad esercitare un’influenza determinante tanto nel campo delle scienze sperimentali, quanto nell’àmbito della cultura ufficiale, finendo con l’orientare gli atteggiamenti mentali della maggioranza delle persone. Il postulato fondamentale di ogni forma di realismo ingenuo - la tesi, cioè, che il mondo esiste indipendentemente dall’immagine mentale - rappresenta la credenza di base tanto dello scienziato quanto dell’uomo comune, il quale nutre istintivamente un’incrollabile fede nell’esistenza in sé delle cose. È evidente però che tale modo di considerare il rapporto tra soggetto e oggetto riduce l’attività mentale ad un meccanismo biologico, la cui funzione consisterebbe nell’organizzare la molteplicità degli stimoli sensoriali al fine di rispecchiare più o meno fedelmente l’ordine dei fenomeni.
L’ipotesi di una struttura fisico-matematica del mondo oggettivo, formulata da Galilei, continua ad esercitare una forte suggestione sull’atteggiamento intellettuale degli scienziati, nonostante i dubbi sollevati dalla critica epistemologica. Se prendiamo in esame alcuni assunti della psicologia contemporanea o della neurobiologia, si evidenzia una teoria della mente - o del cervello, come preferirebbero dire i neurologi - basata sull’idea di funzioni analoghe a quelle di un sofisticato computer. Il corpo-macchina, teorizzato da Cartesio, ma depauperato, nella versione attuale, della sostanza anima, è diventato il paradigma fondamentale di ogni interpretazione scientifica dei processi psico-somatici; nonché la base teorica di una spiegazione riduzionistica e meccanicistica delle funzioni mentali, intese come manifestazioni di processi fisico-molecolari volti a dare risposte biologiche per un adattamento ambientale.
L’apparente logicità di tali presupposti e i risultati concreti di una ricerca orientata verso scopi utilitaristici sembrerebbero confermare la suddetta prospettiva. Ma, allorché le tesi del meccanicismo vengono confrontate con una più ampia visione della realtà, mostrano chiaramente incongruenze e paradossi insolubili. Per esempio, ci si potrebbe chiedere: quale principio garantisce la corrispondenza tra ordine fisico e riproduzione mentale dei fenomeni? Ovvero, che cosa determina il passaggio da composti chimici inorganici alla produzione di molecole organiche? Ma, pur ammettendo - sulla base dell’osservazione empirica - la possibilità di tale processo evolutivo, come spiegare le caratteristiche totalmente diverse che separano la struttura di un cristallo da quella di una cellula? E ancora: si possono interpretare un’opera d’arte, una teoria scientifica, una credenza religiosa, un sentimento, come semplici conseguenze di processi chimici che modificano gli interscambi della rete neuronale del cervello?
Verrebbe da sorridere dinanzi a simili ingenuità, se non si trattasse delle credenze che orientano il modo di pensare della quasi totalità delle persone e, tra queste, di alcuni brillanti cervelli della scienza.
Le categorie poste a fondamento dell’indagine scientifica, pur utili ai fini di una spiegazione empirica, mostrano la loro inadeguatezza allorché vengono ipostatizzate come forme logiche del tutto corrispondenti all’essenza delle cose. Le idee di tempo, spazio, causalità, sostanza, materia, non possono rappresentare punti di riferimento assoluti in grado di spiegare il fondamento ultimo della realtà. Se prendiamo in esame, ad esempio, l’idea di continuo spazio-temporale nella fisica relativistica ci rendiamo conto che i concetti di tempo e spazio non possono essere disgiunti da quello di sistema di riferimento di un possibile osservatore, né dalla velocità (relativa) del movimento di un sistema rispetto ad un altro, né dagli effetti prodotti dalle masse gravitazionali. Tutto ciò implica il riconoscimento di una radicale interdipendenza tra il concetto di materia-energia e i concetti di spazio, tempo, movimento. L’assunto newtoniano di una dimensione spazio-temporale assoluta e indipendente dall’esistenza degli eventi, in tale prospettiva, non può che essere abbandonato. Osserva F.Capra:
La meccanica quantistica rivela quindi una fondamentale unità dell’Universo: mostra che non possiamo scomporre il mondo in unità minime dotate di esistenza indipendente. Per quanto ci addentriamo nella materia, la natura non ci rivela la presenza di nessun «mattone fondamentale» isolato, ma ci appare piuttosto come una complessa rete di relazioni tra le varie parti del tutto. Queste relazioni includono sempre l’osservatore come elemento essenziale.
Dalle parole di Capra si evince che la fisica atomica ha rivoluzionato del tutto i princìpi di quella classica, introducendo modelli interpretativi degli eventi osservati che trascendono le categorie fondamentali della visione newtoniana. Dal confronto tra concezione olistica della realtà, verso la quale si orienta la nuova fisica, e dottrina buddhista della produzione condizionata emergono, a tal punto, alcune analogie. Si deve precisare, peraltro, che sussistono anche importanti divergenze tra immagine scientifica del mondo e Dharma, dal momento che quest’ultimo non considera l’universo fisico una realtà a sé stante, dalla quale deriverebbero, attraverso un processo evolutivo, la vita, la coscienza, il pensiero. Nel buddhismo, infatti, la dimensione primaria dell’esistenza è rappresentata dalla mente, nelle sue diverse manifestazioni: di conseguenza non ha alcun senso separare la realtà fisica dalla soggettività. L’idea di un’evoluzione naturale dell’Universo fisico e della vita può avere significato soltanto sul piano relativo - cioè fenomenico - ma non è riferibile in alcun modo alla realtà ultima. La cosmologia, ad esempio, utilizza la categoria di inizio nel tempo come concetto adeguato a descrivere un evento oggettivo, a partire dal quale l’Universo avrebbe assunto l’attuale configurazione. Nella dottrina buddhista, al contrario, l’idea di tempo ha valore soltanto in relazione al movimento ciclico che determina la ruota delle nascite e delle morti: il samsâra. Quest’ultimo, in senso assoluto, non ha inizio, in quanto rappresenta una catena di condizioni perennemente autoperpetuantisi. Di conseguenza, gli interrogativi classici della filosofia e della scienza, relativi all’origine dell’Universo, perdono del tutto ogni significato. Il mondo (samsâra) non ha inizio: origine, durata, annullamento sono categorie che guidano soltanto la rappresentazione fenomenica. La dimensione spazio-temporale è conseguenza dell’illusione e delle contaminazioni mentali: se eliminiamo l’ignoranza originaria (avidyâ), il mondo della molteplicità e del desiderio scompare come un miraggio nel deserto.
«Come una magia, come un sogno, come una città di geni celesti - afferma Nagarjuna - così è detta la produzione, così la durata, così la distruzione» (Madhyamaka Karika, VII, 34). «Irreale e ingannevole, o monaci, è il coeffettuato. In verità, o monaci, solo il Nirvâna, la suprema realtà, è priva di inganno. Irreali e ingannevoli sono i coefficienti» (Candrakirti).
L’idea del carattere non sostanziale del mondo fenomenico rappresenta un assunto fondamentale per giungere alla visione illuminata delle cose. Per la mentalità occidentale, incline a considerare l’oggettività dei fenomeni un postulato indiscutibile della conoscenza, la tesi della mancanza di sostanzialità dei fenomeni costituisce un assunto scarsamente comprensibile. Il concetto di sostanza infatti è talmente radicato nella nostra tradizione filosofico-scientifica da impedire spesso una corretta interpretazione del concetto di shûnyatâ: dell’idea, cioè, che nessun fenomeno ha un’esistenza indipendente dalla totalità.
La scienza contemporanea, pur avendo abbandonato alcuni presupposti tipici del meccanicismo ottocentesco, continua a porre a fondamento delle sue indagini il concetto di materia, inteso quale sostrato ultimo di tutti i mutamenti fenomenici. Vero è che, nella teoria quantistica, l’idea di particella materiale a sé stante non ha più alcun significato, dal momento che i processi osservati concernono trasformazioni di «quanti» di energia; permane tuttavia il postulato di considerare il fenomeno qualcosa di oggettivo e di indipendente dalla descrizione convenzionale. In tal modo, particelle fisiche, atomi, molecole assumono il valore di elementi ultimi rivelati dall’indagine. Si delinea così quella visione scientifica della realtà che ha le sue radici nella stessa fede dogmatica - relativa alla esistenza in sé dei fenomeni - comune al realismo ingenuo e agli indirizzi materialistici. Uno dei concetti basilari del Dharma è quello di anitya (non eternità): nessun fenomeno è permanente, tutto ciò che esiste implica una fase di formazione, una durata, una cessazione. Da tale principio deriva la tesi della mancanza di stabilità di qualunque evento o di qualsiasi condizione: perfino l’esistenza degli dèi viene concepita come limitata nel tempo.
Altro punto di radicale divergenza tra conoscenza scientifica e Dharma è quello concernente il principio di causalità. Nella tradizione occidentale, il rapporto di causa-effetto viene concepito come legame necessario tra due eventi tale che se sussiste il primo (causa) si produce il secondo (effetto). Nella dottrina della coproduzione condizionata, diversamente, gli eventi sono concepiti come serie di anelli interdipendenti dai quali deriva il processo ciclico del divenire. Pertanto, nella suddetta prospettiva, ciò che si produce è, al tempo stesso, effetto e condizione di un altro evento. A tal proposito, Nagarjuna sostiene che nessun fenomeno, in senso assoluto, è prodotto da sé stesso, da altro, da entrambi o senza causa. Ciò significa che il divenire fenomenico appare reale soltanto nella dimensione del samsâra, ma non può essere considerato la vera natura delle cose, dato che i fenomeni sono impermanenti e vacui (shûnyatâ). Se dunque - a livello empirico - i concetti di molteplicità, mutamento, causalità, origine, fine, rendono possibile la conoscenza convenzionale, in una prospettiva volta a definire la realtà ultima tali categorie non hanno alcun valore. In senso assoluto, niente nasce, niente muore: questo il significato di alcune affermazioni enunciate nel Sûtra del Cuore: «Tutti i fenomeni sono meramente vacui e privi di caratteristiche. Non sono prodotti e non cessano, non sono contaminati né privi di contaminazione. Non diminuiscono, né crescono».
Si può dunque affermare che la conoscenza scientifica coglie soltanto l’aspetto fenomenico della realtà, ma non è in grado di andare oltre le categorie mentali che producono l’immagine apparente del mondo. D’altra parte, attribuire ai concetti un valore ontologico indipendente dalla coscienza significa postulare dogmaticamente una piena corrispondenza tra ordine in sé dei fenomeni e riproduzione mentale. La concezione del reale formulata dalla scienza occidentale concerne soltanto l’immagine apparente del mondo, ma in nessun modo il fondamento ultimo delle cose. Uno degli assunti di base dell’indagine scientifica - quello di considerare la mente quale risultato di una evoluzione naturale culminante nell’organismo vivente - trascura il fatto che l’Universo intero, con tutte le sue galassie, quasar, pulsar e buchi neri, diventa una mera ipotesi, nel momento in cui si mette tra parentesi il ruolo dell’«osservatore». L’oggettività, indipendentemente dal soggetto, è una semplice astrazione; e nessun procedimento scientifico potrà mai dimostrare che qualche cosa esiste in sé, a prescindere dalla presenza di una coscienza osservante. È particolarmente significativa un’affermazione del Buddha: «In questo corpo che non raggiunge i due metri, con le sue percezioni e pensieri, c’è il mondo, l’origine del mondo, la fine del mondo e il sentiero che conduce alla fine del mondo» (Anguttara Nikaya, IV, 45).
L’indagine scientifica è perennemente destinata a urtare contro una barriera invalicabile: il dualismo dell’osservazione empirica. Allorché la neurobiologia o la psicologia tentano di spiegare i fatti mentali come processi cerebrali, dipendenti da una base somatica, cadono inevitabilmente nel paradosso di confondere l’oggetto osservato con ciò che si sottrae ad ogni tipo di analisi empirica: la mente. Pur ammettendo che un giorno si possa giungere ad una comprensione esaustiva del funzionamento del cervello nei minimi particolari, il soggetto reale - quello in grado di formulare la spiegazione - non potrebbe, in nessun caso, far parte dell’osservazione stessa. La funzione della coscienza osservante non è mai riducibile all’oggetto osservato, così come l’occhio, pur determinando la visione, non è in grado di vedere se stesso.
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Il movimento esiste per chi ha attaccamenti; ma non c’è movimento per chi è senza attaccamenti.
Quando non c’è movimento, c’è la quiete.
Quando c’è la quiete, non c’è il desiderio.
Quando non c’è il desiderio, non c’è né andare né venire.
Quando non c’è né andare né venire, non c’è né il manifestarsi né lo scomparire, non c’è né questo mondo né un aldilà, e neppure uno stato intermedio tra questi. Questa, in verità, è la fine della sofferenza.Udâna, 8-4
Nella metafisica di Aristotele, la Realtà suprema, l’Atto puro, la compiutezza dell’Essere implicano la totale assenza di movimento: Dio è motore immobile. Di conseguenza, ogni forma di movimento viene intesa come tendenza, più o meno accentuata, a conseguire uno stato di perfezione che coincide con l’immobilità divina. Il movimento degli astri, per il suo carattere ciclico, esprime meglio di ogni altro l’aspirazione a riprodurre, nella dimensione temporale, la perfezione divina, senza tuttavia poterla eguagliare proprio a causa del dinamismo connaturato all’Universo.
Movimento significa tendenza verso qualcosa, sforzo volto ad attuare ciò che ancora non esiste. La temporalità, in quanto espressione universale di ciò che muta, è sempre imperfezione.
La storia, quale dimensione della temporalità umana, è luogo dell’imperfezione, della mancanza, dell’ideale che si allontana all’infinito. La coscienza umana si manifesta come sforzo teso a colmare una carenza; di qui, il continuo agire, la perenne progettualità. L’esistente appare sempre del tutto inadeguato ad appagare il desiderio. Le aspirazioni dell’uomo si esprimono come volontà di affermazione e di potenziamento della vita attraverso l’azione volta a trasformare il reale. Nessuno accoglie la mera fatticità che vela l’Essere, senza l’impulso a modificare l’esistente. L’uomo rifiuta il «qui ed ora», privilegiando piuttosto l’aspettativa di un futuro più o meno lontano. Il programmare, il fare, il desiderare scandiscono l’esistenza.
L’individuo vive costantemente nell’attesa di qualcosa che deve accadere; l’«adesso» viene percepito come inappagante, in quanto mette in luce l’incompletezza di ogni situazione. Perfino nei rari momenti di felicità, l’uomo finisce con lo sminuire la gioia del presente, percependo in modo oscuro il fatto di non poter trattenere a lungo ciò che lo rende momentaneamente felice: l’idea del futuro gli avvelena gli attimi di appagamento.
Vivere nella dimensione del divenire significa tensione verso l’essere. Tuttavia, l’essere si allontana di continuo, come l’orizzonte: più si cerca di raggiungerlo, più appare distante.
Così nasce la speranza: domani, e poi ancora domani, e sempre domani. La vita diventa un susseguirsi di domani.
Il conflitto tra l’esistente e l’ideale si riproduce in ogni momento della storia e della vita: l’oggi si rivela sempre insoddisfacente. La perpetua instabilità delle situazioni esistenziali si traduce nell’impossibilità di mantenere a lungo uno stato di benessere. Il desiderio momentaneamente soddisfatto si rigenera in nuova forma, producendo tensione, inquietudine, insoddisfazione.
La precaria felicità di qualche attimo di piacere rappresenta la forma più sottile di inganno di cui si avvale la mâyâ per rafforzare l’attaccamento al samsâra. Mâyâ è il ripetuto inganno generato dall’attaccamento ad inconsistenti apparenze. Tutto ciò che si trasforma, pur essendo - nella sua intima essenza - dolore, viene percepito come realtà desiderabile. Questa la ragione per cui il Buddha giudicò il mondo come luogo di illusione e di dolore.
La liberazione dalla sofferenza non può essere ottenuta tramite il conseguimento di una condizione di benessere mondano bensì mediante l’emancipazione da tutti i legami che vincolano al samsâra. La sofferenza è immanente alla temporalità.
L’uomo non è: piuttosto, egli vive sempre sul punto di essere, di ottenere, di raggiungere. La vita è progetto che tende all’essere, perenne movimento anelante alla completezza. Movimento, tuttavia, significa abbandono del «qui ed ora» in vista di qualcosa che in atto non esiste. La meta sfugge di continuo, proprio per la ragione che si trasforma in punto di avvio di un nuovo obiettivo. La natura del movimento è tale da non poter mai condurre a destinazione. La meta infatti implicherebbe una condizione di assoluta quiete. È necessario fermarsi, immergersi nell’immobilità: allora, proprio il fatto di non mirare più ad alcuno scopo diventa il traguardo. Il semplice essere «qui ed ora» assume il significato di totale realizzazione: non c’è più nulla da ottenere; l’esistenza è già completa, a prescindere dalla forma specifica attraverso la quale possa manifestarsi. Al contrario, ogni progetto si trasforma in perdita, dato che il semplice fatto di abbandonare l’immediatezza del vissuto implica un perenne cercare. Volere essere o dover essere sono negazioni dell’essere.
In tal modo l’esistenza si scinde in una dualità: ciò che si è attualmente, e ciò che si desidera diventare. Il desiderio si esprime come insoddisfazione nei confronti del presente: significa rifiuto del «qui ed ora».
Nella tradizione indiana, si distinguono due sentieri: pravritti-mârga e nivritti-mârga. L’uno è la via dell’azione motivata dallo svadharma, il dovere proprio di ciascun individuo nell’ordine sociale; l’altra è la via della non-azione, del distacco e dell’abbandono di ogni valore convenzionale. Il jîvanmukta è colui che si è ormai sottratto a tutti i doveri sociali; è il liberato in vita che non ha mete da conseguire. La sua volontà si è acquietata: non sussistono più traguardi da raggiungere, in quanto egli vive in perfetta sintonia con il Tutto, senza alcuna pretesa di affermare la propria individualità separata. Il senso dell’ego si è dissolto nel grande Oceano della vita. Le sue azioni ordinarie - quali camminare, mangiare, dormire - non lo coinvolgono emotivamente: ogni suo gesto, ogni movimento riguardano semplicemente la corporeità, dato che il suo vero essere, anzi il suo non-essere, risiede nella totalità. Il liberato in vita è l’uomo affrancato dalle catene della storicità.
Pura consapevolezza, emancipata dai contenuti mentali, è l’antitesi dell’autocoscienza hegeliana la quale si realizza nel divenire storico. Non si tratta però di regressione alla dimensione preculturale, alla natura; ma di riscoperta dell’essenza autentica al di là della società e della storia.
Situarsi fuori dal tempo significa abbandonare la dimensione dell’apparenza, smascherando le regole convenzionali che garantiscono l’illusoria validità del mondo storico e della cultura.
Il liberato è il muni (silenzioso), dato che la sua esistenza si colloca in una sfera non accessibile al discorso profano. La parola ordinaria, in rapporto alla Realtà, è sempre inadeguata: il suo àmbito di utilizzabilità e di fruizione è il mondo delle apparenze.
Trascendere la storia, la cultura, ma anche la natura, significa vivere nell’eterno presente, dove il tempo si contrae nell’attimo.
L’immediatezza di questo «ora» non implica alcun completamento: la forma e il vuoto si amalgamano nell’esistenza, senza un prima né un dopo. La Realtà è interamente compiuta: non c’è né andare né venire.
Ogni società è organizzata in funzione del mutamento e della trasformazione. L’uomo di oggi è del tutto orientato verso il domani: nella sua vita, il presente è senza significato allorché non si protende verso le possibilità del futuro. Autentica libertà significa libertà dal tempo, dal divenire storico, dall’identificazione con la personalità fenomenica. Il nirvâna è sempre «qui ed ora»; non è mai qualcosa da conseguire, bensì l’attimo atemporale che si contrappone al tempo del desiderio e dell’illusione.
Lo storicismo è la malattia dell’uomo moderno; non per la ragione - come sosteneva Nietzsche - che l’individuo è schiacciato dal peso del passato e della tradizione; ma proprio per il motivo opposto: l’uomo vive nell’attesa di un futuro che dovrebbe sanare le lacerazioni del presente.
La storia imprigiona l’uomo nella sfera del mutamento, impedendogli di conferire senso all’esistenza atemporale. Il contrasto tra storia e vita pienamente attuata nasce dall’impossibilità di conciliare una forma di esistenza volta a cercare valori e significati nel divenire con l’immediatezza dell’esperienza sottratta al fluire del tempo.
La temporalità rimane sempre dimensione della mâyâ; nessuna forma di mutamento storico-sociale potrà mai condurre l’uomo al di là della prospettiva fenomenica. La rottura con l’apparenza, la lacerazione del velo di mâyâ è atto metastorico. Il suo verificarsi interseca la dimensione tra fenomenicità e nirvâna.
La categoria di progresso che orienta l’interpretazione moderna della storia è il postulato di base di una cultura impegnata a negare l’idea di tempo circolare. Per la temporalità ciclica, infatti, l’esistenza è ripetizione, in altra forma, dell’identico. Al contrario, l’ideologia del progresso riconosce soltanto il tempo lineare, dal momento che deve teorizzare la possibilità di una radicale trasformazione dell’essenza della vita. L’uomo, dominatore della natura, è un soggetto che guarda al futuro nell’attesa di una felicità mondana emancipata in modo definitivo da ogni anelito alla trascendenza. La vita diventa così movimento in perenne espansione verso uno stato di completezza irraggiungibile. Il domani, però, è anche il luogo dell’imprevedibile, delle possibilità indefinite. Di qui l’esigenza di programmare e di controllare il mutamento. L’accumulazione di denaro e di beni economici diventa allora un mezzo per ottenere garanzie contro le incertezze del futuro. Gli oggetti materiali, con la loro solidità e concretezza, rassicurano l’uomo nei confronti dell’angoscia generata dall’idea di precarietà e di rischio, sempre associata al pensiero del futuro.
Il dinamismo frenetico della società attuale rivela un movimento accelerato della «ruota» del samsâra. Il cerchio gira a velocità crescente: scienza e tecnologia hanno impresso energia cinetica al samsâra. L’uomo corre in ogni direzione, utilizzando mezzi di spostamento sempre più rapidi. La sua corsa, la sua fretta, il desiderio di ridurre i tempi morti - le situazioni non utilizzabili, cioè, per produrre e consumare - esprimono una volontà titanica impegnata nella trasformazione dell’esistenza. Vivere, per la maggior parte delle persone, significa proprio questo correre qua e là alla ricerca di nuove mete.
Sartre affermava: l’uomo è progetto, è aspirazione ad essere Dio. Eppure, tale ambizione è destinata allo scacco; proprio per la ragione che il futuro, allorché diventa attualità, non è mai appagante. Il movimento, in se stesso, implica l’impossibilità di soddisfare in modo esaustivo il desiderio. Quest’ultimo si estingue soltanto allorché si comprende che non c’è proprio nulla verso cui vale la pena tendere. Allora, la vita fluisce in un presente atemporale, nell’assenza di ogni progettualità. Si vive nella pura presenza che non vuole realizzare alcunché, quasi al confine tra essere e nulla.
Il liberato, col suo silenzioso scivolare nella vita, sembra - visto dall’esterno - procedere nello spazio-tempo; ma, in realtà, il suo vero centro è l’immobilità divina. Il mondo delle apparenze ruota intorno a lui come perenne movimento che non può raggiungerlo né contaminare la sua completezza mediante l’impulso a divenire. La silenziosa immobilità dello yogin, assiso in samâdhi, assume il valore emblematico di una realtà per la quale il tempo si è arrestato, lasciando evaporare l’illusoria concretezza del mondo. In questo «ora» atemporale l’inquieto avvicendarsi delle apparenze, animato dal desiderio e dall’ignoranza, è svanito come per incanto. Vita e morte si riconciliano in un abbraccio che segna la trascendenza della molteplicità. Adesso lo yogin ha ritrovato la sua reale natura: tutto il resto è sogno, illusione, dolore.
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