Vincenzo Talamo

Storie e leggende buddhiste

 


 

INDICE

  

Introduzione
Il thera Nanda
L’ordinazione di Yasa
Il miracolo di Pilindavaccha
Storia di Suppiyâ
Ambapâlî
Storia di Roja Malla
Storia di Jîvaka Komârabhacca
Visâkhâ, la perfetta devota
Storia di Dîghâvu
Storia di Anâthapindika
Devadatta e Ajâtasattu
Lo scisma
Pentimento e morte di Devadatta
Storia di Cakkhupâla
Storia di Matthakundalî
I due asceti
Cûlakâla e Mahâkâla
Il norcino Cunda
Il retto seguace laico
La conversione di Sîha
Il concilio di Vesâli
Indice - Glossario

 


 

PASSI SCELTI

 

Introduzione

Storie e leggende si incontrano in tutte le letterature religiose, e la vasta letteratura buddhistica non fa eccezione. Storie di pii monaci e di laici devoti, di re malvagi e di eremiti irascibili, leggende con interventi di divinità o di trapassati si trovano disseminate sia nei testi canonici che in quelli post-canonici, tutte volte all’esaltazione del Dhamma, della Dottrina annunciata dal Buddha, e all’edificazione dei seguaci. Naturalmente non è possibile separare con un taglio netto la storia dalla leggenda: tutte, o quasi tutte le storie contengono qualche elemento leggendario tendente il più delle volte a magnificare le virtù di un personaggio o il suo valore; ne costituisce un esempio la storia del medico Jîvaka Komârabhacca e dei suoi prodigiosi interventi chirurgici. Come, d’altro canto, in tutte le leggende si trovano elementi di verità che bisogna enucleare dal tessuto fantastico. Anzi, come sosteneva il grande storico delle religioni Mircea Eliade, spesso c’è più verità nel mito che nella storia, e la stessa considerazione si può applicare alle leggende. Sia le «storie» più o meno intrecciate a elementi leggendari, sia le leggende contenenti un nucleo di verità assolvono comunque il compito di divulgare la Dottrina fra le masse incapaci di accedere a più alti livelli; non si deve dimenticare, infatti, che, come ebbe a costatare lo stesso Buddha immediatamente dopo il Risveglio, «questa dottrina è profonda, difficilmente comprensibile, eccelsa, sovrarazionale, astrusa, accessibile (solo) ai saggi». Un esempio tra i tanti possibili: la storia di Cakkhupâla (p. 80). Nessuna dotta disquisizione potrebbe illustrare in maniera più efficace l’ineluttabilità della legge del kamma, di quel cieco meccanismo mirabilmente descritto con una metafora nel Dhammapada (V, 71): «La cattiva azione commessa […] segue lo stolto, come fuoco che cova sotto le ceneri»1. Quale dissertazione dal contenuto moralistico potrebbe, più della storia di Dîghâvu (p. 50), illustrare quella «legge eterna», dhamma sanantana, per cui l’odio non si placa con l’odio, ma col perdono e la benevolenza? E che dire delle immagini che, nella storia di Mahâkâla (p. 102), illustrano con crudo, icastico realismo la nozione di impermanenza (anicca), uno dei tre contrassegni dell’Essere? 2 Sembra quasi di assistere, in un campo crematorio, al progressivo annientamento di un cadavere mediante il fuoco.

1 P. Filippani-Ronconi, Canone buddhista, UTET, 1968.
2
Gli altri due sono: il dolore (dukkha) e l’assenza di un Io, o insostanzialità (anattâ).

Concludendo, storie e leggende assolvono una non trascurabile funzione per così dire didattica; complementari alle esposizioni dottrinarie, non di rado più di queste ultime riescono ad avvincere l’animo dell’ascoltatore (a volte è lo stesso Buddha che parla) o del lettore.

I brani della presente raccolta sono stati tratti in parte dal Vinaya-Pitaka e in parte dalla Dhammapadatthakathâ.


 

Il miracolo di Pilindavaccha

In linea di massima il Buddha condannava le manifestazioni di poteri taumaturgici da parte di quei monaci che li possedevano poiché, il più delle volte, erano motivate da interessi materiali o dall’intento di acquistare prestigio agli occhi dei laici o semplicemente da vanità esibizionistica. Il caso di Pilindavaccha è diverso: si tratta di un sentimento di tenerezza sorto nell’animo del monaco alla vista di una bambina piangente cui la povertà dei genitori non consentiva di prender parte alla festa del villaggio.

A quel tempo il venerabile Pilindavaccha stava ripulendo un declivio nei pressi di Râjagaha volendo costruirvi una spelonca. Allora il re del Magadha Seniya Bimbisâra andò a trovarlo, lo riverì e sedette da parte; sedendo da parte gli chiese: «Che cosa sta facendo il thera, venerabile?».

«Gran re, ripulisco il declivio perché intendo costruirvi una spelonca».

«Venerabile, il reverendo ha bisogno di un ârâmika1?».

1 Inserviente addetto a un ârâma.

«Gran re, il Sublime non ha permesso di tenere un ârâmika2».

2 Non vuol dire che lo avesse vietato, ma semplicemente che non se ne era mai parlato.

«Allora, venerabile, interpella il Sublime e riferiscimi la sua risposta».

«Va bene, gran re» assentì il venerabile Pilindavaccha al re del Magadha Seniya Bimbisâra. Quindi il venerabile Pilindavaccha istruì, stimolò, infervorò, letificò il re con un discorso sulla Dottrina; e il re, istruito, stimolato, infervorato, letificato, si alzò, riverì il venerabile Pilindavaccha e, girando a destra, andò via. Quindi il venerabile Pilindavaccha inviò un messo dal Sublime dicendogli: «Signore, il re del Magadha Seniya Bimbisâra intende assegnarmi un ârâmika; come debbo regolarmi, signore?».

E il Sublime in quell’occasione, dopo aver pronunciato un discorso dal contenuto morale, disse ai monaci: «Monaci, permetto di tenere un ârâmika».

Una seconda volta il re del Magadha Seniya Bimbisâra andò dal venerabile Pilindavaccha e gli chiese: «Venerabile, il Sublime ha dato il permesso di tenere un ârâmika?».

«Sì, gran re».

«Allora, venerabile, io assegno al reverendo un ârâmika».

Ma, dopo aver promesso al venerabile Pilindavaccha di assegnargli un ârâmika, se ne dimenticò. Ricordatosene dopo molto tempo, chiamò un certo ministro degli affari generali e gli chiese:

«Dimmi un po’: quell’ârâmika che ho promesso al reverendo è stato poi assegnato?».

«Maestà, non è stato assegnato alcun ârâmika».

«E quanto tempo è passato da quando è stata presa in esame questa faccenda?».

Allora il ministro fece il conto dei giorni e disse: «Cinquecento giorni, Maestà».

«Allora assegnate al reverendo cinquecento ârâmika».

«Sì, Maestà», e il ministro, avendo così assentito al re, assegnò al venerabile Pilindavaccha cinquecento ârâmika. Sorse così un villaggio distinto che fu chiamato Ârâmikagâma e anche Pilindagâma 3; e il venerabile Pilindavaccha era solito frequentare quel villaggio. Un giorno, vestitosi per tempo, prese ciotola e mantello ed entrò in Pilindagâma per il giro dell’elemosina.

3 Rispettivamente «Villaggio (gâma) degli ârâmika» e «Villaggio di Pilinda».

Nel villaggio quel giorno c’era una festa e le fanciulle, agghindate e adorne di ghirlande, si divertivano. Il venerabile Pilindavaccha, girando passo passo per l’elemosina, giunse alla dimora di un certo ârâmika e sedette sul predisposto sedile. In quella circostanza la figlia dell’ârâmakinî 4, vedendo le altre fanciulle agghindate e adorne di ghirlande, piangeva dicendo: «Date anche a me una ghirlanda, date anche a me un ornamento!».

4 Femminile di ârâmika.

«E come potremmo noi» diceva la madre «procurarci una ghirlanda, poveri come siamo? Come potremmo procurarci un ornamento?».

Allora il venerabile Pilindavaccha prese un rotolo di erba e disse all’ârâmakinî: «Suvvia, metti questo rotolo di erba sul capo della fanciulla».

L’ârâmakinî prese il rotolo di erba e lo mise sul capo della fanciulla; e quello divenne uno splendido diadema d’oro, stupendo, bello a vedersi; nemmeno nella reggia c’era un diadema d’oro come quello. Certe persone riferirono la cosa al re del Magadha Seniya Bimbisâra: «Maestà, in casa del tale ârâmika c’è uno splendido diadema d’oro, stupendo, bello a vedersi; nemmeno nella reggia di vostra Maestà c’è un diadema come quello! Come se lo sarà procurato quel povero? Senza dubbio proviene da un furto». Allora il re fece imprigionare la famiglia dell’ârâmika.

Una seconda volta il venerabile Pilindavaccha, vestitosi per tempo, prese ciotola e mantello ed entrò in Pilindagâma per il giro dell’elemosina. Girando passo passo giunse alla dimora di quell’ârâmika e chiese ai vicini: «Dov’è andata la famiglia dell’ârâmika?».

«Venerabile, il re l’ha fatta imprigionare a motivo di quel diadema d’oro».

Allora il venerabile Pilindavaccha si recò alla reggia e sedette sul predisposto sedile; il re gli si avvicinò, lo riverì e sedette da parte; a lui seduto da parte il venerabile Pilindavaccha chiese: «Gran re, perché hai fatto imprigionare la famiglia di quell’ârâmika?».

«Venerabile, in casa di quell’ârâmika c’era uno splendido diadema d’oro; come se lo sarà procurato quel povero? Senza dubbio con un furto».

Allora il venerabile Pilindavaccha pensò intensamente: «Che il palazzo del re del Magadha Seniya Bimbisâra sia d’oro!», e il palazzo divenne tutto d’oro.

«Gran re» chiese Pilindavaccha, «anche a te donde è venuto tutto quest’oro?».

«Non lo so, venerabile! Questo è un potere taumaturgico del reverendo!».

Pertanto fece rimettere in libertà la famiglia dell’ârâmika.

Vin. I, pp. 206-209


 

Visâkhâ, la perfetta devota

Visâkhâ, madre di Migâra, è il modello ideale della devota laica. In realtà essa non era la madre, bensì la nuora di Migâra, avendo sposato il figlio di costui, Punnavaddhana. Migâra, setthi di Sâvatthi, era un seguace dei nigantha e teneva in dispregio i seguaci del Buddha. Convertitosi poi al Dhamma per merito della nuora, adottò costei come madre in segno di riconoscenza. Il brano seguente mette in luce le eccelse qualità di Visâkhâ come zelatrice dell’Ordine.

Essendosi trattenuto a suo gradimento a Benares il Sublime s’incamminò alla volta di Sâvatthi. Procedendo passo passo giunse a Sâvatthi e là si trattenne, precisamente nel Parco Jetavana, nell’ârâma di Anâthapindika. Allora Visâkhâ, la madre di Migâra andò a trovarlo, lo riverì e sedette da parte; e il Sublime la istruì, la stimolò, la infervorò, la letificò con un discorso dottrinario. Quindi Visâkhâ, istruita, […] letificata dal discorso dottrinario del Sublime, così disse a questo: «Signore, accetti da me il Sublime il pasto di domani assieme alla comunità dei monaci».

Il Sublime accettò rimanendo in silenzio; e Visâkhâ, visto l’assenso del Sublime, si alzò, riverì il Sublime e, girando a destra, andò via. In quella circostanza, trascorsa la notte, un’immensa nuvola estesa all’intera regione si sciolse in pioggia. Allora il Sublime disse ai monaci: «Monaci, come piove sul Parco Jetavana così piove dappertutto; lasciate che il vostro corpo si bagni, monaci: questa immensa nuvola estesa all’intera regione è l’ultima della stagione».

«Sì, signore», e i monaci, avendo così assentito al Sublime, si tolsero le vesti e lasciarono che il loro corpo si bagnasse. Quindi Visâkhâ fece preparare eccellenti cibi solidi e delicati e ordinò alla schiava: «Orsù, va’ all’ârâma e annuncia che è ora: “Signore, è ora: il pasto è pronto”».

«Sì, signora», e la schiava, avendo così assentito a Visâkhâ, andò all’ârâma e vide i monaci che, toltesi le vesti, lasciavano che il corpo si bagnasse. Allora pensò: «Nell’ârâma non ci sono monaci, ma degli âjîvaka 1 che stanno prendendo il bagno». Ritornata pertanto da Visâkhâ le disse: «Signora, nell’ârâma non ci sono monaci, ma degli âjîvaka che stanno prendendo il bagno».

1 Gli âjîvaka andavano abitualmente nudi, donde l’equivoco della schiava.

Allora Visâkhâ, saggia, esperta e intelligente, pensò: «Senza dubbio i reverendi si sono tolte le vesti per bagnarsi, e questa sciocca ha pensato che nell’ârâma non ci fossero monaci ma degli âjîvaka». Pertanto ordinò alla schiava: «Sù, va’ di nuovo all’ârâma e annuncia che è ora del pasto».

Frattanto i monaci, rinfrescate le loro membra e rinfrancato il corpo, avevano ripreso le loro vesti ed erano rientrati ciascuno nella propria cella. La schiava ritornò all’ârâma e, non vedendo i monaci, pensò: «Nell’ârâma non ci sono monaci, l’ârâma è deserto». Ritornata quindi da Visâkhâ le disse: «Signora, nell’ârâma non ci sono monaci, l’ârâma è deserto».

Visâkhâ, saggia, esperta e intelligente, pensò: «Senza dubbio i reverendi, rinfrescate le loro membra e rinfrancato il corpo, hanno ripreso le loro vesti e sono rientrati ciascuno nella propria cella; e questa sciocca ha pensato che nell’ârâma non ci fossero monaci, che l’ârâma fosse deserto». Pertanto ordinò alla schiava: «Sù, va’ di nuovo all’ârâma e annuncia che è ora del pasto».

Quindi il Sublime disse ai monaci: «Monaci, preparate mantello e ciotola: è ora del pasto».

«Sì, signore» assentirono i monaci al Sublime. Questi allora, vestitosi per tempo, prese mantello e ciotola e, come un uomo forte distenderebbe il braccio piegato o piegherebbe il braccio disteso, proprio così, scomparso dal Parco Jetavana, apparve nel portico di Visâkhâ e sedette sul predisposto sedile assieme alla comunità dei monaci. Allora Visâkhâ esclamò: «è stupefacente, è straordinario il potere, il prestigio del Tathâgata dal momento che, pur procedendo con i fiotti fino alle ginocchia e ai fianchi, nessun monaco si è bagnato i piedi o le vesti!». Quindi, gioiosa ed esultante, offrì e servì personalmente eccellenti cibi solidi e delicati alla comunità dei monaci con a capo il Buddha; e quando il Sublime ebbe mangiato ed ebbe allontanato le mani dalla ciotola sedette da parte. Sedendo da parte così ella disse al Sublime: «Signore, io chiedo al Sublime otto favori».

«Visâkhâ, i Tathâgata sono di là dal concedere favori».

«Signore, quel che è lecito non è riprovevole».

«Allora parla, Visâkhâ».

«Signore, io desidero, finché sarò in vita, dare all’Ordine un mantello per la stagione delle piogge, dare cibo ai monaci forestieri, dare cibo a quelli che si assentano, dare cibo agli ammalati, dare cibo a quelli che assistono gli ammalati, dare medicine agli ammalati, dare yâgu con continuità, dare un costume da bagno all’Ordine delle monache».

«Per quale ragione, Visâkhâ, tu chiedi al Tathâgata questi otto favori?».

«Ecco, signore: io ho ordinato alla mia schiava di andare all’ârâma per annunciare che era ora del pasto; la schiava, andata all’ârâma, ha visto i monaci che si erano tolte le vesti per far bagnare il loro corpo e ha creduto che fossero degli âjîvaka. La nudità, signore, è impura, è sconveniente; per questa ragione, signore, io desidero, finché sarò in vita, dare all’Ordine un mantello per la stagione delle piogge. Inoltre, signore, il monaco forestiero, non essendo pratico delle strade e del come procurarsi il cibo, si stanca andando in giro per l’elemosina; mangiando il cibo da me dato ai forestieri non si stancherà ad andare in giro per l’elemosina. Per questa ragione, signore, io desidero, finché sarò in vita, dare cibo ai monaci forestieri. Ancora, signore: il monaco che si assenta, andando da sé in cerca di cibo, o viene abbandonato dalla carovana, oppure giunge troppo tardi alla sede in cui intende recarsi, ed è stanco per il viaggio. Per questa ragione, signore, io desidero […] dare cibo a quelli che si assentano. Ancora, signore: se un monaco ammalato non riceve cibi adatti il suo male si aggrava o ne segue la morte. Per questa ragione, signore, io desidero […] dare cibo agli ammalati. Ancora, signore: il monaco che assiste un ammalato, andando in cerca degli alimenti per sé, porta il cibo all’ammalato nel pomeriggio e in quantità ridotta. Per questa ragione, signore, io desidero […] dare cibo a quelli che assistono gli ammalati. Ancora, signore: se un monaco ammalato non riceve medicine adatte il suo male si aggrava o ne segue la morte. Per questa ragione, signore, io desidero […] dare medicine agli ammalati. Ancora, signore: ad Andhakavinda il Sublime ha permesso l’uso della yâgu in considerazione delle sue dieci proprietà vantaggiose 2; considerando quelle proprietà vantaggiose, signore, io desidero […] dare yâgu all’Ordine con continuità. Infine, signore: le monache prendono il bagno nel fiume Aciravatî, nude e allo stesso guado in cui si bagnano le prostitute; e le prostitute, signore, le canzonano: “Reverende, a che scopo ancora giovani osservate la castità? Bisogna godere dei piaceri dei sensi! Osserverete la castità quando sarete vecchie, così voi conseguirete entrambi gli scopi”. Le monache, signore, canzonate dalle prostitute, si confondono. La nudità delle donne, signore, è impura, è indecorosa, è sconveniente; per questa ragione, signore, io desidero, finché sarò in vita, dare il costume da bagno 3 all’Ordine delle monache».

2 La yâgu conferisce longevità, prestanza, benessere, forza, intelligenza; toglie la fame, sopprime la sete, calma i venti (= meteorismo), purifica la vescica, facilita la digestione dei cibi indigesti (Vin. I, p. 221).

3 Udakasâtikâ, da non confondersi col mantello per la stagione delle piogge (vassikasâtikâ) destinato ai monaci e avente pressappoco la stessa funzione.

«E mirando a quale vantaggio, Visâkhâ, tu chiedi al Tathâgata questi otto favori?».

«Ecco, signore: terminato il ritiro per le piogge i monaci verranno da ogni parte a Sâvatthi per vedere il Sublime e, avvicinatolo, lo interrogheranno: “Signore, il monaco tal dei tali ha compiuto il suo tempo; quale sarà il suo cammino? Quale la sua futura condizione?”. Il Sublime risponderà che quel monaco ha conseguito il frutto dell’entrata nella corrente o il frutto del ritornare in esistenza una sola volta o il frutto del non più ritornare o il frutto della condizione di arahant. Io allora avvicinerò quei monaci e chiederò loro: “Venerabili, quel reverendo è venuto in passato a Sâvatthi?”. Se quelli mi diranno: “Quel monaco è venuto in passato a Sâvatthi”, io penserò: “Sotto questo rispetto ho raggiunto il mio scopo: senza dubbio quel reverendo ha fruito o del mantello per la stagione delle piogge o del cibo per i forestieri o del cibo per quelli che si assentano o del cibo per gli ammalati, […] per quelli che assistono gli ammalati, […] delle medicine, […] della yâgu. Ricordandomi di ciò sorgerà in me letizia, dalla letizia nascerà gioia, essendo l’animo gioioso il corpo si calmerà, per la calma del corpo proverò beatitudine, per la beatitudine la mente si comporrà e da ciò seguiranno per me sviluppo delle facoltà, delle forze, dei fattori di risveglio. Mirando a questo vantaggio, signore, io chiedo al Tathâgata quegli otto favori».

«Benissimo, Visâkhâ! Rettamente, mirando a questo vantaggio, tu chiedi al Tathâgata quegli otto favori; ed io, Visâkhâ, te li concedo». Quindi il Sublime espresse con questi versi il proprio compiacimento a Visâkhâ, la madre di Migâra:

«La discepola del Beato che, munita di sani princìpi,
con grande gioia vinta l’avarizia elargisce cibo e bevande,
dono connesso al cielo che rimuove il dolore e arreca gioia,
ottiene una divina longevità
grazie al puro, immacolato sentiero;
compiacendosi di azioni meritorie, gioiosa,
felice, a lungo esulta in celeste compagnia».

Vin. I, pp. 290-294


 

Pentimento e morte di Devadatta

Uno dei capisaldi del Buddhismo, per lo meno del Buddhismo antico, è l’ineluttabilità della legge del karman (pâli: kamma): alle buone azioni segue immancabilmente, presto o tardi, una «ricompensa», come al cattivo operato segue un «castigo». Gioie e sofferenze, rispettivamente godute o subite in questa stessa vita o in esistenze successive, scaturiscono automaticamente dalle azioni compiute e non possono essere eluse da alcun intervento umano o divino. Tuttavia, il seguente passo della Dhammapadatthakathâ (Commentario al Dhammapada), che si riferisce alla morte di Devadatta, sembra infirmare, o per lo meno attenuare, il rigore della legge del karman.

Va tenuto comunque presente che la Dhammapadatthakathâ fa parte dei testi post-canonici.

Devadatta stette ammalato nove mesi; in ultimo, desiderando vedere il Maestro, disse ai suoi discepoli: «Desidero vedere il Maestro; fate in modo che io lo veda».

Quelli dissero: «Quando stavi bene ti sei comportato da nemico col Maestro; noi non ti condurremo da lui».

Devadatta replicò: «Non mandatemi in rovina! Sono stato cattivo col Maestro, ma lui non sarà in collera con me fino alla cima dei capelli! […] Fate che io veda il Sublime!» implorò ripetutamente Devadatta.

Alla fine quelli presero il letto sul quale egli giaceva e si avviarono. I monaci, udito che stava per giungere, avvertirono il Maestro: «Signore, pare che Devadatta stia venendo per vedervi».

«Monaci,» disse il Sublime «a causa di quella sua natura 1 egli non otterrà più di vedermi».

1 «ten’ attabhâvena». E. W. Burlingame traduce invece «in this existence» (Harvard Oriental Series, Buddhist legends, vol. 28, parte 1, p. 240; Pali Text Society, Londra 1969).

«Signore, è giunto nel tal posto, è giunto nel tal altro posto».

«Faccia quello che vuole: non otterrà di vedermi 2». […]

2 Non si tratta qui di malanimo del Buddha nei confronti di Devadatta; semplicemente, in forza del suo kamma negativo, Devadatta non può vedere il Sublime.

«Signore, è giunto a uno yojana da qui, è a mezzo yojana, è a un gâvuta, è giunto nei pressi del lago dei loti».

«Anche se entrerà nel Parco Jetavana non otterrà di vedermi».

Quelli che trasportavano Devadatta, giunti sulla riva del lago dei loti del Parco Jetavana, deposero il letto e scesero nel lago per bagnarvisi. Devadatta, alzatosi dal letto, sedette poggiando i piedi al suolo; ma i suoi piedi sprofondarono nella terra. Sprofondando a poco a poco nella terra, prima fino alle caviglie, poi fino alle ginocchia, fino alle anche, fino al petto, fino al collo, quando soltanto le mascelle rimanevano ancora alla superficie Devadatta pronunciò questa strofa:

«Con queste ossa, coi miei spiriti vitali
io prendo rifugio nel Buddha, nel migliore degli uomini,
nel dio degli dèi, nel domo auriga degli uomini,
nell’onniveggente portatore di innumerevoli meriti!».

Il Tathâgata, invero, vista la situazione, riammise Devadatta nell’Ordine pensando: «Se non rientrerà nell’Ordine, rimasto laico e con un kamma così pesante, non potrà nutrire fiducia in una futura esistenza 3; rientrando invece nell’Ordine, nonostante il peso del suo kamma, potrà nutrire fiducia in una futura esistenza 4». Per questo il Maestro lo riammise nell’Ordine. Infatti, al termine di centomila kappa, Devadatta diverrà il Paccekabuddha di nome Atthissara 5.

3 «âyatibhavassa paccayam kâtum»; prendendo paccayam nel significato più comune di «base, fondamento» anziché in quello di «fiducia», si potrebbe anche tradurre «porre le basi di una futura (sott. favorevole) esistenza».
4
In un manoscritto birmano della Dhammapadatthakathâ, in questa seconda parte della frase, in luogo di «âyatibhavassa paccayam» si legge «âyatim bhavanissaranapaccayam» = «futura uscita dall’esistenza», cioè futura salvezza; comunque, il concetto è il medesimo.
5
In questo intervento in extremis del Sublime si può ravvisare una prefigurazione del potere salvifico, quasi taumaturgico, del Buddha Amida nella setta mahâyânica Jôdo del Giappone: Amida accoglie nella sua Terra Pura (Sukhâvatî) il peccatore che in punto di morte lo invoca con fede e con cuore sincero.

DhA I, pp. 146-148


 

I due asceti

In un Paese caratterizzato da stridenti contraddizioni e da valori apparentemente inconciliabili quale è l’India, non deve stupire che vi siano degli asceti dal temperamento collerico, pronti a scagliare maledizioni (abhisapana) anche per futili motivi. è quanto viene illustrato nel seguente episodio tratto dalla Dhammapadatthakathâ. L’asceta Nârada è il Buddha in una delle sue vite anteriori.

In passato, durante il regno di un re di Benares, un asceta di nome Devala, dopo aver dimorato per otto mesi sullo Himâlaya, volendo alloggiare per quattro mesi presso una città allo scopo di rifornirsi di sale e aceto, scese dallo Himâlaya. Alla porta della città vide dei ragazzi ai quali chiese: «Dove alloggiano gli asceti che giungono in questa città?».

«In casa del vasaio, venerabile» risposero quelli.

Devala andò alla casa del vasaio, sostò alla porta e disse: «Bhaggava 1, se non ti dispiace alloggerei per una notte in casa tua».

Era il nome del vasaio.

Il vasaio gli cedette la casa dicendo: «In casa mia non c’è nulla da fare durante la notte e la casa è grande; alloggiatevi a vostro piacere, venerabile».

Devala era appena entrato e si era seduto, che un altro asceta, di nome Nârada, giunto anche lui dallo Himâlaya, pregò il vasaio di farlo alloggiare per una notte. Il vasaio pensò: «Quello che è arrivato prima potrebbe gradire o non gradire di alloggiare assieme a questo; io mi scaricherò di ogni responsabilità». Pertanto disse: «Venerabile, se quello che è giunto per primo non ha nulla in contrario alloggiate pure».

Allora Nârada si avvicinò a Devala e gli disse: «Maestro, se non ti dispiace alloggerei anch’io qui per una notte».

«La casa è grande» rispose Devala, «entra pure e sistemati in un canto».

Nârada entrò e sedette dietro a Devala. Dopo essersi scambiati dei convenevoli si distesero entrambi. Al momento di addormentarsi Nârada guardò il giaciglio di Devala e la porta e poi si distese; Devala però non si distese sul proprio giaciglio, bensì di traverso dinanzi alla porta. Nârada, uscendo durante la notte, calpestò la sua treccia 2.

Jatâ; Devala era un jatila, cioè un asceta portatore di treccia o crocchia.

«Chi mi ha calpestato?» chiese Devala.

«Sono stato io, maestro» disse Nârada.

«Falso asceta! Sei venuto dalla foresta per calpestarmi la treccia?».

«Maestro» disse Nârada, «non sapevo che vi eravate disteso qui; perdonatemi», e uscì mentre l’altro brontolava.

Devala pensò: «Adesso rientrando mi calpesterà di nuovo», pertanto si rigirò mettendo la testa al posto dei piedi. Nârada, rientrando, pensò: «Prima ho offeso il maestro, adesso entrerò tenendomi dalla parte dei suoi piedi», e rientrando gli calpestò il collo.

«Chi è?» chiese Devala.

«Sono io, maestro».

«Falso asceta! Prima mi hai calpestato la treccia e adesso mi calpesti il collo! Ti maledirò!».

«Maestro, non ne ho colpa: sono rientrato senza sapere che vi eravate rigirato e ho pensato di tenermi dalla parte dei piedi; perdonatemi».

«Falso asceta, ti maledirò!».

«Non fate così, maestro!».

Ma l’altro, senza ascoltare le sue parole, così lo maledisse:

«Il sole dai mille raggi e dalle cento fiamme vince le tenebre;
al sorgere del sole ti si spacchi la testa in sette pezzi!».

Disse Nârada: «Maestro, io dico che non ho colpa e voi mi maledite ugualmente; si spacchi la testa a chi è colpevole, non a chi e innocente!». E maledisse a sua volta:

«Il sole dai mille raggi e dalle cento fiamme vince le tenebre;
al sorgere del sole ti si spacchi la testa in sette pezzi!».

Dotato di grandi poteri, egli poteva abbracciare con la mente ottanta kappa, quaranta passati e quaranta futuri. Pertanto, riflettendo: «Su chi cadrà la maledizione?», vide che sarebbe caduta su Devala. Allora, per compassione di lui, con la forza dei suoi poteri psichici impedì che il sole sorgesse. I cittadini, non levandosi il sole, andarono a piangere alla porta della reggia: «Sire» dicevano, «sul tuo regno non sorge il sole! Fa’ sorgere il sole per noi».

Il re, esaminando il proprio operato e non trovandovi nulla di scorretto, pensò: «Quale può esserne la causa?». Sospettando che ciò avvenisse per una lite fra asceti, chiese: «Ci sono forse degli asceti in questa città?».

«Maestà» gli risposero, «sono giunti ieri sera nella casa del vasaio».

Il re vi si recò immediatamente con delle torce, riverì Nârada e, sedendo da parte, disse: «Nârada, nel Jambudîpa 3 le opere non vanno avanti; da che cosa è oscurato il mondo? Dimmelo, ti prego».

«Terra della Melarosa»: il subcontinente indiano, uno dei quattro grandi territori disposti, secondo la cosmologia indù, attorno al mitico monte Meru, axis mundi.

Nârada gli riferì tutto l’accaduto, poi disse: «Per questa ragione sono stato maledetto da costui; allora ho detto: “Io sono senza colpa; cada la maledizione su chi è colpevole”, e ho maledetto a mia volta. Dopo aver maledetto ho riflettuto e ho visto che al sorgere del sole la testa del maestro si sarebbe spaccata in sette pezzi; allora per compassione di lui ho impedito che il sole sorgesse».

«E come si potrebbe rimuovere questo ostacolo, venerabile?» chiese il re.

«Se costui mi chiedesse perdono l’ostacolo si rimoverebbe».

«Sù, chiedi perdono» disse il re a Devala.

«Gran re, costui mi ha calpestato la treccia e il collo; non chiederò perdono a questo falso asceta».

«Chiedi perdono, venerabile, non fare così».

«No, gran re, non chiederò perdono».

«La tua testa si spaccherà in sette pezzi!».

Ma neanche a queste parole quello chiese perdono. Allora il re gli disse: «Chiederai perdono tuo malgrado» e, agguantatolo per le mani, per i piedi, per l’addome e per il collo, lo costrinse a prosternarsi ai piedi di Nârada.

Questi gli disse: «Alzati, maestro; ti perdono»; poi si rivolse al re: «Gran re, costui non chiede perdono di buon grado; non lungi dalla città c’è un lago; conducilo lì, mettigli un blocco di argilla in testa e immergilo nell’acqua fino alla gola».

Il re così fece. Quindi Nârada si rivolse a Devala: «Maestro, per lo sprigionarsi dei miei poteri psichici quando sorgerà il fiammeggiante sole tu, immerso nell’acqua, ne riemergerai in un altro posto e te ne potrai andare».

Al contatto dei primi raggi solari quel blocco di argilla si spaccò in sette pezzi; Devala che stava immerso nell’acqua ne uscì in un altro posto e fuggì.4

Poiché, sia pure suo malgrado, Devala si era prosternato ai piedi di Nârada, la maledizione era stata mitigata.

DhA I, pp. 39-43

 

    

 


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