Introduzione
1. Ciclicità del tempo
2. L’energia del samsâra
3. Fenomenologia della coscienza samsârica
4. La produzione interdipendente
5. L’assenza del soggetto
6. Samsâra e Vacuità
7. La conoscenza liberatrice
Epilogo
PASSI SCELTI
È comprensibile il fatto che il confronto tra visioni del mondo tanto lontane tra loro, quanto la distanza che separa le correnti della spiritualità indiana dalla civiltà occidentale contemporanea, debba inevitabilmente suscitare un senso di disorientamento, generato dalla constatazione che esistono concezioni dell’esistenza talmente diverse da quella che tende a prevalere oggi nel mondo, da sollevare il dubbio che tali espressioni del pensiero e simili esperienze esistenziali possano appartenere alla dimensione umana: affiora il recondito sospetto, quasi, che una così radicale differenza di paradigmi culturali e di modalità del vivere appartengano a una civiltà extraterrestre, piuttosto che a una cultura del genere umano. Tale considerazione concerne le tre grandi tradizioni spirituali dell’India - induismo, buddhismo, jainismo - le quali, pur nella diversità della loro concezione religiosa, condividono alcune categorie interpretative della realtà che conferiscono alla civiltà indiana un’impronta peculiare, differenziandola da altri modelli socio-culturali. Tali presupposti evidenziano le ragioni per cui si originano equivoci e difficoltà connessi al tentativo, da parte occidentale, di penetrare in un universo culturale affatto estraneo alle forme di pensiero che hanno scandito lo sviluppo storico della nostra tradizione. Termini quali samsâra, karma, yoga, se pur entrati a far parte del linguaggio occidentale, esprimono in effetti interpretazioni del mondo il cui significato rimane inevitabilmente precluso a tutti coloro che tentano un approccio alla civiltà indiana mossi da semplice curiosità o con animo ricolmo di fallaci aspettative espresse dalla speranza di poter conseguire una superiore saggezza, mediante la frequentazione di qualche Centro di divulgazione di questa o quella tradizione, ovvero trascorrendo qualche periodo di soggiorno in India. Non è azzardata nemmeno l’ipotesi che alcune idee fondamentali della tradizione indiana rimangano oscure perfino per i cultori occidentali di indologia; e ciò per il fatto che la spiritualità indiana non nasce da astratta speculazione, né da studi eruditi di qualche dotto, ma costituisce una tradizione radicata nelle esperienze interiori di individui eccezionali, capaci di vedere la realtà da un’angolazione del tutto differente da quella comune. Per accostarsi allo spirito di simili esperienze occorre ben altro di una trasposizione della letteratura originale in lingue occidentali; in quanto un’autentica comprensione può generarsi soltanto dalla condivisione di una particolare interpretazione dell’esistenza. In tal senso, comprendere significa poter rivivere l’esperienza dalla quale si è originata la trasmissione di una verità trascendente il modo ordinario di sperimentare fatti e situazioni esistenziali. Pertanto la mera conoscenza teorica ovvero l’erudizione non possono generare, in coloro che si accostano con simile atteggiamento, alcuna autentica trasformazione della personalità: scopo, quest’ultimo, che rappresenta il vero obiettivo di ogni insegnamento proveniente dal suolo indiano. V’è un ulteriore motivo di delusione per coloro che tentano di conoscere le tradizioni dell’India: senza divenire un «risvegliato» non si riesce a «vedere» il Dharma del Buddha; né a penetrare nello spirito delle altre correnti religiose indiane. Si potrebbe obiettare, a tali considerazioni, che esiste anche un livello medio - diciamo un minimo comune denominatore - della capacità umana di comprendere. Certamente! Tuttavia, finché si rimane ancorati a tale livello, ci si dovrà accontentare di alcune indicazioni pratiche concernenti la condotta etica, le quali sono in fondo presenti in ogni tradizione religiosa sostenuta da un comune buon senso.
Il buddhismo, nella sua espressione popolare, si configura come una delle diverse manifestazioni del sentimento religioso; ma, allorché ci si immerge nella profondità abissale del Dharma, tutto viene rivoluzionato sin dalle fondamenta: a quel punto, ci si rende conto che le opinioni, le ideologie, le presunte certezze, i valori della nostra formazione occidentale costituiscono poco più di mere illusioni. Le suddette considerazioni non implicano affatto che la popolazione indiana sia costituita da una moltitudine di yogin, di sâdhu, di jîvanmukta, di arhat o di bodhisattva. Anzi, come avviene in ogni civiltà, la stragrande maggioranza della gente vive una condizione esistenziale del tutto ordinaria, a parte le diversità di costume e di usanze tradizionali; è vero però che anche il comune stile di vita risente in qualche modo di un’atmosfera diversa, di un’aria di spiritualità che avvolge perfino i gesti più abitudinari del vivere quotidiano. La gente comune coltiva un sentimento religioso che si esprime nella bhakti; cioè nella devozione a questa o quella forma del divino; d’altra parte le masse non sono mai riuscite ad accedere a qualche espressione di religiosità che non fosse quella espressa in forma mitologica. Allorché tuttavia, al di là degli aspetti folkloristici della cultura indiana, si approfondiscono le ragioni che hanno alimentato simile orientamento verso l’esistenza ci si rende conto di quanta sorprendente saggezza e folgorante intelligenza si celino al di sotto di un multiforme scenario di fantasiose immagini e di rituali apparentemente assurdi.
Non è possibile accostarsi alla cultura tradizionale dell’India senza attribuire il valore dovuto al principio espresso dal termine samsâra: si tratta di un’idea che regge come pilastro portante l’intera costruzione di concetti e di insegnamenti che l’India ha trasmesso nel corso della sua storia millenaria. Già, di per sé, il fatto che ben tre tradizioni molto diverse tra loro - induismo, buddhismo, jainismo - condividano questo paradigma di riferimento della loro interpretazione della realtà fenomenica è alquanto indicativo dell’importanza e della funzione centrale di questa categoria. Il concetto di rinascita, nella storia della civiltà occidentale, ha fatto talvolta una timida apparizione, configurandosi peraltro come metempsicosi: una versione cioè più compatibile con l’idea di un’anima individuale immortale. Tuttavia né il tempo ciclico, né l’idea di trasmigrazione delle anime hanno avuto particolare sviluppo nella tradizione occidentale, eclissandosi del tutto con l’avvento del cristianesimo, tenace oppositore di tali principi.
L’altra categoria centrale del pensiero indiano è rappresentata dal concetto di avidyâ, nescienza, stato di offuscamento mentale che impedisce di vedere la reale natura dei fenomeni. è un’idea del tutto diversa da quella di peccato; concetto che ha accompagnato di continuo lo sviluppo della tradizione religiosa dell’Occidente. Il peccato infatti comporta la trasgressione di un divieto divino; mentre l’ignoranza non rappresenta né uno stato di decadenza da una condizione originaria d’innocenza, né la violazione di un codice di condotta imposto dalla legge divina. L’ignoranza è l’evento originario di una realtà senza inizio; l’apparente paradosso cade allorché la relazione tra i due concetti venga letta nel contesto di un tempo ciclico anziché lineare. Nel momento, in certo senso ideale, in cui appare la vita, per questo stesso fatto, c’è ignoranza; d’altra parte neppure l’ignoranza può esistere senza la presenza di qualche forma di vita.
Già da questi primi cenni ci si rende conto di essere di fronte a modalità logiche diverse da quelle usuali: non c’è causa prima, origine assoluta, Principio indipendente dal mondo. Per accostarsi a tali interpretazioni della vita è indispensabile riesaminare criticamente le nostre abituali categorie interpretative del reale; infatti, senza tale revisione, si rischia di fare uso di concetti e di analisi del tutto incompatibili con l’architettura complessiva del pensiero indiano.
Il modello occidentale di società, derivante da una rivoluzione scientifica e tecnologica, pone l’uomo dinanzi a molteplici interrogativi che non possono trovare alcuna risposta nel campo dell’indagine scientifica. Eppure tali interrogativi sollevano questioni di decisiva importanza relative al senso ultimo dell’esistenza umana; che poi sia possibile o meno rinvenire un significato generale della vita è problema che trascende la sfera del sapere scientifico, configurandosi piuttosto quale tema pertinente ad altri àmbiti di ricerca: filosofia, religione, antropologia.
La mistificante immagine di una società capace di esaudire qualunque bisogno umano, mediante l’utilizzazione di sofisticate tecnologie, nasconde in realtà uno stato di malessere percepibile nelle grandi città, dove i ritmi frenetici, la fretta, la competizione per il successo rendono l’esistenza quotidiana degli individui simile a una gara dove i concorrenti arrivati ultimi saranno eliminati. Certo, l’esistenza non è mai stata facile in nessuna epoca storica; ma, attualmente, il modello occidentale vuole mascherare questa essenziale connotazione della vita, definita duhkha (sofferenza) dalla tradizione indiana, sotto il manto illusorio di una società opulenta, soddisfatta di uno stato di benessere economico, capace di offrire a ogni individuo le possibilità più conformi alle sue aspirazioni.
Probabilmente proprio per i suddetti motivi si sta diffondendo, in Occidente, un certo interesse per le forme di spiritualità orientale; anche se, nella maggior parte dei casi, si tratta di effimera curiosità che scaturisce dall’aspettativa di trovare nuovi punti di riferimento in grado di offrire soluzioni efficaci per il superamento di uno stato di disagio psicologico dovuto a uno stile di vita privo di autentici valori esistenziali. Il più delle volte, tali aspettative si traducono in delusione, originata dal fatto di dover constatare le insormontabili difficoltà derivanti dall’attuazione pratica di alcune norme di condotta, comuni alle forme di spiritualità indiana, in un contesto sociale dove prevalgono comportamenti e aspirazioni orientati in direzione del tutto opposta. Così, in Occidente, lo yoga diventa una specie di ginnastica dove manca qualsiasi riferimento ai prerequisiti etici necessari alla pratica; mentre altre correnti dell’induismo, del buddhismo, delle tradizioni cinese e giapponese vengono rappresentate, prevalentemente, da sedicenti maestri interessati a incassare quote di iscrizione a questo o quel corso di esotiche discipline o di insegnamenti esoterici, piuttosto che a diffondere i veri fondamenti della saggezza orientale. Di qui un’illusione tipicamente occidentale, quella di poter comprare qualsiasi cosa: perfino una spiritualità radicata in millenarie civiltà, quasi si trattasse di un nuovo modello di telefonino o di un viaggio in India. Pochi si rendono conto del fatto che adottare nuovi paradigmi di valutazione del senso della vita, partendo da una formazione di tipo occidentale, significa sradicarsi dalla propria cultura, per trapiantarsi, ammesso che la pianta non appassisca, in un terreno del tutto diverso. L’operazione è complessa e, allorché perviene a un esito positivo, comporta un’inevitabile conseguenza, la quale potrebbe apparire a qualcuno un prezzo troppo alto da pagare: quella di sentirsi totalmente estranei ai valori e alle opinioni che guidano la condotta degli individui nella società occidentale.
La divulgazione del buddhismo in Occidente, nonostante la buona volontà di pochi effettivi maestri di saggezza, va incontro a due generi di problemi: il primo, quello di una pedissequa imitazione di modelli nati in paesi radicalmente diversi, quanto a cultura, tradizione, abitudini di vita: il secondo è rappresentato dalla possibilità che, nel tentativo di adattare il Dharma al contesto socio-culturale dell’Occidente, i principi di base dell’insegnamento vengano snaturati per conformarli allo stile di vita occidentale.
Il Dharma del Buddha, anche se nell’evoluzione storica ha assunto la forma di una vera e propria religione popolare, costituisce una visione del mondo difficilmente accessibile a gente che aspira solo a una migliore condizione di vita. In certi casi sarebbe più opportuno rimanere radicati nel terreno, più facilmente coltivabile, della nostra tradizione spirituale piuttosto che avventurarsi in percorsi irti con rischi di smarrimento.
La maggior parte delle persone che si accostano al buddhismo in Occidente cerca facili soluzioni ai problemi esistenziali, ignorando che tutte le difficoltà dell’esistenza scaturiscono da una falsa immagine della realtà e di se stessi alimentata con cura dal senso dell’ego. è evidente però che non costituisce impresa di poco conto modificare una rappresentazione della realtà originatasi parallelamente al processo di acculturazione nel contesto di un modello di tipo occidentale. L’individuo che vive in base ai punti di riferimento del mondo occidentale ha ormai introiettato opinioni collettive, valori, bisogni pratici, aspirazioni, forme di reazione emozionale: in breve, la sua personalità è stata plasmata, assumendo connotazioni tipiche difficilmente modificabili.
La concezione naturalistica del mondo che ha caratterizzato lo sviluppo della civiltà occidentale dall’illuminismo in poi, per quanto abbia generato alcune conseguenze positive sul piano economico-sociale, scientifico e tecnologico, è responsabile della perdita di una visione olistica della realtà per la quale ogni evento del divenire è intimamente connesso a tutto il resto. Il buddhismo ha costantemente ribadito quest’idea d’interdipendenza di tutti i fenomeni, sottolineando altresì che ogni avvenimento è conseguenza di azioni (karma) positive o negative dalle quali derivano condizioni più o meno favorevoli dell’esistenza. Questo principio comincia a essere riconosciuto da alcune discipline quali l’ecologia ovvero l’analisi dei fenomeni atmosferici e climatici: non è possibile modificare alcuni specifici fattori senza produrre profondi mutamenti nell’equilibrio generale del pianeta. In modo analogo i comportamenti umani, allorché non tengono conto di un ordine generale che sta a fondamento della realtà, producono effetti che sfuggono al controllo, generando situazioni negative del tutto imprevedibili. Il concetto di avidyâ (ignoranza), nella tradizione indiana, include anche questa forma di cecità che impedisce di avere consapevolezza dei risultati delle azioni motivate da brama, avversione, illusione.
Queste ultime energie psichiche appaiono particolarmente intense, oggi, in un mondo dominato dalla sete di accumulazione di beni materiali, dall’aggressività nei confronti di tutto quello che ostacola l’aspirazione alla supremazia economico-politica e culturale, dall’illusione di poter esaudire l’eterno desiderio umano di una realtà in grado di garantire duratura felicità. Su questo piano nasce l’assoluta divergenza tra ottica occidentale e tradizione spirituale della civiltà indiana. L’India infatti non ha mai guardato alla realtà fenomenica come autentica dimensione dove l’uomo dovrebbe cercare il senso della vita; infatti, anche nei momenti più favorevoli alla realizzazione di modelli sociali capaci di appagare diverse istanze dell’essere umano, non sono mai mancate quelle condizioni che la spiritualità indiana definisce duhkha, sofferenza. Duhkha costituisce l’essenza della vita, almeno sino a quando si coltiverà l’illusione di un io proteso verso questo o quel traguardo: nell’esistenza samsârica, tutte le mete hanno valore relativo e in nessun caso possono rappresentare una condizione esente da insoddisfazione, instabilità dei risultati, transitorietà dei benefici ottenuti. Allorché lo sguardo viene esteso a un più ampio orizzonte, emerge la consapevolezza che tutti i traguardi mondani, per la loro natura impermanente, non possono garantire altro, nel migliore dei casi, che un effimero stato di benessere destinato a svanire. Molti, nella società attuale, ritengono che in fondo non esistano altre possibilità se non quella di cercare una condizione di relativa felicità nell’esistenza fenomenica, dal momento che, secondo tale prospettiva, non ci sono alternative a tale aspirazione. Ciò spiega la preminenza assunta da obiettivi pratici e da scopi interamente mondani: soltanto pochi aspirano a un’autentica libertà spirituale, la quale comporta inevitabilmente un dover prendere le distanze da tutto ciò che l’uomo comune considera importante e degno di essere perseguito come finalità della vita. Il fatto di non essere più coinvolti nella dimensione samsârica significa vedere il mondo come apparenza transitoria che non può giustificare alcuna forma di impegno volto al cambiamento di una realtà destinata a rimanere essenzialmente la stessa. La gente comune crede, al contrario, nel mutamento e nutre sempre la speranza di un domani migliore: nel samsâra, qualora si osservino gli eventi al di là delle apparenze, il domani è uguale a oggi. Una visione universale del mondo - cioè una prospettiva capace di accantonare il senso dell’io - rivela costantemente lo stesso scenario: nascita e morte, gioia e angoscia, successo e fallimento, piacere e dolore. Allorché invece l’esistenza viene valutata in base alle aspirazioni egocentriche, non può che generarsi una visione distorta della vera realtà. Se il fatto che ogni giorno, nel mondo, in un solo secondo muoiono circa tre persone e nascono cinque esseri umani non ci riguarda, per il fatto che si è interamente assorti nei problemi personali, allora non si riuscirà in alcun modo a percepire l’essenza della vita. Infatti, se tra alcune condizioni esistenziali più vantaggiose e la vita di miliardi di individui condannati a subire molteplici forme di sofferenza non si riuscirà a vedere alcuna relazione, ciò comporterà la possibilità di uno stato di ignoranza della vera natura del samsâra. Le suddette considerazioni non implicano di trasformare la realtà mondana, ma evidenziano il fatto che il senso dell’io impedisce di percepire esattamente le caratteristiche dell’esistenza. La forza oscurante è appunto l’illusione: quell’energia psichica che spinge ogni essere umano a sperare nel futuro, ad attendere una felicità che, anche qualora arrivasse, avrebbe la durata di un sogno.
Tutti i problemi umani derivano dalla mente dominata dall’ignoranza, cioè dall’incapacità di percepire in modo esatto fatti e situazioni della vita. Diversamente dalle psicologie occidentali, le quali mirano a curare il disagio psicologico dell’individuo, determinato prevalentemente da conflitti emotivi, la cultura indiana vede nella mente uno strumento che esplica funzioni di semplice adattamento alle istanze ambientali. In altri termini, la mente normale è incapace di comprendere le vere cause che sostengono l’esistenza, in quanto la sua naturale tendenza è quella di cercare risposte soddisfacenti per il semplice adattamento alle condizioni socio-culturali. La verità assoluta trascende le possibilità della mente ordinaria, dato che richiede l’abbandono di tutte le comuni opinioni e ideologie che caratterizzano le modalità del pensiero pragmatico e utilitaristico. Tale verità dunque non offrirà soluzioni per rendere il samsâra più conforme ai desideri umani; al contrario, determinerà distacco nei riguardi della realtà fenomenica e abbandono dell’autoidentificazione con la personalità empirica. Ciò implica che, quando si vive nella Verità, non c’è più «nessuno» che appartenga alla dimensione mondana. Coloro che cercano nelle forme di spiritualità orientale risposte adeguate alla soluzione delle loro difficoltà quotidiane appaiono simili a chi volesse sfuggire alla forza gravitazionale terrestre utilizzando la propria automobile. I sentieri spirituali dell’India richiedono un impegno totale che può durare tutta una vita o, come viene detto nella tradizione indiana, «innumerevoli vite»; un costante sforzo volto a trasformare una personalità dominata dall’illusione e da altre contaminazioni mentali in uno stato di consapevolezza che guardi al samsâra come a un inutile quanto doloroso peregrinare in un circolo privo di scopi conclusivi. La meta dell’esistenza non si trova nel samsâra, ma consiste precisamente nel non appartenere più alla dimensione illusoria del mondo. Se si accetta quest’ultima asserzione allora la tradizione indiana ha molto da insegnare all’Occidente; in caso contrario è del tutto inutile cercare nelle correnti spirituali dell’India ciò che esse non possono in alcun modo offrire.
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Allorché s’intuisce il vero significato della genesi condizionata, tutte le categorie ordinarie di interpretazione della realtà vengono rivoluzionate nel loro valore conoscitivo. Perfino l’idea di mondo appare inadeguata a definire l’accadere fenomenico, in quanto il continuo mutare degli eventi non è altro che la concatenazione dei dodici anelli della produzione condizionata.
Ogni concezione del mondo fondata sul dualismo gnoseologico soggetto-oggetto rivela una visione dei fenomeni non corrispondente a ciò che di fatto accade nel processo del divenire; la contrapposizione tra soggetto e oggetto infatti, dal momento che spezza l’unità del reale in polarità antitetiche, rende problematica la relazione tra aspetti differenti, ma essenzialmente interdipendenti, della totalità. L’idea di soggettività rappresenta soltanto un’elaborazione concettuale alla quale nulla corrisponde nella concreta esperienza fenomenica; infatti ciò che esiste è costituito in realtà da processi che consistono in relazioni tra eventi. L’intelletto analitico tuttavia non può esplicare la propria funzione al di là di un’interpretazione dualistica del reale: la struttura stessa della logica e del linguaggio infatti è interamente fondata su proposizioni che collegano o disgiungono soggetto e predicato. Il verbo essere, nel suo uso predicativo, ha la funzione di affermare o negare specifiche qualità di un presunto sostrato sostanziale. Cosa conseguirebbe allora se venisse negata l’esistenza di un soggetto quale fondamento dei vari attributi? In primo luogo, non sarebbe più possibile affermare che A è X ovvero Y; in tal caso però anche gli attributi X e Y perderebbero la loro funzione in quanto mancherebbe il supporto al quale si riferirebbero: ciò comporterebbe la destrutturazione del sistema di relazioni ordinarie della logica.
È evidente che la teoria della produzione condizionata si basa su un modello logico alternativo a quello utilizzato comunemente, dato che i termini della relazione sono collegati in base a un principio di reciproca dipendenza: se esiste A allora c’è B; B esiste, quindi c’è A; ma da B dipende C e così via per l’intera serie. Nessuno dei termini della relazione ha la funzione di soggetto, né quella di predicato, in quanto si tratta di un rapporto di reciproca implicazione di elementi di un insieme, dove la presenza di ognuno condiziona quella di tutti gli altri. In questa prospettiva, la realtà fenomenica appare come sistema di relazioni caratterizzato dall’interdipendenza di tutti i fattori costitutivi; questi ultimi però non hanno alcun tipo di esistenza al di fuori della loro connessione con l’intera serie. Se, ad esempio, si prende in considerazione il concetto di individuo, appare chiaro che, in tale sistema logico, non s’intende un’entità autonoma, bensì una specifica struttura relazionale di tipo dinamico; un individuo dunque si configurerebbe come processo che si viene costituendo mediante una costante connessione con altri eventi.
Prendendo in esame l’anello quattro della produzione condizionata - corpo-mente - si evince che tale fattore del divenire samsârico può esistere solo a condizione della presenza degli altri anelli della concatenazione: in sé, non possiede alcuna forma di realtà indipendente. La comparsa di una specifica individualità, considerata di solito un soggetto autonomo, rappresenta soltanto un fattore tra quelli che, nella loro reciproca relazione, generano un accadere di eventi definito samsâra: non esiste alcuna entità che non sia espressione della serie di condizioni che determina la sua esistenza. Di conseguenza se c’è individuo, allora esiste un apparato sensoriale dal quale deriva il contatto con un ambiente che genera sensazioni piacevoli, dolorose e neutre; ciò determina attrazione-repulsione e così via. In senso inverso, si può affermare che esiste individuo in quanto c’è una forma di coscienza depositaria di tendenze karmiche dovute all’ignoranza senza inizio. Tuttavia, allorché l’individualità empirica scompare (dodicesimo anello), la catena si riproduce, dando origine a una nuova serie di esperienze samsâriche definita rinascita.
Volendo precisare ulteriormente il senso di una concezione dell’esistenza caratterizzata dall’assenza di soggettività sostanziale, è utile precisare che nella dottrina buddhista l’individuo è costituito da una serie di processi: 1) attività corporee (il corpo è un fenomeno ordinato in base a leggi organiche); 2) sensazioni (cioè reazioni di piacere, dolore o indifferenza a stimoli che colpiscono l’apparato sensoriale); 3) distinzione percettiva e ideativa di forme, condizioni ambientali, situazioni e altro; 4) impulsi mentali che generano comportamenti; 5) atti di coscienza relativi ai precedenti eventi. Abbiamo dunque cinque categorie di fenomeni interdipendenti che indicano una struttura funzionale dalla quale dipende l’esistenza di un presunto soggetto.
L’individuo è un fenomeno caratterizzato da una costante trasformazione regolata dalla legge del karma. La presunta identità personale si riduce pertanto alla continuità di atti (karma) derivante dalla connessione funzionale dei cinque aggregati. Dall’analisi empirica dei contenuti effettivi della vita psico-fisica non emergono altri elementi o fattori che non siano quelli indicati con la denominazione di aggregati (skanda). In ogni momento dell’esistenza di un individuo si verificano processi corporei e mentali: tali eventi rappresentano ciò che di fatto si può sperimentare. L’idea di personalità, intesa quale struttura fondata su un ipotetico ego, costituisce l’errore fondamentale di ogni psicologia sostanzialista, alla quale il buddhismo contrappone la dottrina dell’anâtman (non sé).
Il concetto di anâtman non riguarda soltanto il soggetto, bensì anche gli oggetti dell’esperienza: nessuna cosa infatti possiede un nucleo stabile di tipo sostanziale. L’assenza di un fondamento immutabile implica che la realtà fenomenica sia costituita da una serie di eventi caratterizzati da instabilità: nulla permane, tutto si trasforma in ogni attimo. Il principio dell’impermanenza di qualunque fenomeno (anitya) non assume, nel buddhismo, il significato ordinario, cioè quello di cose e persone aventi una certa durata temporale prima di giungere alla fine, ma allude al fatto che ogni evento costituisce una momentanea aggregazione di elementi caratterizzati da instabilità: tutto ciò che si forma in un certo momento, si dissolve nell’attimo seguente. In tale prospettiva, il vissuto reale di un presunto soggetto si riduce a flusso continuo di percezioni, pensieri, emozioni, stati corporei, intenzioni, relazioni con l’ambiente, ricordi, fantasie; il tutto coordinato in una continuità temporale caratterizzata da tracce lasciate dalle mutevoli esperienze.
A tal punto può sorgere una domanda relativa al soggetto di tali esperienze: chi agisce, chi pensa, chi prova questa o quella sensazione? In assenza di un nucleo stabile della personalità, è inevitabile rispondere che gli atti di coscienza che accompagnano le diverse esperienze generano una serie continua dove ogni stato consapevole è condizione di quello seguente. Pertanto, così come nella serie di numeri pari l’insieme non ha altra esistenza se non quella determinata dalla totalità di numeri in esso compresi, allo stesso modo, nel flusso esperienziale, la personalità non esiste come entità indipendente, ma è rappresentata dalla serie di contenuti psicofisici generante il processo dell’esperienza individuale. Dal momento però che i singoli contenuti di esperienza mutano di continuo, non si può intendere l’individuo come un’entità sempre identica; infatti, manca del tutto un sostrato immutabile che funga da supporto dei cinque aggregati. L’ipotetica soggettività di conseguenza si configura quale continuum di stati psicofisici da cui deriva l’illusione di una persona sempre uguale, così come una fiamma alimentata da un combustibile sembra stabile, nonostante il movimento continuo del processo di combustione.
Per le suddette ragioni, non si può propriamente parlare di individui che sperimentano le condizioni del samsâra, ma di un divenire samsârico che genera l’apparenza di individualità caratterizzate da specifiche connotazioni. Nel processo senza inizio definito samsâra, la coscienza rappresenta il fattore di collegamento di una molteplicità di eventi in una serie temporale regolata dalla legge del karma; di conseguenza il presunto individuo non è altro che una frazione del divenire, caratterizzata da particolari esperienze piacevoli, dolorose e neutre. In altri termini, l’individualità fenomenica è la manifestazione temporanea della coscienza samsârica; cioè di un’energia psichica contaminata dall’ignoranza. La vita individualizzata è la manifestazione dell’ignoranza in una molteplicità di forme; per tale motivo la nascita è sempre accompagnata da uno stato di coscienza dominato dall’illusione. Gli esseri viventi non costituiscono entità stabilmente definite, ma rappresentano piuttosto l’apparire in forme differenziate delle conseguenze karmiche dell’ignoranza.
Il principio di individuazione, in base al quale il divenire samsârico si manifesta come molteplicità di forme viventi, produce l’illusione di esseri autonomi esposti alla sofferenza; in realtà duhkha costituisce l’essenza del samsâra, mentre gli individui rappresentano il fenomenizzarsi di duhkha. Non esistono individui che soffrono, ma una sofferenza che assume la parvenza di individualità distinte. è il movimento stesso della Ruota dell’esistenza a generare sofferenza: gli individui rappresentano la forma più o meno intensa assunta da duhkha nel suo manifestarsi. Il processo samsârico è del tutto impersonale: le sue caratteristiche - dolore, impermanenza dei fenomeni, non sostanzialità - non riguardano, in senso proprio, esseri viventi, ma processi vitali che rispecchiano tali caratteristiche. Non c’è un «io» o un «tu» che soffre, ma una sofferenza che assume le sembianze di io, ovvero di tu. Di qui la compassione universale che caratterizza, sul piano etico, il buddhismo: la sofferenza in ogni sua forma è l’esperienza universalmente condivisa da ciò che vive. L’esistenza samsârica è dolore; perfino quando si nasce nei «paradisi celestiali»: nessuno può essere risparmiato, poiché duhkha è la connotazione fondamentale del samsâra.
Il fenomeno che rivela in modo più esplicito il carattere illusorio della personalità umana è quello dell’innamoramento. L’attrazione provata nei riguardi di una persona genera progressivamente un’immagine dell’altro caratterizzata da un insieme di qualità positive: colto, bello, intelligente, affascinante e così via. Il pensiero origina un’idea, mediante la quale a un particolare soggetto vengono attribuiti specifici requisiti concepiti come qualità dell’altro. In realtà l’elaborazione concettuale rappresenta solo una razionalizzazione di sentimenti e vissuti emozionali particolarmente intensi. Quando tali stati irrazionali che alimentano la passione subiscono una trasformazione, l’immagine muta in modo analogo. L’altro costituiva soltanto un’elaborazione della mente: in effetti si trattava di una relazione non tra persone, ma tra eventi caratterizzati da emozioni, pensieri, esperienze condivise, percezioni, aspettative e così via. L’amore, dunque, non un rapporto tra individui, ma un processo impersonale regolato da forze istintuali preposte alla conservazione della vita!
La mente controllata dall’illusione è una funzione che falsifica la vera natura dei fenomeni; costituisce un efficiente strumento nelle mani di mâyâ per far apparire ogni cosa tutto l’opposto di quel che è nella sua essenza autentica. La conoscenza empirica ha il solo scopo di assecondare le istanze vitali; ma da essa non ci si può aspettare alcuna consapevolezza delle vere caratteristiche della realtà. A questo genere di sapere la tradizione indiana contrappone la vera conoscenza rappresentata da vidyâ, prajñâ, jñâna: visione diretta della natura autentica dei fenomeni.
Vedere l’essenza della realtà comporta inevitabilmente uno sguardo non filtrato dal senso dell’ego; è necessario cioè osservare il mondo da una prospettiva impersonale, la quale consente di percepire l’individualità come fenomeno: un’apparenza tra le altre dove, sotto il velo di mâyâ, è nascosta la completa assenza di fondamento sostanziale. Da tale punto di vista, la soggettività empirica appare come un’illusione dalla quale deriva la parvenza di un ego duraturo e stabile; disidentificarsi da tale apparenza è la premessa necessaria di una conoscenza autentica delle cose. Sino a quando infatti il senso dell’io alimenterà l’autoidentificazione con un corpo-mente, l’immagine del mondo risulterà falsata da questa erronea credenza. Il soggetto empirico è un prodotto del potere di mâyâ, dal quale trae origine la fede in un ego correlato a una molteplicità di eventi, di oggetti, di condizioni che, nel loro insieme, generano l’immagine di un mondo oggettivo la cui esistenza appare indubitabile. Muovendo dall’esperienza di una realtà esterna, la mente elabora l’idea di un io separato dall’ambiente: a tal punto, nasce il dualismo basato sulla contrapposizione io - altro da me.
È opportuno precisare che la mente non costituisce un ego, ma una funzione impersonale: l’idea di persona è un prodotto dell’attività mentale. In senso analogo, i cinque aggregati non rappresentano una persona, bensì un processo dinamico regolato dalla legge del karma. Sono appunto le molteplici azioni a generare la continuità seriale che distingue un presunto individuo da un altro. L’azione (mentale, verbale, fisica) lascia tracce nella mente, mentre le tendenze che si vanno accumulando nel tempo definiscono in modo specifico un certo orientamento del processo individuale. In tal senso l’individuo è il concretarsi progressivo degli effetti karmici: ogni azione genera una tendenza mentale; cosicché un’accumulazione di predisposizioni produce l’apparenza di una personalità definita. I connotati psicofisici di un individuo costituiscono l’espressione fenomenica del karma: ciò che appare è il risultato globale di una molteplicità di conseguenze karmiche. Così come la genetica interpreta le caratteristiche dell’individuo quale eredità biologica, in modo analogo la legge del karma si esprime in una molteplicità di condizioni esistenziali che assumono l’aspetto di individui autonomi. La personalità è una maschera, dietro la quale si cela la realtà autentica: il risultato delle azioni che hanno impresso tracce nella coscienza samsârica (terzo anello).
Gli elementi costitutivi dell’individualità (quarto anello) hanno la funzione di conferire una forma fenomenica all’energia karmica; per tale motivo, nel Canone buddhista, vengono riportate le seguenti parole del Buddha:
Proprietari dell’azione sono gli esseri: eredi dell’azione, generati dall’azione, figli dell’azione, dipendenti dall’azione. L’azione determina gli esseri, quanto a inferiorità e superiorità.
Il passo citato evidenzia che il manifestarsi di forme di vita costituisce il fenomenizzarsi di tendenze karmiche accumulate nel corso di un tempo ciclico privo di inizio. L’azione dell’individuo non costituisce un evento isolato, ma rappresenta la continuazione di un’attività karmica priva di origine temporale. Le tendenze che il nuovo nato porta con sé costituiscono il potenziale dal quale prenderà l’avvio la prosecuzione di una serie di atti definiti comportamento dell’individuo. L’attività karmica è dunque il legame dal quale dipende la sequenza di eventi che appare come esistenza individuale. Si potrebbe affermare che l’individuo è l’inconsapevole strumento dell’attuazione degli effetti karmici. Per liberarsi da questa concatenazione di cause ed effetti è necessario il «risveglio», cioè la visione penetrante del vero carattere dell’esistenza; in caso contrario la serie di atti e conseguenze continuerebbe all’infinito.
Appare chiaro allora che anche i rapporti interpersonali debbano essere considerati come relazioni tra processi karmici dai quali derivano eventi di carattere collettivo. La vita sociale è quindi un campo di interdipendenza delle azioni individuali paragonabile, in certo senso, a un sistema naturale dove l’equilibrio ecologico è determinato dal ruolo svolto da ogni fattore ambientale: quando una particolare condizione muta, il modello subisce una trasformazione. La società rappresenta pertanto non una somma di individui autonomi, bensì un sistema di relazioni karmiche in base al quale ogni comportamento esercita un’influenza sull’organizzazione complessiva. Anche in questo caso si deve parlare di pluralità di processi che generano effetti di carattere generale: un modello sociale è il prodotto delle molteplici relazioni che collegano le differenti attività degli individui. Ciò risulta evidente allorché si considera che ogni società è strutturata quale sistema di ruoli assegnati ai singoli: in tal senso, l’individuo acquista tratti definiti in base alla funzione pratica che esplica nella vita collettiva. L’agire della persona in campo sociale genera il senso d’identità dell’individuo conferendogli un’etichetta che lo distingue da altri. Il sistema sociale è dunque una rete di relazioni caratterizzata da una pluralità di processi dinamici che assumono la parvenza di soggetti autonomi.
Invero non esiste alcun individuo separato dall’ambiente socio-culturale e naturale, in quanto l’essere vivente è energia psicofisica sempre correlata a situazioni mutevoli che generano percezioni, reazioni emotive, pensieri, azioni; il fattore che determina l’impressione di un ego stabile è costituito dalla continuità della coscienza che accompagna i diversi processi dinamici. Il fatto che corpo e processi mentali non rappresentino un’entità individuale è dimostrato dalla loro connotazione di contenuti di coscienza: stati corporei e attività mentale sono gli «oggetti» ai quali si relaziona la coscienza osservante. L’atto di consapevolezza non può essere confuso con il contenuto di coscienza: se si prova dolore, ad esempio, l’essere coscienti di tale condizione non è il dolore; ciò si verifica, in ogni caso, qualunque sia l’oggetto specifico della consapevolezza. Perfino l’idea di io è un contenuto di coscienza: se, infatti, venisse concepito un pensiero del genere «io sono una persona tranquilla», tale pensiero diventerebbe «l’oggetto» di cui c’è consapevolezza. Quest’ultima, in quanto atto di conoscenza di uno specifico contenuto, non può mai essere identificata con l’ego: l’idea illusoria dell’ego infatti costituisce un suo particolare «oggetto» relazionale.
Il flusso di stati di coscienza che caratterizza l’esperienza non genera un’entità sostanziale, ma un’attività correlata ai suoi contenuti particolari: perciò la dottrina dell’anâtman include anche la coscienza. Quest’ultima esiste soltanto come atto del relazionarsi a qualcosa - la fenomenologia husserliana definisce quest’atto «intenzionalità» - quindi non c’è consapevolezza priva di contenuto. è questo il vero punto di contrasto tra buddhismo e induismo: infatti per quest’ultimo l’Âtman è Saccidânanda, esistenza, coscienza pura, beatitudine. La teoria dell’anâtman nega non soltanto un Principio creativo del mondo, ma altresì l’esistenza di una pura coscienza (Cit) indipendente dalla realtà fenomenica. Infatti, nel buddhismo, nirvâna indica l’estinzione dei cinque aggregati (skanda) della personalità empirica, tra i quali è annoverata la coscienza. è vero comunque che in alcune scuole del Mahâyâna l’idea di Mente incontaminata o di coscienza pura (amala vijñâna), alla quale allude un testo classico (Mahâyâna samgraha), si avvicina pericolosamente al principio induista dell’Âtman; ma ciò si spiega per il fatto che, nonostante i ripetuti avvertimenti del Buddha circa l’inopportunità di voler definire concettualmente la realtà ultima, la tendenza a conferire un significato positivo all’assoluto, in alcuni indirizzi mahâyânici, ha prevalso sulla cautela delle prime scuole, le quali non attribuivano all’incondizionato uno status ontologico definibile.
La coscienza è capacità di riconoscimento di qualcosa, quindi atto capace di discriminare le specifiche caratteristiche di un «oggetto»; l’idea d’identità personale nasce da una serie di atti di coscienza dalla quale deriva una sintesi di esperienze analoghe, relative a stati corporei e processi mentali. Il corpo personale ha una duplice valenza: percepito da altri individui appare come forma fenomenica simile a ogni rappresentazione relativa a ciò che occupa uno spazio; nella sua espressione di corpo esperito in prima persona, diversamente, si configura come complesso di percezioni, impulsi, bisogni, stati piacevoli o dolorosi, agilità o stanchezza: cioè rappresenta un vissuto riconosciuto dalla coscienza come flusso caratterizzato da una presenza costante, illusoriamente scambiata per un ego che rimane sempre sullo sfondo di tutte le altre esperienze. Riconosco il «mio» corpo dal fatto che la percezione globale che ho di esso mi accompagna in tutto il mio agire e nell’esperire diverse situazioni. Ma tale riconoscimento è opera della coscienza, la quale coordina una pluralità di atti percettivi nell’idea unitaria di «corpo che mi appartiene». Di conseguenza avviene una graduale, ma sempre più intensa, identificazione con il corpo: la mia mano, il mio braccio, la mia testa, mi fa male la schiena e così via. Il piacere o il dolore fisico costituiscono eventi che rendono più radicata la tendenza all’autoidentificazione con il corpo: il senso dell’io assume consistenza a partire dal riconoscimento di stati corporei ricorrenti che vengono percepiti come appartenenti a uno stesso soggetto. Se c’è un corpo che mi appartiene, allora «io sono»: quindi ho un’identità che mi distingue da altri soggetti. Parallelamente si origina un’autoidentificazione con i processi mentali: le «mie» idee, le «mie» emozioni, il «mio» carattere, la «mia» visione della realtà e così via. Si perviene così a una convinzione indubitabile: io sono un corpo-mente; la mia vita è espressione del mio corpo e della mia attività mentale.
È quest’ultimo l’orientamento che prevale nella cultura occidentale odierna: di qui l’esasperato individualismo, la competizione per affermare le proprie doti personali, l’esibizione del corpo in forma o della mente brillante; la sensualità e l’erotismo divengono attestazioni di una vita ricca di intense emozioni. La civiltà tecnologica rappresenta il trionfo della corporeità: l’esistenza reale viene confermata dalle immagini, da ciò che è visibile, udibile o percepibile tramite gli organi di senso; ciò che non rientra nella sfera sensoriale coincide con il nulla. Nasce così una sete (trishnâ) insaziabile di sensazioni forti, di stimoli, di esperienze che coinvolgono la totalità del corpo: si finisce col pensare che se dovesse esistere un’anima non potrebbe essere altro che il corpo. Ciò spiega, tra l’altro, un certo interesse, in Occidente, per le tradizioni tantriche, dove il corpo viene elevato a strumento di realizzazione spirituale.
La civiltà del benessere economico ha creato un suo «idolo»: la materia. Tutto ciò che occupa spazio - sia pure nella forma di molecole, atomi o particelle - è degno di attenzione e di apprezzamento. Gli oggetti visibili indicano lo status sociale dell’individuo: l’abitazione, l’arredamento lussuoso, l’automobile fuoriserie, la villa con piscina, i Titoli in Borsa, la solvibilità monetaria. è reale ciò che è visibile, tangibile, udibile, assaporabile, odorabile; tutto il resto conta solo se è in grado di generare nuove tecnologie della percezione del mondo, nuovi mezzi per provare sensazioni sempre più raffinate, più piacevoli, più originali, più intense; perfino una realtà virtuale. In fondo incrementare la produzione di beni di consumo non ha altro scopo se non quello di ampliare a dismisura il campo delle sensazioni e delle esperienze percettive: l’oggetto particolarmente ricercato è quello che produce stimoli sensoriali più piacevoli, più originali. Se Cartesio fosse vissuto nella nostra epoca avrebbe espresso la sua concezione dell’evidenza con le parole: «percepisco, dunque sono». è chiaro che l’individuo, inserito in simile contesto sociale, non può che autoidentificarsi con il corpo; la sua immagine appare agli altri attraverso la corporeità: è il primo impatto, quello che giustifica il culto dell’esteriorità.
L’altra dimensione di autoidentificazione è rappresentata dalla mente; di qui il dilagare nel campo della cultura occidentale delle analisi psicologiche e delle psicoterapie. Come nella sfera della fisicità sono stati definiti i canoni ideali del corpo tramite modelli di riferimento proposti dai media, istituti di bellezza, cliniche di chirurgia plastica, palestre e così via, la società attuale ha stabilito anche i criteri in base ai quali deve essere stabilito lo stato di salute psicologico. Essere sani di mente significa saper dare adeguate risposte di adattamento alle richieste dell’ambiente sociale, tenendo conto dei valori, delle tendenze massificate, dei ruoli e della necessità di trovare soluzioni in grado di garantire sufficienti gratificazioni. Il tema dell’io ben integrato diventa così il campo privilegiato di psicologi e psichiatri, generando nelle persone una vera e propria preoccupazione concernente l’aspettativa di rientrare nei canoni della normalità psicologica. Di qui il frequente ricorso alla psicoanalisi per indagare gli occulti motivi dell’ansia, dello stress, delle fobie, delle difficoltà di rapporto col partner. Come l’individuo aspira a «essere un corpo in forma», allo stesso modo il suo autoidentificarsi con la mente lo spinge a desiderare un ego che rispecchi del tutto i canoni della salute mentale in base allo standard della società dei consumi. Se si attribuisce un io a pensieri, emozioni, ricordi o altri contenuti mentali, ma tutto ciò crea dei problemi, è inevitabile il ricorso allo psicanalista. Corpo e mente (nâma-rûpa) costituiscono il grande problema dell’uomo d’oggi: tutto ciò che si fa, si progetta, si desidera alla fine trova la sua ragion d’essere in una gratificazione narcisistica di corpo e mente; e, allorché le cose «si mettono male», non rimane altro che la disperazione di un’identità frustrata.
È segno inequivocabile di profonda saggezza il fatto che la civiltà indiana abbia individuato con precisione la fonte principale di ogni malessere umano: il senso dell’io e la preoccupazione nei confronti di questa illusione. Corpo e mente sono transitorie apparenze che, valutate col metro di una cronologia di Kalpa, rappresentano meno della durata di un battito di ciglio; ma il potere di mâyâ genera un’incrollabile fede nella loro consistenza e stabilità temporale. Risvegliarsi significa, in primo luogo, riconoscere tali apparenze per quello che realmente sono: effimeri fenomeni attraverso i quali il samsâra rinnova il suo perenne ruotare. Il vero protagonista del divenire è il ciclico avvicendarsi della Ruota dell’esistenza: gli individui, in quanto mutevoli parvenze, rappresentano giocattoli di mâyâ.
Il principio dell’anâtman è qualcosa di totalmente incomprensibile per la civiltà occidentale perché tutti i valori e le certezze di tale modello sociale sono profondamente radicati in una concezione individualistica e personalistica. Tanto la tradizione cristiana, quanto la cultura laica hanno sempre attribuito al concetto di persona un significato pregnante in quanto espressione della vera essenza umana. Il tentativo di diffusione del buddhismo in Occidente è destinato a non avere molta fortuna proprio per la suddetta ragione: l’occidentale è disposto a fare qualsiasi cosa, tranne mettere da parte il senso dell’ego. L’idea che l’apparente individualità non abbia alcun supporto stabile genera inquietudine in chi è abituato a concepire l’esistenza in termini di rapporti personali. Per questa ragione, i pochi proseliti occidentali del buddhismo sono interessati più agli aspetti tecnici della meditazione, vista come panacea di tutte le ansie e le irrequietezze mentali, che non alla reale comprensione del senso rivoluzionario del Dharma.
Contemplare il mondo con sguardo impersonale: questo l’atteggiamento mentale della pratica Vipashyanâ, cioè di quella visione profonda dei fenomeni che riesce a penetrare nell’intimo delle apparenze, rivelando la loro essenziale vacuità. Da tale prospettiva il presunto soggetto si rivela un’aggregazione dinamica di elementi instabili che di continuo generano nuovi eventi psicofisici; da questo avvicendarsi di sensazioni, pensieri, impulsi, come per incanto, si forma la falsa immagine di una persona, con tutte le connotazioni attribuite, in modo erroneo, a un ego ritenuto sempre uguale nello scorrere del tempo. Per emanciparsi da ogni coinvolgimento samsârico occorre osservare gli eventi da una prospettiva di puro testimone impersonale: limpida visione che non rimanda ad alcuna soggettività; solo in tal modo il divenire fenomenico palesa una completa assenza di fondamento. Non esistono oggetti, né persone, ma soltanto un accadere dal quale si evince la mancanza di qualunque presupposto sostanziale: la vacuità delle apparenze è la verità che il mondo maschera con astuzia. Riconoscersi in questo vuoto di esistenza intrinseca è atto liberatorio: significa risvegliarsi, prendendo coscienza del fatto che le immagini di un sogno costituiscono mere elaborazioni dell’inconscio. Sarebbe più conforme alla verità formulare una concezione dell’esistenza non in termini di individui e di gruppi sociali, ma di forze dinamiche preposte alla conservazione della vita. L’energia che muove la Ruota dell’esistenza è caratterizzata da cieche pulsioni il cui unico scopo è quello di perpetuare il movimento ciclico del samsâra.
Nonostante l’evoluzione culturale, nella maggior parte dei casi, l’uomo è rimasto legato a forze primordiali; l’intelligenza è stata asservita alle istanze biologiche fondamentali: l’intelletto pragmatico ha rivelato la sua vera natura mostrando di essere semplice strumento al servizio delle esigenze samsâriche.
Nella spiritualità indiana, la vera conoscenza non è mai stata utilizzata quale mezzo di controllo delle forze naturali finalizzato a rendere più agiata l’esistenza. La civiltà indiana ha sempre guardato oltre il limitato orizzonte dei bisogni pratici nella loro immediatezza: ha intuito che il senso della vita non può essere trovato nel mondo. Perciò le diverse dottrine sviluppatesi sul suolo indiano hanno, pur nella varietà di posizioni, condiviso l’esigenza di trascendere la dimensione mondana per rapportarsi a una realtà celata dalle apparenze. Anche l’uomo rientra a pieno titolo nell’ambito della fenomenicità; ma c’è in lui qualcosa che gli consente di andare oltre se stesso, oltre la propria limitata forma di essere vivente soggetto alle forze pulsionali della natura. è proprio questa potenzialità la vera realtà che conferisce all’uomo una posizione preminente nell’universo: tutto il resto, ciò di cui l’uomo è orgoglioso - invenzioni, scienze, arti, tecnologie - rappresenta soltanto una risposta alle istanze del samsâra. Il soggetto fenomenico appartiene al mondo dell’apparenza, l’organismo psicofisico è creazione della natura ovvero, se si preferisce, di mâyâ; ma c’è, in questa apparenza transitoria, un’energia in grado di trascendere l’insensato avvicendarsi di forme viventi: la tradizione occidentale, per indicare tale principio, utilizza il concetto di spirito; il buddhismo preferisce definirlo prajñâ, conoscenza superiore, cioè visione illuminata del mondo.
La cultura occidentale odierna tende a riconoscere come unica realtà soltanto la natura, di cui l’uomo si sente figlio; ma il mondo naturale può generare solo transitori fenomeni, non certo un’intelligenza (bodhi) dalla quale deriva l’emancipazione dalla natura. In fondo l’essere umano considera la natura una «Grande Madre» e, proprio per tale motivo, ha difficoltà a recidere il cordone ombelicale che alimenta un’esistenza simile a quella di un feto. Eppure, in quest’ottica, la stessa «Madre» che ha donato la vita priverà di questa elargizione provvisoria: ciò trova espressione nel duplice volto della dea Kâlî la quale, in quanto Shakti, è Potenza creatrice ma, al tempo stesso, mortifera.
Il soggetto illusorio non è solo prodotto della natura, ma anche della storia e delle conseguenti produzioni culturali dell’uomo. L’identità apparente dell’individuo nasce come risultato di una formazione educativa derivante dai mutevoli modelli socio-culturali. Il bambino nasce con un patrimonio di tendenze che prenderà forma precisa nel contesto sociale: la sua identità verrà plasmata attraverso la trasmissione di conoscenze, valori, norme di condotta che ogni società giudica indispensabili per la formazione umana. In altri termini, l’individuo si conformerà ai modelli di riferimento che definiranno il suo processo di identificazione: ruolo, rapporti sociali e familiari, credenze, opinioni collettive. L’identità è dunque la maschera sociale sovrapposta all’organismo biologico il quale, finché rimane semplice prodotto di forze naturali, è rappresentato da un fascio di impulsi, tendenze istintuali, meccanismi di adattamento ambientale, volontà di autoconservazione. A tale processo naturale la trasmissione culturale aggiunge una forma di esistenza storicizzata, cioè una configurazione umana che rispecchia le istanze collettive dell’organizzazione sociale. Tutto ciò accade senza reale consapevolezza da parte dell’individuo, il quale crede in buona fede di avere scelto la propria identità personale. Nell’ottica indiana, anche questo processo fa parte del karma: luogo di nascita, ambiente sociale, condizione economica, ecc. In tutti i casi, l’individuo manterrà la sua natura di fenomeno generato da forze interdipendenti miranti a dare forma al prodotto finale: l’apparenza di una persona. Il termine stesso individuo - il quale indica integrità, non divisione - è significativo: espressione linguistica di una concezione falsa della realtà; non c’è nulla di più «diviso» di un individuo il quale non soltanto è costituito da una molteplicità di parti e funzioni diverse, ma anche da un flusso di energie che si trasformano di continuo. Il principio d’identità A=A, se riferito all’individuo, appare una mera sciocchezza: dove si trova, infatti questa persona che rimane sempre uguale per tutto il corso della sua vita? Eppure su tale errore si sono fondati le più inveterate credenze e i più sacri valori dell’umanità: la storia potrebbe essere riscritta come evoluzione di tale menzogna.
La dottrina del non sé (anâtman) determina la maggiore difficoltà ai fini di una corretta comprensione del Dharma buddhista; inoltre, anche se intesa intellettualmente, a molti appare inattuabile dal punto di vista pratico. L’attaccamento al senso dell’io impedisce di vedere il continuo mutare di stati fisici e mentali riconoscendolo per quello che realmente è: processo impersonale dove manca del tutto un sostrato sempre identico. Riuscendo a osservare ogni evento fisico o mentale, ordinariamente riferito a un ego, quale fenomeno transitorio generato da cause e condizioni specifiche, la supposta identità personale perderà la sua coesione, configurandosi piuttosto come flusso di pensieri, emozioni, impulsi, sensazioni e altri contenuti del continuum mentale. La realtà apparirà allora non più come rapporto tra un presunto io e un ambiente esterno, ma quale costante mutamento di stati fenomenici definiti nel linguaggio convenzionale oggetti, persone, luoghi, cose, situazioni e così via. In questa prospettiva, si affermerà anche un diverso atteggiamento pratico nei riguardi dell’esistenza: scomparirà, in primo luogo, la preoccupazione relativa a eventuali situazioni che potrebbero rappresentare, per l’io, uno svantaggio, una perdita, un danno: per quale ragione infatti si dovrebbe provare ansia per qualcosa che non esiste? Inoltre, anche gli altri individui non appariranno più come personalità statiche con caratteristiche definite una volta per tutte, ma mutevoli processi vitali dai quali si ci potrebbe attendere oggi amicizia, domani inimicizia e viceversa: nulla è immobile, tutto è in stato di transizione da una condizione a un’altra. Infine si diventerà più tolleranti nei confronti di tutto ciò che non rispecchiasse il nostro punto di vista: proprio per la ragione che, essendo la realtà in costante mutamento, non sembrerà opportuno attaccarsi a particolari opinioni da difendere a spada tratta.
Una soggettività radicata nell’essere lascia il posto in tal modo a stati di coscienza che, nel loro avvicendarsi, danno origine a strutture dinamiche dalle quali dipende l’esperienza del mondo. La realtà fenomenica è la sequenza di tali atti di coscienza, senza alcun fondamento ontologico che sostenga il loro divenire: l’identità personale si risolve allora in una pluralità di accadimenti rischiarati dalla presenza di una coscienza impersonale.
Il samsâra si autoriproduce tutte le volte che i dodici anelli della concatenazione sono presenti: non è necessaria alcuna presenza di un soggetto. Ma allora - ci si potrebbe chiedere - chi è colui che raggiunge «l’illuminazione»? In senso ultimo, nessuno raggiunge il nirvâna: liberazione, nirvâna sono soltanto termini metaforici per alludere al fatto che, cessate le condizioni che alimentano il samsâra, quest’ultimo svanisce come nuvola trasportata dal vento. Nessun mondo da abbandonare, nessuna «Terra del Buddha» da conquistare: soltanto pura consapevolezza di un gioco al quale non si è più interessati. Vivere dunque alla luce di una consapevolezza che ci rammenta, in ogni momento, di non essere un ego, di non avere possessi da salvaguardare e soprattutto di considerare l’apparente identità solo un documento di riconoscimento idoneo a relazionarci con l’ambiente sociale. Così la nostra immagine esteriore si conformerà alle aspettative degli altri, al loro criterio di «normalità», pur trattandosi di una semplice maschera, utile convenzionalmente.
La libertà derivante dal non doversi più riconoscere in un’identità creata da fattori storico-sociali rappresenta, già di per sé, un’emancipazione dal samsâra; perché di fatto ogni modello sociale costituisce una rappresentazione dell’esistenza samsârica. Le Upanishad esprimono il superamento dell’autoidentificazione con la personalità fenomenica mediante le parole: «tat tvam asi», tu sei quello. Ciò significa che l’illusione è rappresentata da quella falsa identità, costituita da corpo-mente, sulla quale si fonda il senso dell’ego; la realtà autentica è ciò che, nell’induismo, viene indicato col termine Âtman, Spirito, pura Consapevolezza incontaminata dal dolore del mondo; nel buddhismo, tale idea viene espressa in modo diverso: la tua vera natura è quella di Buddha. Per entrambe le tradizioni tuttavia l’individualità fenomenica è semplice parvenza che maschera l’essenza del reale.
In ogni cultura, il divino è stato inteso come realtà trascendente l’uomo: nella tradizione indiana, l’uomo, allorché si libera della propria identità fenomenica, diventa Dio. Quindi la sentenza delle Upanishad, precedentemente citata, allude al fatto che quando l’uomo abbandona l’autoidentificazione con l’organismo psicofisico - semplice strumento di sperimentazione del samsâra - l’uomo diventa l’Assoluto: la sua coscienza limitata si trasforma in coscienza cosmica, in intelligenza della vera natura delle cose. In tal senso la morte dell’io costituisce l’autentica liberazione dal dolore e dalle illusioni che lo generano. In fondo la morte biologica riguarda soltanto colui che è tenacemente attaccato al senso dell’ego; al contrario chi, già in vita, si è distaccato dall’identità fenomenica non può morire: ed è questa la sua immortalità (amrita).
7
L’assenza di una reale personalità, intesa come entità distinta dal processo del divenire fenomenico, solleva una questione di primaria importanza: chi si libera dalla sofferenza? Di certo non un ego che non ha alcuna forma di esistenza, ma neppure i cinque aggregati che generano l’apparenza dell’individuo, dato che nessuno di essi costituisce l’espressione di una soggettività. Non è esatto ritenere che un individuo sia il corpo ovvero le sensazioni, le emozioni, i pensieri, gli impulsi volitivi, gli atti di coscienza che accompagnano il fluire dell’esistenza: nessuno di tali fenomeni può essere concepito come sostrato della personalità. Pertanto l’idea di liberazione dal samsâra non va intesa come condizione conseguita da un particolare individuo, ma piuttosto quale risveglio di una latente intelligenza (bodhi) presente nel continuum mentale di tutti gli esseri viventi. La continuità degli stati mentali che si susseguono nel tempo samsârico costituisce un processo unitario che collega infinite forme di vita fenomenica in una stessa serie di esperienze esistenziali. Finché tali espressioni individualizzate del continuum mentale saranno caratterizzate dall’ignoranza, cioè da una coscienza incapace di intuire la vera natura della realtà, il movimento ciclico del samsâra proseguirà senza tregua; allorché diversamente dal flusso di coscienza individualizzato emergerà la visione corretta dell’essenza dei fenomeni, l’energia psichica, precedentemente contaminata dall’ignoranza, assumerà la forma di penetrante consapevolezza dell’autentica natura delle apparenze samsâriche.
Dato che il Dharma buddhista è un insegnamento rivolto a un’umanità immersa in una dimensione caratterizzata dall’ignoranza, tale messaggio per essere accolto deve conformarsi al linguaggio e alle ordinarie possibilità di comprensione umana, adottando una terminologia convenzionale dove si fa uso di termini quali «individuo», «persona», «io», «essere vivente» e così via. D’altronde senza questo adattamento semantico ai modi di pensare dell’essere umano, il Dharma risulterebbe incomprensibile per la maggior parte degli uomini. Per questa ragione, Nâgârjuna afferma che non è possibile pervenire alla verità assoluta senza fondarsi sull’ordine pratico dei fenomeni (la realtà relativa). Di conseguenza tutti gli insegnamenti del Buddha in merito alla condotta umana, alla morale, alle pratiche meditative, ai rapporti sociali hanno la funzione di preparare le condizioni mentali idonee alla conoscenza della Verità. Non è possibile entrare nella dimensione autentica del reale senza una preliminare purificazione della mente da tutti quei veleni che la contaminano allorché non si rispettano le norme di un’etica universale e non ci si sottopone a un tirocinio di controllo degli stati mentali nocivi. In tal senso, l’etica (sila) e la meditazione (samâdhi) rappresentano strumenti per preparare alla corretta visione delle cose; tuttavia quando non sussista altresì una preliminare informazione relativa ai principi basilari del Dharma, etica e meditazione non sono, di per sé, idonee a generare la vera conoscenza.
Nell’ambito della realtà fenomenica, il Dharma si configura quale insegnamento prevalentemente etico, cioè fondato sulla legge del karma; mentre, a livello di comprensione trascendente, esso è rivolto a coloro che sono pervenuti allo «stadio della visione»: gli ârya delle quattro categorie di nobili discepoli. Tale distinzione assume particolare rilievo per il fatto che, nella grande maggioranza dei casi, le possibilità di comprensione dell’insegnamento del Buddha non possono andare oltre la verità convenzionale, la quale si limita a evidenziare le ragioni che giustificano una condotta morale e i mezzi idonei ad appagare le esigenze dell’uomo comune, quelle cioè di migliorare la condizione esistenziale; diversamente, il livello assoluto di verità risulta inaccessibile alla maggior parte del genere umano. La distinzione tra verità convenzionale, adatta alla moltitudine, e verità assoluta, riservata a coloro che hanno abbandonato il senso dell’io, chiarisce i motivi delle apparenti contraddizioni che qualcuno potrebbe ravvisare nel Dharma. La verità relativa ha valore nell’àmbito delle apparenze; la verità assoluta costituisce la rivelazione di ciò che si cela sotto il «velo» di mâyâ. Dal momento però che l’umanità, nella maggioranza dei casi, non è ancora pervenuta all’abbandono dell’illusione, la verità relativa assume il valore di unico insegnamento accessibile ai molti: ciò spiega la divulgazione del buddhismo come religione popolare. Pregare, chiedere grazie, invocare l’aiuto di divinità sono atti cultuali di ogni religione di massa: il divino, comunque esso venga rappresentato, costituisce per qualunque comunità di fedeli la Potenza in grado di esaudire qualunque desiderio o bisogno dell’uomo. In tal senso, le religioni storiche assumono sempre la forma di credenze collettive sostenute dalle istanze di un ego che vuole essere protetto mediante l’intervento di un potere sovrumano. Il Dharma del Buddha, nella sua espressione esoterica, non ha nulla a che vedere con tutto ciò; rituali e forme di devozione popolare rappresentano soltanto un compromesso compassionevole nei riguardi di coloro che non sarebbero in grado di recepire altre forme di spiritualità. D’altra parte gli archetipi, rappresentati dalle immagini paterne o materne che si ritrovano in tutte le mitologie, attestano in modo evidente il fatto che il sentimento religioso, nella sua espressione più ingenua, scaturisce dal bisogno infantile di cercare protezione in quelle figure parentali che il bambino, nella sua prima infanzia, vede come onnipotenti: capaci di punire o di esaudire ogni istanza. Rispetto a tale forma di sentimento religioso, il buddhismo, nella sua connotazione più autentica, rappresenta un’espressione di spiritualità matura: un invito a elevarsi al di sopra dei comuni interessi e desideri umani, per guardare la realtà da una prospettiva non più oscurata dall’illusione.
Per quanto possa essere coinvolgente, un sogno rimane pur sempre una fantasiosa elaborazione mentale; in senso analogo, il samsâra, anche nelle sue manifestazioni più allettanti, non è altro che un perenne avvicendarsi di immagini ed eventi privi di autentica realtà. Risvegliarsi significa quindi riconoscere le apparenze per quello che sono: fantasmatico gioco di forme dileguantesi con la stessa facilità della loro apparizione.
Il Dharma del Buddha, nella sua pregnanza, non dovrebbe essere considerato religione; sarebbe esatto piuttosto riconoscere in tale insegnamento la rivelazione dell’ordine che regola il divenire fenomenico e la sua cessazione. è assente, in questa trasmissione della verità, la connotazione peculiare di ogni religione: la fede in qualcosa che trascende l’esperienza diretta. Non si può definire neppure una filosofia, in quanto non deriva da astratta speculazione, la quale interessa l’intelletto, ma lascia inalterato il modo pratico di rapportarsi all’esistenza. La visione del Dharma non può che trasformare in profondità il senso della vita; infatti da tale prospettiva capace di rivelare sotto diversa luce l’intera realtà nasce una vera e propria rivoluzione interiore.
C’è irriducibile contrasto tra atteggiamento fideistico e visione immediata: nessun discorso, nessuna trasmissione verbale della conoscenza possono generare l’esperienza del «vedere». Per tale ragione il Buddha era solito invitare i discepoli a «vedere», non «ad ascoltare» semplicemente il suo insegnamento. D’altra parte un messaggio volto a emancipare l’uomo dalla sofferenza, come pure da quelle false opinioni dalle quali essa deriva, non può generare «credenti»: gente cioè che si aggrega intorno a qualche «santuario», soltanto per il fatto che una tradizione, da millenni, proclama questa o quella verità. Purtroppo anche nella storia del buddhismo si è verificato quel che accade allorché una dottrina si rivela troppo profonda per essere alla portata dei molti: «i credenti», cioè la maggioranza, non possono che adattare il messaggio originario alla loro esigenza di consolazione, trasformandolo così in religione istituzionalizzata. In tal modo, piuttosto che «vedere» con i propri occhi, i fedeli ripongono le loro certezze in pratiche formali di culto e nella fiduciosa attesa di qualche stato paradisiaco: sicura ricompensa del loro meritevole slancio di devozione nei riguardi di questa o quella divinità in grado di soccorrere i bisognosi di aiuto. Tutto ciò conferma la fondatezza del dubbio, dal quale il Buddha fu colto dopo «l’illuminazione», concernente l’opportunità di trasmettere il Dharma. A tal proposito sorge l’inquietante sospetto che lo sviluppo storico del buddhismo, come religione, sia stato prevalentemente un continuo allontanamento dalla solare chiarezza dell’insegnamento originario. L’attaccamento all’esistenza è un istinto troppo radicato in tutto ciò che vive; di conseguenza un insegnamento mirante a un radicale distacco da ogni coinvolgimento mondano è stato gradualmente conformato alle esigenze dell’uomo medio: di colui cioè che non nutre la minima intenzione di abbandonare il mondo; ma spera, con tutto il cuore, di vivere intensamente una condizione di felicità: ricchezza, numerosa prole e longevità. A tal punto, diventò inevitabile il soccorso delle numerose divinità del pantheon buddhista, per garantire ai fedeli tutto ciò che l’essere umano potrebbe desiderare per sentirsi pienamente appagato. Nel momento in cui il Dharma si traduce in fede popolare, mitologia, atteggiamento fideistico, l’autentico valore di una conoscenza liberatrice va perduto, per essere rimpiazzato da tutte quelle forme di culto e di rituali che connotano le religioni storiche. Il Buddha rappresenta un richiamo alla consapevolezza: a quella saggezza trascendente il mondo (prajñâ) che richiede, quale condizione del suo apparire, l’abbandono dell’identificazione con la personalità fenomenica. In tal senso, prajñâ costituisce una visione del mondo che non appartiene più alla persona con le sue peculiari caratteristiche, ma proviene da una dimensione trascendente l’ordine fenomenico. Prajñâ è conoscenza assoluta, svelamento di una verità occultata da mâyâ: allora, le apparenze palesano la loro essenziale inconsistenza, la radicale mancanza di fondamento ontologico. Il termine mondo include la soggettività: la personalità è fenomeno, cioè transitoria forma che non può in alcun modo aspirare a quel radicamento sostanziale postulato da qualunque concezione che interpreti l’individuo come manifestazione di un ego stabile e duraturo. Il soggetto empirico è il fenomenizzarsi del samsâra: i dodici anelli della produzione condizionata determinano l’apparenza di un presunto ego. La conoscenza liberatrice smaschera il gioco di mâyâ, riconoscendo nella vacuità di ogni forma fenomenica la vera natura delle cose.
Prajñâ è sapere impersonale; non implica affatto l’esistenza dell’individuo, perché quest’ultima rientra nella dimensione fenomenica. Prajñâ, in quanto rivelazione della vacuità di ogni apparenza, non può essere interpretata quale risultato di una ricerca intellettuale; anzi, la razionalità ordinaria, essendo correlata alla fenomenicità, rappresenta un ostacolo alla visione diretta della vera natura dei fenomeni. L’intelletto non è altro che un prodotto di mâyâ, generato allo scopo di fornire adeguate risposte alle istanze di adattamento ambientale e ai bisogni pratici della vita. La mente non è in grado di guardare al di là delle forme fenomeniche; anche allorché analizza i fatti empirici, per conoscere la loro struttura costitutiva, non può uscire dalla sfera delle apparenze. Ad esempio, scomponendo un corpo, i suoi elementi di base - molecole, atomi, particelle - non rivelerebbero altra natura se non quella fenomenica: la realtà essenziale rimarrebbe celata allo sguardo dell’indagine scientifica. Prajñâ diversamente, in quanto intuizione immediata, penetra negli aspetti occulti dei fenomeni, svelando la loro radice: il vuoto. Ma proprio per la ragione che la vacuità è l’essenza universalmente presente in tutto ciò che appare e dato che la mente è inclusa nella sfera fenomenica non può darsi conoscenza autentica finché il sapere rimane circoscritto nell’àmbito delle apparenze.
Prajñâ è svelamento della Verità quale essenza del mondo: rappresenta la polarità opposta a mâyâ. Quest’ultima nasconde mediante le apparenze la vacuità dei fenomeni; prajñâ, al contrario, smaschera il carattere illusorio di ogni fenomeno; «illuminazione» significa dunque vedere la realtà attraverso la «luce» di prajñâ. Per i suddetti motivi, nella tradizione Mahâyâna, tutti i Buddha sono generati da Prajñâparamitâ. Il vero sapere è la condizione dalla quale scaturisce il «risveglio»; ma in effetti un «illuminato» non costituisce più un individuo, in quanto ha abbandonato l’illusione della personalità egoica; egli rappresenta piuttosto un nirmânakâya, un corpo apparente che continua a manifestarsi nel mondo solo per aiutare altri «esseri» a conseguire la liberazione. Una conoscenza senza soggetto è paradossale, perché il sapere empirico presuppone, in tutti i casi, una relazione tra colui che conosce e l’oggetto del conoscere. Tale contraddizione logica si risolve però quando la conoscenza non svolge più la funzione di definire le caratteristiche dei fenomeni, ma diventa sinonimo di Verità. Il mondo è apparenza: si potrebbe definire una dimensione intermedia tra l’essere e il nulla. L’esistenza fenomenica infatti non è radicata nell’«essere», ma non coincide neppure con il nulla: è il manifestarsi di qualcosa che inevitabilmente deve scomparire. Pertanto la comparsa di forme ha già in sé la propria negazione, dal momento che l’accadere porta con sé l’annullamento. Ogni fenomeno è sotto il dominio di Mâra - la morte - proprio per la ragione che ogni apparenza non è fondata sull’essere ma sul vuoto. La Verità è realtà sottratta al potere di mâyâ; atto di trascendenza della mente ordinaria, la quale è dominata dall’ignoranza. Ma tale atto non può essere riferito a un individuo, nella sua connotazione di fenomeno; implica al contrario un potere impersonale antitetico a quello di mâyâ.
La logica è creazione umana e la sua validità non può estendersi al di là dei fenomeni. La Verità assoluta non dipende dall’uomo né dalle sue conoscenze, in quanto costituisce la vera natura delle cose; coincide quindi con l’ordine reale che regola l’accadere degli eventi. Prajñâ dunque, essendo sinonimo di Verità, sorge come il sole: ma quest’ultimo emana la sua luce a prescindere dal fatto che esistano o meno esseri viventi in grado di riceverla. Tutto apparirebbe molto più semplice se il buddhismo avesse ammesso l’idea di Dio; in tale eventualità, si potrebbe affermare che l’esistenza di Dio non dipenderebbe dal credere o meno nella sua realtà. Diversamente l’idea di vuoto, quale essenza dei fenomeni, costituisce un principio che sfugge a qualsiasi tentativo di comprensione razionale; si può soltanto adottare un pensiero tautologico: il vuoto è vuoto. Ma quest’ultima affermazione non spiega nulla, così come l’altra espressione canonica: il vuoto è forma, la forma è vuoto. Non c’è possibilità di accedere alla Verità utilizzando la logica: il pensiero umano è inadeguato; occorrerebbe piuttosto non pensare più in termini di logica umana; sarebbe necessario percepire tutto in sintonia con il vero essere delle cose, cioè con il vuoto. Perciò la «mente vuota» costituisce il solo accesso alla Verità; le parole, i concetti, le credenze servono solo a occultare la vera realtà. Nel momento in cui si abbandona l’identità fenomenica appare la Verità. In effetti il Buddha non rivelò una dottrina, ma il Dharma termine che, nel suo significato etimologico, indica l’Ordine che sostiene le apparenze definite nel loro insieme mondo: quindi il Buddha rappresenta non colui che elabora una dottrina, ma l’intermediario tra Verità ed essere umano.
Il manifestarsi della conoscenza liberatrice coincide con l’abbandono del senso dell’io: della causa che lega al samsâra. Allorché i cinque aggregati della personalità appaiono nella loro reale natura di transitorio processo impersonale, non può più sussistere alcuna forma di attaccamento al mondo. Samsâra infatti è ciò che sperimentiamo tramite i cinque aggregati; ma nel momento in cui sorge la consapevolezza di non essere un’entità sostanziale, anche il mondo perde la sua connotazione di realtà oggettiva. Si rimane legati al mondo per il fatto che c’è attaccamento al corpo, alle sensazioni, alle percezioni, agli stati mentali, agli atti di coscienza: il mondo è esperienza generata dai cinque skanda, dai quali sorge l’illusione di un ego. Allorché si riconosce che i cinque aggregati non appartengono a «nessuno», anche il mondo perde la sua apparente stabilità ontologica: finisce per coincidere con il mutevole processo di un’esperienza impersonale. C’è sofferenza, ma «nessuno» si libera; c’è liberazione, ma «nessuno» è vincolato.
Trascendere l’identità personale costituisce l’atto che introduce alla vera conoscenza del mondo: non certo un sapere empirico, fondato sull’analisi e sulla definizione delle specifiche caratteristiche dei fenomeni, ma un conoscere autentico; quello che riconduce tutti i fenomeni alla loro comune matrice: il vuoto. Dunque conoscenza del molteplice significa smarrimento nella dimensione delle apparenze, rimanere intrappolati nel gioco di mâyâ; mentre conoscenza trascendente consiste nel vedere ogni apparenza come manifestazione momentanea del mutamento samsârico.
Il linguaggio può indicare soltanto il sentiero che conduce alla Verità, ma non può in alcun modo definirla: non c’è possibilità di rapporto tra uomo e Verità; l’essere umano deve scomparire nella Verità. Allorché l’essenza della realtà si autorivela, non c’è più «nessuno»: sussiste il puro manifestarsi del mondo nella sua vacuità. Conoscenza ordinaria è attività della mente; ma quest’ultima non può conoscere la Verità, perché l’essenza dei fenomeni è oltre la mente.
Il senso della vita non va ricercato nell’ottenere qualcosa, ma nell’abbandonare tutto, sapendo che in fondo non c’è nulla di reale che venga lasciato. Conseguire, raggiungere, ottenere sono espressioni metaforiche, allorché si allude al nirvâna: al contrario, si tratta soltanto di estinguere la sete (trishnâ) che lega al samsâra. Desiderare una realtà spirituale rappresenta certamente un’aspirazione più elevata, rispetto alle ordinarie mete mondane; ma è pur sempre desiderio di qualcosa. Dove sorge il desiderio però c’è senso dell’io, cioè permane una condizione opposta a quella necessaria affinché sussista semplicemente nirvâna, estinzione di ogni identificazione con l’apparenza di un soggetto. Allorché «io» non esisto, allora c’è nirvanâ.
Il buddhismo non rappresenta una dottrina consolatoria per gli afflitti, ma la Verità senza veli che trascende le comuni aspirazioni umane. L’uomo normale non riesce a comprendere una Verità che rivela il carattere illusorio dell’esistenza mondana. L’essere vivente può esistere soltanto se in lui c’è attaccamento all’esistenza: perciò la vita fenomenica, nella tradizione indiana, viene considerata conseguenza di un errore (avidyâ). Chi vede correttamente la realtà non ha più alcuna volontà di perpetuare l’esistenza di un’illusione che si manifesta come samsâra. Se qualcuno chiedesse cosa c’è oltre la realtà fenomenica, la risposta non potrebbe essere che il silenzio.
L’attuale civiltà tecnologica riconosce quale esclusiva dimensione dell’esistenza il mondo naturale, al quale l’uomo si relaziona per dare un senso alla propria vita. Natura tuttavia è termine equivalente a mâyâ; indica un processo fenomenico da cui l’uomo ritiene possa derivare la propria identità di essere vivente.
Se l’essere umano costituisse semplicemente un prodotto della natura la sua esistenza non avrebbe altri scopi se non quelli definiti dall’evoluzione culturale; di conseguenza la conoscenza avrebbe valore solo in relazione a fatti e oggetti verificabili empiricamente. Nella cultura occidentale di oggi manca qualunque anelito verso la trascendenza di ciò che appare: la fenomenicità diventa così l’unica dimensione del reale. Ciò spiega la crisi delle filosofie e delle religioni, dato che l’uomo non avverte più l’esigenza di mete finali dell’esistenza: egli crede di poter conseguire l’appagamento attraverso gli scopi della vita mondana. La conoscenza, in tale contesto, ha valore pragmatico e utilitaristico, mentre viene negata qualunque forma di sapere che non si traduca in descrizione di fatti o situazioni empiricamente accertabili.
Il buddhismo proprio per la ragione che riduce la natura a mera produzione di effimere apparenze, dalle quali si genera la sofferenza del vivere, costituisce la più radicale confutazione dei valori della civiltà occidentale. Il tentativo di adattare il Dharma alle istanze della società occidentale rischia di snaturare del tutto il significato profondo dell’insegnamento del Buddha, che non è quello di rendere la vita più piacevole, ovvero di trasformare il samsâra in una terra di felicità, bensì consiste nel rivelare la natura insoddisfacente di qualunque condizione esistenziale. Se non si comprende quest’ultimo principio, il buddhismo diventa una delle tante religioni della speranza di un mondo migliore. Non esiste nessun mondo migliore, perché le energie che alimentano il samsâra sono eternamente le stesse: un momentaneo benessere può far sorgere l’illusione che l’esistenza abbia lo scopo di esaudire i desideri umani, ma si tratta di un sogno destinato a svanire inesorabilmente. Conoscere significa vedere tutto ciò che appare nelle sue autentiche connotazioni: dolore, impermanenza, non sostanzialità di ogni cosa. A tal punto, l’unica ragione che giustifica l’esistenza è rappresentata dal non essere più vincolati ad alcuna apparenza.
Quando la conoscenza assume la connotazione di fatto puramente intellettuale, senza un’effettiva trasformazione dello stile di vita, tale sapere potrebbe interessare, forse, qualche studioso di tradizioni orientali, ma non certamente liberare dall’illusione. Allorché si perviene alla consapevolezza dell’essenza ingannevole di ogni aspirazione mondana, è impossibile continuare a generare karma; infatti ogni attività rappresenta un legame con il mondo. Molti si chiederanno a tal punto che cosa rimarrebbe nell’esistenza, una volta soppresse le ordinarie motivazioni del vivere umano: pura consapevolezza dell’accadere, questo è ciò che resta. Tale consapevolezza tuttavia non è più espressione di un ego, ma assume la connotazione di puro occhio del mondo che contempla il divenire come apparenza. Allorché non esistono io né altro, tutto si configura come flusso continuo dove gli ingannevoli personaggi della scena si rivelano nella loro vera natura di transitorie parvenze.
Nel tempo ciclico, passato, presente e futuro costituiscono un’unica dimensione esistenziale, perché tutto è semplice ripetizione in nuova forma. La storia umana è espressione di mâyâ: illusione di un mutamento là dove, in realtà, la vita rimane sempre identica. L’uomo crede nel presente e nel futuro, rivelando perciò il suo attaccamento all’esistenza; il passato infatti è ricordo inquietante del destino di tutto quello che vive; l’uomo non vede nel presente la potenzialità di ogni attimo, che consiste nell’inevitabile trasformazione in passato. L’umanità del passato ha vissuto le stesse passioni, gli stessi attaccamenti, le stesse illusioni dell’uomo odierno; ma il tempo ha emesso la sua sentenza nei confronti di quelle parvenze.
Kâma e Mâra rappresentano i due volti del samsâra: l’uno attraente, l’altro mortifero. Sfuggire al samsâra implica dunque non essere più soggetti ad ambedue: amore sensuale e morte costituiscono la stessa realtà, mascherata sotto il velo di un illusorio antagonismo. è merito di Freud, nella cultura occidentale, l’avere messo in luce la dialettica dell’esistenza come conflitto tra Eros e Thanatos: pulsioni libidiche e istinto di morte. Ma Freud ha inteso Thanatos come volontà di annullamento e, per tale ragione, ha confuso Thanatos con il «principio» del nirvâna: quest’ultimo non è morte, ma liberazione dal samsâra. Anzi, la liberazione rappresenta la sola forma di vita degna di essere vissuta: il resto è soltanto dolore.
Il vuoto è un’idea che la civiltà occidentale non ha mai saputo concepire quale essenza del mondo: la nostra cultura è sempre stata profondamente radicata nel pensiero ontologico. Tanto nelle espressioni religiose, dove il fondamento è stato pensato come Dio creatore, quanto nel pensiero laico, che ha collocato la materia al posto del divino, tutte le espressioni culturali dell’Occidente hanno individuato il principio della realtà nell’essere. Di conseguenza il confronto con il Dharma buddhista non può che rivelarsi problematico e in molti casi esposto al fraintendimento. Che le apparenze costituiscano il manifestarsi del vuoto è concezione estranea alla nostra cultura, la quale ha quasi sempre identificato il fondamento dei fenomeni nell’essere. Di qui i numerosi equivoci relativi alla divulgazione del buddhismo in Occidente, dove il Dharma ha assunto più la connotazione di una religione, tra le tante, che non la rivelazione di una Verità capace di confutare ogni altra visione del mondo. La formazione della personalità, in Occidente, si attua attraverso un processo di radicalizzazione del senso dell’io e mediante l’introiezione di una profonda convinzione unanimemente condivisa: la realtà di un mondo naturale. Sono sufficienti questi due presupposti per rendere quasi del tutto inaccessibile all’occidentale il vero significato dell’insegnamento del Buddha. La Chiesa cattolica pertanto ha buon gioco nel mantenere il suo monopolio di detentrice della Verità in campo religioso, perché l’occidentale, anche a livello inconscio, porta con sé l’idea di Dio e di mondo. Destituire questi ultimi concetti della loro validità, in quanto non giustificati dalla reale esperienza, significa entrare in rotta di collisione con i valori della cultura occidentale: e pochi sono disposti ad affrontare tale rischio; ma sarebbe più esatto affermare «pronti a osare di essere liberi». La libertà fondamentale è quella che emancipa dal senso dell’io, dato che tale illusoria credenza è la radice di tutte le altre false convinzioni. Se si riconosce che l’ego è soltanto un’ideazione mentale alla quale nulla corrisponde nella realtà, anche il mondo naturale appare come processo fenomenico che non implica né un Creatore, né elementi costitutivi di tipo sostanziale. Ciò non significa che la natura, cioè la potenza di mâyâ, non operi in base a leggi definite: le apparenze sono regolate dal principio di interdipendenza: in tal senso, allorché appare un certo evento, la sua esistenza è sempre correlata ad altri fatti che ne rendono possibile il manifestarsi. In questo insieme di relazioni, dove ogni cosa è collegata a tutto il resto, la mente svolge una funzione fondamentale, in quanto da essa dipende la rappresentazione del mondo. Non è questione particolarmente importante sostenere che prima delle forme biologiche si sarebbe formato un ambiente fisico: infatti tale interpretazione evolutiva dell’universo deriva da una visione temporale di tipo lineare. Nel tempo ciclico, ciò che precede e ciò che consegue sono intimamente connessi nella totalità: l’apparente scissione del tutto in un «prima» e in un «dopo» deriva da una prospettiva intellettuale che non riesce a pensare la realtà fenomenica come un insieme di fattori interdipendenti, dove ciò che precede temporalmente contiene già, in sé, le conseguenze manifestantesi in un tempo successivo. Perciò non è esatto parlare di origine della vita a partire dalle condizioni ambientali, in quanto l’ambiente fisico rappresenta qualcosa di analogo alle fondamenta di un edificio: è evidente che una costruzione non può sorgere senza basi che la sostengano, ma l’edificio è già nel progetto del costruttore, altrimenti le fondamenta sarebbero prive di qualunque significato. Dunque la vita è l’essenza e lo scopo dell’universo fisico, essendo già presente, in forma potenziale, anche allorché non ancora manifestata nella dimensione temporale. Un universo di remote epoche galattiche rappresenta soltanto un processo che tende a preparare le condizioni idonee al manifestarsi della vita. Inoltre il fatto che l’origine, nel tempo ciclico, è sempre relativa, mai assoluta, comporta che ogni qual volta l’universo avvia il suo processo evolutivo tale divenire tende alla comparsa dell’esistenza biologica. Per questa ragione, nella tradizione indiana, il mondo viene concepito come mutamento privo di reale inizio: comparsa e dissoluzione dei fenomeni scandiscono l’avvicendarsi del tempo ciclico. Da tale visione del divenire consegue il fatto che la vita non costituisce un fatto accidentale - come sostiene la scienza - né una creazione divina, ma piuttosto la vera essenza del samsâra. Il cerchio dell’esistenza indica un movimento rotatorio, dove in effetti il divenire esprime perennemente le stesse caratteristiche fondamentali: «non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Per tali ragioni, la conoscenza vera è consapevolezza di questo continuo e inutile vagare nella dimensione mondana, nel samsâra, senza altra possibilità di porre fine al dolore esistenziale se non quella di svincolarsi dalle catene che imprigionano nella Ruota dell’esistenza. La liberazione è atto di conoscenza che, in quanto svela la natura dei fenomeni, spodesta mâyâ del suo potere illusorio. Dunque non è l’individuo a liberarsi dal samsâra, in quanto la liberazione è atto di consapevolezza assoluta in grado di denudare le apparenze, privandole del loro fascino seducente, di quella forza di attrazione che costituisce l’energia generatrice del mutamento. Prajñâ è dunque atto d’intelligenza trascendente in grado di liberare la coscienza samsârica (anello tre) dal suo continuo manifestarsi in forme fenomeniche che assumono la parvenza di individui. Si potrebbe intendere la liberazione quale esito conclusivo dell’accadere samsârico: la consapevolezza a tal punto coincide con il vuoto, dal momento che non costituisce più uno stato di coscienza relazionato al samsâra. In realtà, l’atto liberatorio è definito «morte iniziatica»; cioè completo abbandono di tutto ciò che lega agli interessi mondani, dal momento che qualsiasi attaccamento al mondo genera il senso dell’io e del mio.
La mente non è in grado di pervenire alla Verità, per il fatto che essa è condizionata dall’avidyâ; l’intelletto umano è in funzione della conoscenza fenomenica: non è capace di andare oltre le apparenze. Per essere nella Verità, occorre trascendere la mente, la logica, le parole; perciò praiñâ viene intesa come conoscenza che è andata oltre le manifestazioni illusorie del mondo.
Finché la convinzione di essere un individuo indipendente dalla realtà fenomenica eserciterà la sua influenza, non potrà sorgere alcuna forma di vero sapere. La conoscenza empirica ha valore in relazione al mondo, ma non può trascendere il gioco delle apparenze; quindi le scienze rientrano del tutto in quella categoria del conoscere valida esclusivamente nell’àmbito degli eventi mondani. Scienze empiriche e conoscenza spirituale parlano linguaggi diversi e, di conseguenza, non possono intendersi. Le scienze indagano fatti relativi all’apparenza (fenomeni); la conoscenza trascendente svela ciò che si cela dietro le parvenze del mondo. L’intelletto può certamente dubitare dell’esistenza di una forma di conoscenza che non sia quella confermata dai fatti dell’esperienza; ma tale dubbio nasce proprio dall’incapacità della mente di superare le limitate categorie attraverso le quali interpreta la realtà.
Vedere il mondo da una prospettiva al di là della mente significa distaccarsi da tutto ciò che ha generato il senso dell’io: opinioni, valori collettivi, credenze infondate, logica del linguaggio, preferenze e avversioni, timori e aspirazioni. Da tale vertice del mondo, la storia umana appare quale prosecuzione, in forma diversa, delle leggi di natura: rivalità e alleanze tra forze biologiche che lottano per acquisire le condizioni esistenziali più vantaggiose. Ciò che si manifesta come potere politico-economico, giustificato da questa o quella ideologia, rappresenta la sovrastruttura che nasconde l’energia a fondamento del mutamento storico: le tre radici del samsâra.
Libertà da tutto significa sbarazzarsi anche dello storicismo, di quella concezione che interpreta l’essere dell’uomo come storicità. Il passato, a parte rare eccezioni, trasmette soltanto opinioni false e razionalizzazioni miranti a giustificare la volontà di vivere: l’avidyâ non è soltanto uno stato della mente individuale, ma anche un patrimonio storico accumulatosi nel tempo. Permanere nella condizione di nescienza significa interpretare l’esistenza come fatto storico, riconoscendosi attraverso i valori di questa o quella cultura. La vera conoscenza non attribuisce ai valori umani altra realtà se non quella derivante dal bisogno di giustificare, ad ogni costo, uno specifico modello di società. Ma ogni società è samsâra: non esistono sistemi sociali superiori ad altri, perché tutto dipende dal punto di vista di chi giudica; e chi pronuncia il giudizio è integrato in uno specifico modello culturale, con i suoi valori e le sue credenze collettive. Perfino i valori etici del buddhismo costituiscono semplicemente paradigmi comportamentali idonei a percorrere il «sentiero» della liberazione, ma rientrano a pieno titolo nella dimensione samsârica: illuminazione, infatti, è vivere in una prospettiva al di là del bene e del male. Anche le teologie apofatiche, in riferimento a Dio, esprimono l’idea di una realtà situata al di dà degli opposti, perfino del bene e del male. Ad esempio, Brahman nirguna, nel Vedânta, indica l’Assoluto privo di ogni connotazione: nulla può essere attribuito a tale Principio, dal momento che costituisce il totalmente Altro rispetto alla logica e ai valori umani. Il vuoto della concezione buddhista costituisce altresì il superamento dei valori culturali: il loro manifestarsi non ha radici sostanziali. Liberazione è trascendere ogni dualismo: piacere e dolore, gioia e tristezza, volontà di vivere e desiderio di annullamento, bene e male, vita e morte. Tutti i dualismi appartengono al samsâra; l’incondizionato (nirvâna) non dipende da nulla: tanto meno da ciò che l’uomo considera un bene o un male. Dunque esistere nell’incondizionato significa abbandonare il mondo storico, con tutte le sue illusioni e i suoi relativi valori.
Il liberato appare agli altri come un comune individuo, dato che, nel suo rapportarsi all’ambiente sociale, deve mantenere una sua apparente identità: scriveva, Nietzsche, «tutto ciò che è profondo ama la maschera». Non è possibile rivelarsi agli altri come «nessuno»: la società riconosce gli individui solo attraverso un ruolo e un’identità volti a rassicurare mediante l’apparenza di qualcosa di noto. L’ignoto, l’altro, il diverso suscitano turbamento e ansia, per il fatto che l’uomo comune considera normalità ciò a cui è abituato. In tal senso, il buddhismo ricorre al principio del nirmânakâya (corpo fenomenico) per giustificare la relazione tra l’illuminato e le persone comuni: senza tale mascheramento, il liberato non potrebbe stabilire alcun rapporto con altri individui. L’uomo ordinario, cioè quello che identifica la sua esistenza con l’ego, è il fenomenizzarsi di mâyâ, mentre il risvegliato costituisce l’espressione fenomenica di prajñâ: le due apparenze s’incontrano sul piano dell’esistenza relativa, ma vivono in effetti in dimensioni del tutto diverse. Di qui la necessità di adottare un linguaggio che tenga conto delle ordinarie regole logiche della comunicazione convenzionale, per esprimere ciò che di fatto non sarebbe traducibile nei termini del pensiero intellettuale, dato che la Verità trascende ogni discorso e ogni forma di definizione concettuale. Il risvegliato in fondo è un «alieno» che parla il linguaggio umano per stabilire una comunicazione con la comunità dei «dormienti».
La vita rischiarata da prajñâ non appartiene alla dimensione samsârica, perché l’identificazione con la personalità fenomenica è svanita: sussistono, è vero, un corpo e una mente quali espressione di karma accumulato da un tempo senza inizio, ma il risvegliato vede in tali processi fenomenici un’apparenza come tante altre; la sua essenza è altrove, risiede in quella vacuità dove tutto ciò che appare nel mondo è profondamente radicato. Ma proprio per questo atto di autoriconoscimento nella matrice del divenire, la coscienza del risvegliato perde la connotazione di mente offuscata dall’ignoranza, per assumere la forma di consapevolezza cosmica: non l’io, ma il processo del mondo è pervenuto alla Verità, svelando infine l’enigma di mâyâ.
Samsâra e nirvâna costituiscono le due dimensioni dell’esistenza: l’una è sofferenza derivante dal sentirsi un singolo fenomeno sperduto nell’oceano della vita; l’altra, abbandono di tale identificazione: «io» non esisto; c’è soltanto una molteplicità di eventi correlati in modo indisgiungibile. Nell’attimo in cui l’io svanisce, la realtà si manifesta nella sua autentica essenza. Liberazione dal dolore è emancipazione dal sentimento dell’io, dall’illusoria credenza di costituire un sé separato da tutto il resto. Vedere il mondo alla luce di prajñâ è abbandonare la conoscenza dualistica del sapere empirico: non c’è alcun io che conosce, c’è soltanto una realtà divenuta consapevole di se stessa. Il divenire del mondo è un eterno gioco che contrappone, simili a contendenti di una gara, mâyâ e prajñâ: dalla preminenza dell’una o dell’altra, l’esistenza appare come samsâra o quale nirvâna. Perciò le espressioni paradossali della tradizione buddhista lasciano sconcertato l’intelletto discorsivo; il quale non può trovare alcun senso in affermazioni del genere: «nessuno nasce, nessuno muore»; ovvero, «samsâra è nirvâna»; o ancora, «non c’è nessuno che raggiunge il nirvâna». Tali affermazioni dal carattere decisamente irrazionale mirano a trasmettere un messaggio inequivocabile: la logica è uno strumento del pensiero dominato da mâyâ, l’essenza del mondo non è affatto logica. Il principio di non contraddizione ha validità nell’ambito fenomenico; mentre il senso assoluto del reale è fondamentalmente paradossale. Cosa c’è di logico nella proposizione: «la forma è vuoto, il vuoto è forma»? Viene, qui, affermato, in modo palesemente provocatorio per l’intelletto discorsivo, che A è Non-A e Non-A è A. Eppure, se s’interpreta un aforisma del genere, trascendendo i limiti della logica, tutto diventa chiaro. Il fenomeno infatti può generarsi soltanto perché non ha fondamento ontologico: l’essere, in quanto realtà del tutto compiuta, non può manifestarsi, perché, in tal caso, comporterebbe sdoppiamento, divenire, trasformazione; cioè esisterebbe da una parte l’essere, dall’altra la sua manifestazione. Soltanto il vuoto, proprio perché non implica nessuna connotazione ontologica, può apparire come forma; dato che il non possedere alcuna natura definita gli permette, per così dire, di assumere qualunque sembianza. Ogni determinazione è negazione: se, ad esempio, mi riconosco come individuo con qualità specifiche, la definizione della mia identità è anche negazione di ciò che non fa parte del mio essere. Soltanto una «logica» della vacuità può sfuggire al suddetto principio, in quanto non si conforma alle regole ordinarie della definizione; definire significa porre limiti a qualcosa; affermare che A è X implica inevitabilmente che A non è Y, V, Z o altro. Il vuoto, al contrario, «non è»: di conseguenza, può assumere la forma di X, Y, V, Z e qualunque altro modo di manifestarsi. In quest’ottica, la tesi fondamentale di ogni teologia - Dio ha creato il mondo - è insostenibile, per il fatto che una realtà perfetta, cioè del tutto compiuta, non può generare qualcosa: l’atto generativo sarebbe espressione di imperfezione. Anche l’idea di tempo senza inizio e di conseguenza quella di mondo mai generato, sono indubbiamente più logiche, per una razionalità non offuscata dalle credenze ordinarie trasmesse da una tradizione culturale basata su presupposti falsi. Il fatto che, nell’esperienza mondana, ogni evento appaia preceduto da altri non è un buon motivo per generalizzare tale principio, concludendo che anche l’universo deve avere avuto un inizio. Se infatti ci chiedessimo per quale ragione avrebbe dovuto cominciare in un certo momento, non ci sarebbe alcuna risposta ragionevole: solo una fede cieca potrebbe giustificare tale assurdità.
Il rivelarsi della vera natura dei fenomeni non può che trasformare il senso della vita: esaurita l’energia del desiderio che muove il samsâra, tutti gli scopi dell’esistenza mondana rivelano la loro relatività e, in una prospettiva ultima, la loro mancanza di senso. Finalità è un concetto che, riferito al samsâra, appare privo di vero significato: il samsâra non ha mete da raggiungere, per questo motivo viene rappresentato come una Ruota il cui movimento allude simbolicamente all’eterna ripetizione di uno stesso processo. è necessario non essere più espressione del samsâra per conferire significato all’esistenza; anche se tale senso si ridurrebbe infine a un gioco di contrasti dove il divenire genererebbe tanto l’illusione del mondo, quanto la rivelazione della sua inconsistenza. Verità che libera; in primo luogo, dalla presunzione di «essere»: non esistono entità reali, ma processi fenomenici. Inoltre, emancipa da tutte le opinioni derivanti da modelli culturali relativi e, perciò, inadeguati a pronunciare giudizi sulla natura umana e sul senso della vita.
L’uomo di oggi, inserito in un contesto sociale tecnologico e consumistico, si vanta di una presunta libertà d’opinione e di poter scegliere lo stile di vita più adatto alla sua personalità. è semplice immaginazione; la quale scaturisce dall’ignoranza delle autentiche motivazioni del comportamento: nella maggior parte dei casi, l’uomo non sceglie affatto il genere di vita che conduce, dato che non ha alcuna consapevolezza delle forze psichiche che agiscono in lui. In fondo, l’unica libertà consentita, in alcuni casi, è quella relativa al modo di produrre e consumare. Il fatto poi che alcuni sciocchi siano soddisfatti di tale condizione non confuta in alcun modo il carattere doloroso dell’esistenza samsârica: anche gli animali sono felici, allorché trovano cibo e si accoppiano per procreare.
L’antropologia culturale ha evidenziato il fatto che i modelli di organizzazione sociale si fondano su sistemi di valori e credenze oltremodo relativi: tutto muta da un codice di comportamento a un altro; ma le istanze di base della vita rimangono essenzialmente le stesse; l’uomo vuole esistere: in qualsiasi modalità. Bhâva-tanhâ, sete di esistenza: è questa l’energia che muove il samsâra.
Il mondo odierno conferma, se pure ce ne fosse bisogno, la solare chiarezza del suddetto principio: il progresso è espressione del desiderio umano di generare un mondo in grado di appagare ogni istanza. La realtà esterna costituisce il concretarsi dell’attività umana; e allorché l’incremento smodato di beni di consumo fa nascere la fede in un mondo migliore, in effetti ciò che riceve nuova linfa vitale è soltanto il desiderio. Persino un paese come l’India, caratterizzato da una tradizione spirituale millenaria, non ha saputo sottrarsi al fascino dell’occidentalizzazione: sono stati sufficienti due secoli di dominazione coloniale inglese! L’economia di mercato rappresenta la globalizzazione del desiderio; ma, nella maggior parte dei casi, si tratta di un desiderio frustrato. Ormai non esiste più, tranne qualche sperduto villaggio della foresta amazzonica, paese che non guardi al modello occidentale se non come al «regno delle divinità» del samsâra. Illusione anche questa? Certamente! Perché se si scruta con sguardo penetrante tutto ciò che si cela sotto la parvenza dei volti sorridenti delle persone di successo, si scopre una realtà ben lontana da quello stato di beatitudine, ignaro del dolore esistenziale, che caratterizza i paradisi degli dèi. Le «divinità» s’illudono di essere al riparo da ogni sofferenza, ma le regole del samsâra smentiranno presto tale certezza.
Tutto ciò conduce all’enunciazione di alcuni principi pratici per attraversare il samsâra, senza il rischio di essere sballottati qua e là dai procellosi flutti dell’oceano in tempesta: mantenere sempre una distanza di sicurezza dai coinvolgimenti emozionali, dato che offuscano la limpidezza dello sguardo; abbandonare l’idea di essere qualcuno, identificandosi piuttosto con il fluire dell’esistenza, nella consapevolezza della vacuità di ogni esperienza; non giudicare: ogni essere vivente è il prodotto del karma; provare compassione nei confronti di ciò che vive, senza lasciarsi ingannare dall’apparenza illusoria di entità personali. Tali norme minime di condotta possono aiutare a vivere nel samsâra, senza esserne contaminati; in attesa della definitiva conclusione del sogno che ci ha fatto credere di esistere.
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