Introduzione
Hatha-yoga e râja-yoga
Forme diverse di Yoga
Lo hatha-yoga
La scuola dei nâtha
Lo Yoga «regale»
Il testo e la sua tradizione
La lucerna dello hatha-yoga (Hatha-yoga-pradîpikâ)
Prima lezione
Seconda lezione
Terza lezione
Quarta lezione
Appendice didattica
La pratica dello hatha-yoga
Gli âsana
Il prânâyâma
Mudrâ e bandha
Bibliografia essenziale
Indice-glossario
PASSI SCELTI
Tutta la speculazione indiana è volta alla ricerca di una via di salvezza dalla realtà esistenziale, concepita come dolorosa, che condanna l’individuo a vivere un perpetuo ciclo costituito da nascita, vita, morte, successiva rinascita, esistenza, e così via, in una successione senza fine, in cui rimane solo lo spazio per una pena infinita e un greve dolore. Nel pensiero e nella tradizione indiana è costantemente presente l’aspirazione alla liberazione (moksa), all’affrancamento da questo perverso ciclo, chiamato samsâra. Che cosa dà origine al samsâra, perché questa paradossale condanna alla vita, perché questo dolore cosmico? In sintesi - si esaminerà la metafisica su cui si basa il sistema Yoga di Patañjali in un successivo paragrafo - in ciascun individuo esiste un dualismo tra un Sé eterno, inattaccabile, spettatore (drastr) non corrotto né coinvolto dall’agire e dal vivere, stabile ed eternamente immutabile, e il mutevole complesso psicofisico che appare come la parte volitiva, agente, ed è considerato erroneamente come cosciente. Ogni azione compiuta da questa entità individuata da un Ego, dotato di determinati pensieri, emozioni, desideri, crea un legame (bandha).
Ciascun atto compiuto, o detto, o anche solo pensato, non è mai in sé conchiuso, bensì diventa seme di azioni future. Qualsiasi gesto, sia positivo sia negativo, il più nobile atto religioso o il più nefando peccato, e così anche la più insignificante tra le azioni, come far reclinare un filo d’erba con un soffio, è gravido di conseguenze che si svilupperanno, «matureranno», si compiranno nel corso del tempo. Il frutto dell’azione si potrà manifestare nell’istante successivo al fatto, o un’ora dopo, oppure l’anno seguente, ma anche dopo un periodo di tempo tanto lungo da sfiorare l’inimmaginabile. Certo è che l’azione genera altra azione.
Il karman - questo è il termine che indica sia l’atto sia la legge di causa ed effetto innescata da quest’ultimo - è la causa efficiente del ciclo samsarico. Ogni individuo reca in sé un’impronta subliminale (vâsanâ) causata dalle azioni compiute nelle precedenti esistenze: sono queste latenze psichiche a condizionare ogni azione e ogni pensiero (samkalpa), e si attua così un circolo chiuso: karman/vâsanâ/samkalpa/karman. Si vede bene che il meccanismo non presenta alcun punto debole; si autorinnova e si rafforza continuamente. Anche il tentare di fuggire crea altro legame, proprio come un pesce, preso nella rete d’un pescatore, si rinserra sempre più fra le maglie nei forsennati spasimi della fuga. Spezzare il cerchio, affrancarsi dal samsâra: questa è l’aspirazione prima, è la costante tensione. Lo Yoga è il mezzo e il fine di questa ricerca.
Un’analisi del nome consente di cogliere meglio questa duplice valenza della parola Yoga: essa deriva dalla radice yuj, che significa «unire», «aggiogare» - in modo particolare animali da tiro, tra loro o a un carro - «raffrenare»: significa quindi unione, e indica l’incontro che deve avvenire tra il Sé individuale (jîvâtman) e Sé universale (paramâtman), il finale riassorbimento dell’uno nell’altro. Nello stesso tempo, essa allude anche all’aggiogamento, alla repressione, anche violenta, degli istinti, al controllo totale della mente (manas), indispensabile per raggiungere i vertici della disciplina stessa. Proprio il verso d’apertura della Hatha-yoga-pradîpikâ afferma che la scienza dello hatha-yoga è come una scala per chi desidera attingere le vette del râja-yoga. L’allusione a due classi di Yoga rende necessaria una prima fondamentale chiarificazione: se il fine dello Yoga - definibile in modo approssimativo ma corretto come la reintegrazione dell’individuo nel Sé universale - è unico, il metodo per raggiungerlo è invece multiforme. Nel corso del tempo si sono sviluppati vari percorsi, in parte tra loro interdipendenti, in parte originali, per ottenere questo scopo. Il significato del primo verso della Hatha-yoga-pradîpikâ potrà venir compreso in tutta la sua ampiezza solo dopo un esame, anche se sintetico, delle varie forme di Yoga e delle relazioni che esistono tra loro.
L’esperienza dello hatha-yoga come disciplina del corpo e della mente volta a creare una situazione esistenziale altra da quella ordinaria è verosimilmente adombrata nelle icastiche immagini di alcuni sigilli dell’antica civiltà dell’Indo, databili alla seconda metà del terzo millenio a.C., ritrovati nella città di Mohenjo Dâro. In essi è rappresentata una figura presumibilmente divina, tricipite, ornata da un particolare copricapo dotato di due ampie corna. Il dio - se tale è - si trova affiancato da quattro animali, due per lato: un elefante, una tigre nell’atto di spiccare un balzo, un bufalo e un rinoceronte. Al di sopra ci sono alcuni dei 270 segni che sono stati classificati e che sono presenti nei vari sigilli rinvenuti e rimasti fino a oggi indecifrati. La figura divina è itifallica, assisa in una postura presumibilmente yoghica, simile a quella conosciuta attualmente come mûlabandha-âsana. L’attenta lettura iconografica del sigillo ha permesso di avanzare l’ipotesi che la figura rappresentata possa essere quella di un proto-Siva, che del dio già possiede alcune delle principali caratteristiche: l’essere il Signore degli animali (Pasupati) e degli yogin (Yogindra). Potrebbe forse non essere azzardato vedere in questa figura Âdinâtha, il primevo Maestro al quale i kânphata-yogin fanno risalire l’insegnamento dello hatha-yoga, proprio quello che viene illustrato nel manuale di cui diamo la traduzione.
È opportuno tornare a sottolineare che il Signore (Isvara) rappresentato sul sigillo è portatore del simbolo della potenza e fertilità maschile, il linga (lett. caratteristica, segno distintivo), oggetto di culto da parte dei seguaci delle dottrine sivaite. A differenza di quanto si può credere, il linga non viene venerato nella sua originaria valenza, o quanto meno, non solo in essa, bensì come simbolo aniconico del dio, nel quale la divinità stessa si manifesta. Il Signore primevo dei sigilli, proprio come Siva, riassume in sé funzioni opposte e complementari: assiso in una positura yoghica connessa con la continenza (brahmacarya) egli è tuttavia rappresentato nella sua massima potenza: in realtà, è proprio il brahmacarya che lo rende virile. Nella visione dello hatha-yoga, egli attende la riunificazione con la Sakti, la Potenza, sua paredra, assiso nel loto dai mille petali posto al sommo del capo. La loro unione (maithuna) è «casta», avviene cioè senza effusione di seme: non ha quindi una fine, un termine fisiologico, ed è senza dispersione d’energia, anzi, al contrario, procura nuovo vigore. Si ricostituisce così in Siva l’androgino primordiale: la Potenza s’invera nell’Essere e ogni divisione è superata nell’unità ritrovata. Così il Sé individuale è riassorbito nel Sé universale. Ecco dunque che tutto quanto è collegato alla sfera psicosessuale si carica di significati plurimi, in un continuo rimando tra sfera umana e super-umana. In ultima analisi, questo àmbito contiene energie potenti e vitali, ma pericolose. è compito di ogni singolo individuo il governarle nel migliore dei modi, così da poterle indirizzare al recupero della sua propria identità col Sé assoluto, meta quest’ultima la più ardua tra tutte, raggiungibile solo con particolari esercizi psico-fisici che costituiscono l’estrema frontiera dello hatha-yoga.
In senso stretto, infatti, lo hatha-yoga è composto da sette parti: satkarman (i sei atti purificatori); âsana (posizioni), spesso accompagnate da particolari contrazioni (bandha); mudrâ (gesti); pratyâhâra (ritiro dei sensi dagli oggetti esterni, introflessione); prânâyâma (controllo del respiro); dhyâna (stato di ininterrotta concentrazione, costante e serrata meditazione su un punto); samâdhi (lett. unione): particolare stato di profonda concentrazione, durante il quale ogni differenza tra colui che pensa, l’oggetto meditato e il pensiero stesso viene meno.
Purtuttavia questa disciplina, se da un lato possiede una sua morfologia ben definita, dall’altro trascolora ai bordi, per dir così, in altre forme di Yoga. Mudrâ e bandha, per esempio, sono cerniere tra lo hatha- e il kundalinî-yoga. Infatti, come ben è illustrato nel testo della Hatha-yoga-pradîpikâ, particolari contrazioni di determinate parti del corpo, quali l’ano e la regione ombelicale, sono in grado di stimolare Kundalinî addormentata e giocano quindi un ruolo essenziale nel suo risveglio. Il râja-yoga, poi, ha molto in comune con lo hatha- ed è a esso saldamente intrecciato; in definitiva, è estremamente difficile la comprensione dell’uno senza la conoscenza dell’altro.
È il nome stesso di questa dottrina che ci offre un’importante chiave per la sua interpretazione e comprensione. Hatha è un sostantivo che significa «violenza», «forza», e realmente intessuta di forza è la struttura dello Yoga; si rammenti quale sforzo è necessario per assumere e mantenere determinate posizioni; si pensi, a questo proposito, a quegli âsana nei quali il corpo è retto unicamente dalle braccia, come il kukkuta-âsana e il mayûra-âsana, o in cui si attuano forti torsioni, come il gomukha-âsana, il matsyendra-âsana, il kûrma-âsana, per non citarne che alcuni. La tensione, lo sforzo, non sono fatti marginali, bensì centrali nella pratica dello hatha-yoga. La tensione dinamica presente nella posizione yoghica e le contrazioni che interessano varie parti del corpo interferiscono con determinati parametri della fisiologia ordinaria e di quella sopracorporea o «mistica», creando così le condizioni indispensabili affinché avvenga quel passaggio di condizione, di stato, che è il fine ultimo dello Yoga: dalla vita nel samsâra all’esistenza al di fuori di esso, in una condizione di «liberato» pur essendo ancora vivente (jîvanmukta).
Secondo la tradizione indiana, con il corpo concreto, tangibile e visibile, «grosso» (sthûla-sarîra), che nasce, invecchia e muore, veglia e dorme, si nutre, soffre e prova piacere, coesiste un corpo «sottile» (linga-sarîra), il quale, invisibile e intangibile, è presente in un diverso livello di realtà; esso obbedisce a ben determinate regole, che Mircea Eliade definisce, nel loro complesso, come «fisiologia mistica». è su questo corpo sottile che opera lo hatha-yoga, e ogni operazione yoghica che si compie ha una precisa risonanza su di esso.
Ogni creatura vive finché in essa fluisce il prâna. Il prâna è il soffio vitale, il fluido che, inspirato dalle narici, dà vita e forza. Esso, in parte, può essere paragonato a ciò che è l’elemento aria (vâyu) nel macrocosmo: fattore veicolatore per eccellenza, instabile, in movimento incessante. Il prâna non è unico, ma assume vari nomi e funzioni all’interno del corpo. In tutto sono cinque i soffi che vi circolano: il prâna in senso stretto designa il soffio ascendente che è preposto alla respirazione e alla deglutizione e ha sede nel cuore. L’apâna, il soffio discendente, presiede alle funzioni escretive e al parto: la sua sede è nell’ano. Il samâna, il soffio centrale, o concentrato, genera e controlla la temperatura corporea, sovrintende alle funzioni digestive e assimilative ed è posto nella regione ombelicale. L’udâna, cioè il soffio che va verso l’alto, ha sede nella gola e risalendo verso il capo consente la fonazione. Il vyâna, infine, il soffio diffuso, o pervadente, circola per tutto il corpo e sovrintende al movimento.
Il soffio vitale, che è inspirato durante il normale atto respiratorio, circola, nell’individuo, in un complesso sistema di organi tubolari (nâdî) che, seppur vagamente, possono venir paragonati ai capillari del corpo fisico. Il loro numero è altissimo: usualmente se ne contano settantaduemila. Non tutti però hanno la medesima importanza: trentacinque sono i principali, ma solo tre sono considerati fondamentali.
Tutte le nâdî, meno una, hanno origine in un particolare organo conosciuto come kanda (bulbo), che ha la forma di un uovo (Goraksa-sataka, 25), ovvero è simile a un tessuto avvolgente, morbido e bianco (Hatha-yoga-pradîpikâ, III, 113), collocato al di sopra degli organi genitali e al di sotto dell’ombelico. è perforato da parte a parte dalla nâdî più importante tra tutte, che non nasce da esso: la susumnâ, che rappresenta, nel microcosmo costituito dal corpo umano, quello che è il monte Meru nella realtà macrocosmica: è l’asse che unisce la terra al cielo, il mondo degli uomini e quello degli dèi. Essa nasce dal mûlâdhâra-cakra, e s’innalza fino al sommo del cranio, situandosi approssimativamente nella zona della spina dorsale. A differenza delle altre, la susumnâ è una nâdî complessa: è infatti costituita da ben quattro guaine concentriche. La più esterna è la susumnâ vera e propria; vi sono poi la vajrâ (l’adamantina), la citrinî («dai brillanti ornamenti», in quanto i vari splendidi cakra sono infilati su di essa come perle su un filo) e infine la brahma-nâdî («il canale di Brahmâ»), che giunge fino al centro del mûlâdhâra-cakra, dove si trova lo svayambhû-linga di Siva, cioè il linga esistente da sé, increato ed eterno. L’estremità superiore della susumnâ, come s’è detto, raggiunge e oltrepassa la sommità del cranio, fino a penetrare nel centro del sahasrâra-padma, il loto dai mille petali che è il luogo oltre tutti i luoghi. Qui risiede Parama-Siva, che altro non è se non il Brahman, l’Entità Assoluta, alla quale ci si può riunire solo dopo aver abbandonato il livello esistenziale samsarico. La susumnâ è ponte tra i due livelli, tra il mondo dell’esistere nell’effimero e quello dell’essere al di là del tempo. Non è un ponte per tutti, però; solo pochi sono in grado di utilizzarlo. Infatti, nel mûlâdhâra-cakra, proprio all’imbocco inferiore della susumnâ all’altezza dello svayambhû-linga, si trova la paredra di Siva, la Sakti, o Potenza, Energia, in sembianza di serpente avvolto in tre spire e mezza - da cui l’appellativo di Kundalinî cioè l’arrotolata - la testa del quale occlude il canale di Brahmâ. Finché la susumnâ-nâdî è così ostruita, non può svolgere le sue funzioni: il complesso sistema fin qui descritto è bloccato, ed è in grado di assicurare solo la vita ordinaria. Il prâna scorre nelle nâdî - eccetto che nella susumnâ, naturalmente - così da consentire le normali funzioni vitali: digestione, assimilazione, evacuazione, movimento e via dicendo. Questa vita, però, conduce alla morte e, ancor peggio, perpetua la schiavitù del samsâra: «fintanto che il prâna vive e il manas (la mente che pensa) non è morto, come può affiorare nella mente la conoscenza del Sé? Solo l’uomo che arriva alla dissoluzione di questa coppia: prâna e manas, ottiene la liberazione, e nessun altro» (Hatha-yoga-pradîpikâ, IV, 15). La Conoscenza e la Liberazione possono essere dunque ottenute solo quando il pensiero è fatto perire, poiché solo nel totale silenzio della psiche può svilupparsi la comprensione del Sé, del Brahman, e si può giungere alla riunione con l’Assoluto trascendente. E la dissoluzione del manas si ha solo grazie al controllo e alla successiva immobilizzazione del prâna: uno stretto legame collega il soffio vitale alla mente. La dispersione, il movimento, l’instabilità portano alla morte; la concentrazione, la fermezza, la stabilità, l’unificazione in un sol punto permettono invece di raggiungere lo scopo dello Yoga, il samâdhi, la particolare situazione esistenziale in cui si ha identità tra soggetto pensante, pensiero e oggetto pensato e si recupera, infine, la coscienza dell’unità tra Sé individuale e Sé universale.
La via maestra per ottenere la stabilizzazione del prâna, punto centrale per ogni futuro cammino, è precisamente lo hatha-yoga. Appropriate posture, abbinate al prânâyâma e ai bandha, stimolano Kundalinî-Sakti, la quale, come s’è descritto, è assopita, immemore, nel mûlâdhâra-cakra. La Potenza allora si risveglia e la sua testa penetra attraverso il brahma-dvâra (la porta di Brahmâ) nella susumnâ. Finalmente, grazie a questo movimento, due fatti fondamentali possono aver luogo: ha inizio il lungo cammino di Kundalinî - un percorso trionfante che termina, dopo la perforazione dei sei loti, nel sahasrâra-cakra, dove si realizza il connubio (maithuna) con Siva - e si apre l’accesso alla susumnâ. S’è visto come il prâna fluisca incessantemente attraverso il sistema di canali (nâdîcakra) presenti nel corpo sottile: in particolare esso scorre anche lungo idâ e pingalâ, le due nâdî opposte e complementari che, partendo dal kanda, s’intrecciano intorno alla susumnâ per cinque volte, all’altezza di ciascun cakra, e terminano nelle narici, gli accessi del prâna. Pingalâ inizia nel kanda alla destra della susumnâ, e sbocca nella narice destra: rappresenta il principio maschile; è la corrispondente della Yamunâ nel macrocosmo e di Sûrya, il Sole, del quale ha la brillantezza, la forza, il calore. Idâ, invece, è paragonata al Gange (la Gangâ, in sanscrito), e rappresenta il principio femminile; è Candra, la Luna, e come tale è pallida e fredda. Quando finalmente l’accesso al canale mediano è dischiuso, il prâna abbandona la circolazione in idâ, pingalâ e le altre nâdî e trova rifugio, quiete e stabilità definitiva in esso. Le essenze polari si riuniscono nell’unico principio; Sole e Luna, maschile e femminile, diventano uno, realizzano una sintesi che è al di sopra delle due parti che la costituiscono. La parola hatha-yoga rivela allora una pregnanza ancora maggiore, più profonda: ha, infatti, è uno dei nomi di Sûrya, il Sole, e tha indica Candra, la Luna: hatha è quindi lo Yoga dell’unificazione della Luna col Sole, del flusso di idâ con quello di pingalâ, che avviene all’interno di susumnâ.
Susumnâ, dunque, è il luogo vuoto dove trova finalmente stabilità il prâna, dove il piano delle polarità è definitivamente superato, ed è altresì il percorso della Potenza (Kundalinî-Sakti) verso Parama-Siva. Essa attraversa sette cakra (lett. ruote) detti anche padma (loti), zone nevralgiche della fisiologia sottile indiana, la cui attivazione consente allo yogin di ottenere poteri soprannaturali, che principalmente si manifestano nel dominio dell’elemento preposto al cakra stesso. Il primo è il mûlâdhâra, così chiamato in quanto è situato alla radice (mûla) della susumnâ. Si trova nella regione del perineo, tra l’ano e gli organi genitali, ed è un loto formato da quattro petali purpurei, contrassegnati dalle sillabe va, sa, sa e sa, seguite dalla risonanza nasale, simbolo e ricordo di quella vibrazione, di quel suono originario non causato (anâhata-nâda) che ha dato origine a ogni cosa. All’interno del loto vi è il simbolo dell’elemento terra, un quadrato, e il colore dominante è il giallo. Nel quadrato è inserito il mantra connesso con la terra, che la evoca e la definisce, cioè la sillaba lam, sostenuta dall’elefante Airâvata. All’interno del mantra si trovano le divinità preposte al cakra: Brahmâ e la Devî flâkinî. Meditare su questo loto, dirigendovi il prâna, consente di ottenere il potere sull’elemento terra, e quindi la possibilità di diventare leggeri e staccarsi da essa. Sopra questo cakra, alla radice degli organi di generazione, c’è lo svâdhisthâna-cakra. I suoi sei petali vermigli sono contraddistinti dalle sillabe da ba a la, sempre accompagnate dalla risonanza nasale, indicata da un puntino al di sopra della sillaba e chiamata anusvâra. L’elemento di questo padma è l’acqua, rappresentato dalla mezzaluna. Sopra di essa, sostenuto dal makara, una sorta di mostro delle acque, vi è il mantra vam. Le divinità del cakra sono Visnu e Râkinî; chi si concentra e medita sullo svâdhisthâna, ottiene salute perfetta e la capacità di apprendere e conoscere ogni scienza. Il manipûra-cakra si trova all’altezza dell’ombelico: ha dieci petali blu segnati dalle sillabe dal da al pha, sempre accompagnate dall’anusvâra. Rudra il Terribile e Lâkinî sono le divinità che lo presiedono. All’interno del loto vi è un triangolo rovesciato, nel quale si trova il mantra ra¡ posato su un ariete, e il suo elemento è il fuoco. La concentrazione su di esso consente di dominare la morte e permette di ottenere lo sconfinato potere di creare e annientare - e in senso letterale e concreto, si badi bene - i mondi. Nella regione cardiaca è collocato il quarto cakra, chiamato anâhata, il cui elemento è l’aria. Ha dodici petali rossi e le sillabe che li designano vanno dal ka al tha, seguite dall’anusvâra. Anche qui la divinità maschile è Rudra, accompagnata da Kâkinî. Il suo simbolo è costituito da due triangoli equilateri sovrapposti e rovesciati, a formare una stella a sei punte, simile a quella di Davide, dal colore grigio. Il mantra, sostenuto da un cervo, è yam: i principali poteri che si ottengono meditando su questo loto sono la capacità di conoscere il passato, il presente e il futuro e la facoltà di muoversi nell’aria e di raggiungere qualsiasi luogo. Presso la gola si trova il visuddha-cakra, composto da sedici petali color antracite, contraddistinti dalle vocali più la am e la ah. Al suo interno vi è un triangolo con un cerchio in esso inscritto, dal colore bianco luminoso. All’interno del cerchio c’è il mantra ham, retto da un elefante; le divinità sono Sadâsiva accompagnato dalla Sakti Sâkinî. è l’etere (âkâsa) l’elemento di questo padma, il più sottile dei cinque, che permea l’intero universo. Il visuddha-cakra offre allo yogin un potere superiore persino a quello degli dèi. Tra le sopracciglia, alla radice del naso, si trova l’âjñâ-cakra: ha solo due petali bianchi, segnati dalle sillabe ham e ksam. Non possiede un segno particolare, né è preposto ad alcun elemento: esso è già oltre, al di là di essi, come pure degli altri cakra; la sua divinità femminile è Hâkinî, dalle sei teste, quella maschile è Siva Mahâkâla, il distruttore, raffigurato in forma aniconica, come linga, che diventa il punto focale del cakra stesso. In questo loto che è l’eccelso tra gli altri, idâ e pingalâ hanno il loro ultimo incrocio, che è anche riunione. La tradizione vuole che in questo particolare luogo idâ e pingalâ siano i fiumi Varunâ e Asî: alla loro confluenza col Gange c’è Vârânasî; così questa sacerrima città, chiamata anche Kâsî, la splendente, è omologata all’âjñâ-cakra, anch’esso un loto di luce, il più sacro, posto là dove si trova il mistico terzo occhio. La susumnâ, però, non termina qui, prosegue: al di là e al di sopra del padma, oltre la sommità del cranio, c’è il sahasrâra-padma, il loto dai mille petali, dove la brahma-nâdî termina. Qui è il trono di Parama-Siva e qui si realizza il kundalinî-yoga, quando la Sakti, dopo aver perforato i sei cakra, si unisce a Siva, così da essere una sola cosa con lui. La potenza trova infine la sua attuazione nell’Assoluto trascendente.
Nel loto dai mille petali c’è la Luna eternamente piena e immacolata. Candra - la Luna appunto - è, nel macrocosmo, il signore del soma, liquido sacro in grado di conferire l’immortalità - conosciuto per questo anche come amrta - e bevanda degli dèi. Fin dai tempi dei sacrifici vedici, la libagione e l’offerta del soma - sulla cui natura esistono a tutt’oggi solo ipotesi - erano il momento chiave del rito e strumento privilegiato per la comunicazione tra l’officiante e la divinità. Nel microcosmo del corpo sottile, da questa purissima Luna, al cui centro occorre visualizzare Parama-Siva, stilla in continuazione il sacro soma: possederlo significa ottenere l’immortalità del corpo, l’abbandono dello stato psicofisico ordinario, lo sgretolamento di ogni residuo karmico, la vita sul piano dell’Essere. La fine del soma è però segnata fin dall’inizio: il flusso è infatti destinato a venire consumato dal fuoco del manipûra-cakra. Malattia, vecchiaia e morte derivano proprio da questo naturale dissolversi dell’amrta. Parte dell’efficacia degli âsana invertiti, del tipo sîrsa-âsana, posizione sul capo, deriva proprio dal fatto che impediscono la caduta del nettare lunare; ma il rimedio principe a questo esiziale stillicidio è la khecarî-mudrâ. La lingua viene retroflessa fino a penetrare nelle fosse nasali dove intercetta il flusso divino, impedendone la caduta e la conseguente distruzione. L’amrta così salvato libera tutta la sua potenza e lo yogin ottiene capacità super-normali, oltre all’immortalità del corpo.
Analoga origine e medesima importanza ha il seme maschile, il bindu (lett. goccia, punto, e in particolare il punto sopra la sillaba che indica l’anusvâra), che è misticamente comparato a Parama-Siva. Anzi, il bindu si potrebbe interpretare come forma allotropica dell’amrta. La dispersione del seme, e di conseguenza la sua distruzione, reca due principali ordini di danni: emettere il seme vuol dire perdere la propria vitalità, in ogni senso: questa azione avvicina la morte; anzi, è la morte. Inoltre all’instabilità del seme corrisponde l’instabilità della mente (manas) e del soffio vitale (prâna). S’è visto come questi due elementi siano strettamente legati: ebbene, a essi c’è da aggiungere il bindu. L’arresto di uno dei tre induce gli altri a una subitanea stabilizzazione; non esiste una particolare predominanza di un elemento sugli altri. Appare sostanzialmente identico operare su una delle tre variabili, se così possiamo definirle. Se si agisce nel modo corretto - e lo scopo dei vari manuali di Yoga è proprio questo, insegnare l’azione corretta - si arresta il complesso psico-fisico dell’individuo e si induce un isolamento totale dal mondo esterno.
Dunque trattenere il seme, stabilizzare il prâna, sopprimere il vorticoso turbinìo del pensiero, sono i tre fondamentali atti per realizzare il fine dello Yoga. La vajrolî-mudrâ è l’atto principale per trattenere il bindu e per farlo rifluire all’interno del corpo dove, sul piano sottile, potrà finalmente avvenire quell’unione negata a livello umano. Poiché, se l’atto esterno provoca perdita e morte, quello interno è causa di riunificazione e realizzazione. Ciascun essere, infatti, racchiude in sé le potenze dell’androgino primevo, visualizzato come Siva Ardhanârîsvara: il Signore metà donna. è intimo patrimonio di tutti sia il bindu sia la rossa essenza procreatrice femminile, il rajas. Il bindu viene dunque fatto risalire lungo la susumnâ fino al visuddha-cakra dove avviene il maithuna con il rajas. Si ripete, con altre modalità, ciò che già s’è visto avvenire per idâ e pingalâ: si ricostituisce l’unità archetipica, si restituisce la totalità all’individuo e si attua la revulsione dal piano samsarico.
Quelli testé esposti sono i capisaldi dello hatha-yoga della scuola nâtha, come si desumono dai principali testi di questa dottrina, tra i quali spicca per completezza la Hatha-yoga-pradîpikâ. Essa ci presenta una koiné di pensieri affini e spesso complementari, che sono stati associati tra loro con abilità. Questa dottrina di salvezza per tutti gli uomini, senza alcun preconcetto per la casta e il sesso, ha come divinità referente Siva, interpretato sia come dio personale, cui rivolgersi per aiuto con preghiere e riti, sia come entità assoluta, inteso allora come Parama-Siva, il Bindu, il Brahman. Tutto da lui promana e tutto è in lui riassorbito. Secondo la visione sâkta, affiancata a quella sivaita, accanto al dio agisce la sua paredra, cioè la Sakti, la Potenza. Proprio quelle parti della dottrina a sfondo psico-sessuale, legate all’unione tra Kundalinî e il Supremo, possono definirsi, con sufficiente approssimazione, legate al culto sâkta. Il movimento nâtha non è solo l’accostamento di questi vari orientamenti di pensiero, ne è bensì una originale summa che mira a liberare l’uomo dal samsâra, a offrirgli vita senza fine, sanità del corpo, ma soprattutto a renderlo uno con Siva. Tutti gli esercizi psicofisici dello hatha-yoga, il percorso mistico-simbolico di Kundalinî e ancora l’esperienza della dissoluzione o riassorbimento (laya) attraverso la percezione del suono increato (anâhata-nâda), hanno quest’unico scopo: quello di far abbandonare, di far scomparire il campo apparente della molteplicità per realizzare il piano dell’Uno, di Siva. Citando liberamente dalla Hatha-yoga-pradîpikâ, è necessario che lo yogin diventi vuoto, al suo interno e al suo esterno, proprio come un vaso nello spazio; nello stesso tempo egli deve diventare pieno dentro di sé e fuori di sé, proprio come avviene per un vaso posto nell’oceano, oppure nello spazio inteso come pienezza. Occorre cioè che l’individuo, il jîva, si svuoti di tutto ciò che è insenziente e mutevole, cioè della prakrti, per ottenere una cosa che - è bene sottolinearlo - non era mai andata perduta, poiché eterna, immutabile, intangibile, giammai macchiata dalla vicinanza con la prakrti stessa: l’Âtman, il Purusa, ovvero finalmente la percezione di esso come pienezza nella totalità del Brahman, di Parama-Siva, non diverso da esso, perché della medesima sostanza. Il cosmo non è altro che una creazione della mente e la pace, nel senso più totale del termine, si può ottenere solo abbandonando questi fantasmi. La percezione dell’Uno sorge spontaneamente dopo aver rinunciato a ogni forma di attività mentale. Oltre non c’è che luce.
S’è accennato all’inizio della presente esposizione come la teoria e la pratica dello Yoga risalgano al più remoto passato dell’India. Teoria e pratica perché lo Yoga è una dottrina di salvezza basata su una scienza sperimentale e verificata, che è stata verosimilmente modificata e ampliata nel corso di molti secoli. Le nuove corrispondenze tra posture e riflessi psicofisici che venivano via via scoperte, andavano ad accrescere il patrimonio culturale dei maestri dello Yoga. La plurisecolare evoluzione di questa disciplina si riflette in un canone «aperto», in una tradizione flessibile, della quale vengono a far parte le più efficaci tra le nuove pratiche sperimentate che, a loro volta, ottengono lustro e ufficiale riconoscimento dall’essere comprese nei testi. È un processo di feedback caratteristico di gran parte delle religioni e delle mitologie e, in modo particolare, di quelle indiane: solo ciò che è in un canone tradizionale è valido, ma ogni formulazione valida viene fatta confluire nella tradizione accettata, dove perde la sua propria storicità per vivere in una realtà al di là del tempo, ormai immodificabile.
I principali testi dello hatha-yoga ci forniscono varie liste di maestri che «da bocca a orecchio» hanno tramandato l’insegnamento. Queste non sono quasi mai coincidenti; tuttavia il fatto è di scarso rilievo poiché esse, storicamente poco probanti, costituiscono il fil rouge della tradizione, svolgono la funzione di un ponte che collega il più recente maestro con il primo Enunciatore, lo stesso Siva. La tradizione dello hatha-yoga - e, in particolare, quella che è stata tràdita dalla Hatha-yoga-pradîpikâ - è definita come dottrina dei nâtha o dei kânphata-yogin. La parola nâtha significa «protettore, signore, maestro», ed è usata come appellativo di coloro che hanno raggiunto i vertici dello hatha-yoga e ne sono divenuti le guide spirituali. In questa dottrina Siva è dunque conosciuto come Âdinâtha, il primo maestro, il Signore primevo.
Fra tutti i maestri delle varie tradizioni, Goraksa-nâtha riveste una particolarissima importanza in questa scuola: i kânphata-yogin guardano a lui come al fondatore della propria setta e all’autore del Goraksa-sataka (la centuria di Goraksa), in cui sono descritti, in 101 versi, i punti salienti della disciplina.
Il suo diretto maestro fu Matsyendra-nâtha, conosciuto anche come Mîna-nâtha. In uno dei miti che illustrano i loro rapporti si narra che, un tempo, Siva descrisse a Pârvatî, sua consorte, lo Yoga, sulla sponda del mare. La dea si addormentò durante l’esposizione, ma le parole del Signore furono ascoltate da Avalokitesvara, la divinità protettrice del Nepâl, che si trovava là in forma di pesce, accanto alla riva. Proprio per questo fatto egli fu conosciuto da allora in poi come Matsyendra (signore dei pesci), depositario della scienza dello Yoga. Dopo questi fatti, Siva si allontanò e incontrò una donna che desiderava ardentemente avere un figlio. Il Dio le donò allora del cibo, promettendole che avrebbe avuto discendenza. La donna, però, non solo non ne mangiò, ma lo gettò in un letamaio. Dopo dodici anni passò per il medesimo luogo Matsyendra-nâtha il quale, dopo aver conosciuto il fatto, chiese alla donna che ne fosse del bambino che avrebbe dovuto avere. Informato dell’accaduto le comandò di andare a scavare là dove aveva gettato il cibo, e proprio in quel posto ella scoprì un ragazzino dodicenne, che fu chiamato Goraksa, da un’accezione del termine ghora, che significa sudiciume. Egli ebbe da allora come maestro Matsyendra e la sua vita divenne tutto un susseguirsi di azioni miracolose. Figlio di un dono di Siva, egli aveva un’eccezionale maestria nello Yoga, ottenuta attraverso terribili penitenze - e con questo aspetto è collegata la seconda valenza del suo nome, dal primario significato di ghora che è appunto «terribile». La potenza sopra-normale di Goraksa-nâtha era superiore perfino a quella di Siva, ed è adombrata in una moltitudine di leggende di cui egli è protagonista. Fu in grado, ad esempio, di trasmutare l’acqua di un pozzo in oro e poi in cristallo. Un giardino inaridito cominciò a fiorire dopo che egli vi sparse delle ceneri sacre. Il suo potere andava però ben oltre, fino a renderlo signore della vita e della morte. Un giorno avvenne che il sovrano Bhartrhari mise alla prova la sua consorte, facendole comunicare la notizia della propria morte, per poter constatare come avrebbe reagito. La regina ne fu a tal punto sconvolta che ascese la pira funebre e vi s’immolò come satî. Nell’apprendere il tragico fatto, che andava ben oltre le sue intenzioni, il re perse la ragione a causa del dolore, ma un giorno venne a conoscenza della potenza di Goraksa. Il potente nâtha si recò presso il re e, messo al corrente della situazione, agì in modo apparentemente bizzarro: infranse la propria ciotola per le elemosine e poi pianse su di essa con la medesima intensità con la quale il re lamentava la perdita della regina. Il sovrano, impietositosi di fronte alla disperazione di Goraksa, gli donò un’altra ciotola e il nâtha, vista la mancanza di egoismo del re e la comprensione per il suo dolore, richiamò in vita la regina.
Se la figura di Goraksa-nâtha è ben delineata nel campo della religione, molte sono le difficoltà per la sua eventuale collocazione storica. Nel mondo indiano storia e mito sono strettamente intrecciati. Spesso non esiste una netta separazione tra essi. Attorno a un fatto o a un personaggio storico si coagulano miti che lo respingono in uno spazio atemporale. Per quanto riguarda Goraksa-nâtha, possiamo solo dire che probabilmente egli visse attorno all’inizio del secolo XI.
Così come è legato a un intreccio mitico-storico, Goraksa è ovviamente anche associato alla realtà geografica. Templi a lui dedicati si trovano in molte città sacre indiane, e il suo culto è ampiamente diffuso, soprattutto nell’India settentrionale. I principali luoghi a lui sacri sono tre: a Gorkha, nel Nepâl occidentale, si trova un tempio a lui consacrato, all’interno di una caverna, in cui è un’immagine del dio. Un altro tra i maggiori centri di culto è la città di Gorakhpur, appunto «la città di Goraksa», nell’Uttar Pradesh, circa 200 km a nord-est di Benares. Si dice che Goraksa giunse in questa città dal Pañjâb, nel Tretâ-yuga. Secondo alcuni proprio qui si troverebbe la sua tomba, ma altre tradizioni affermano che egli, al sommo della conoscenza dello hatha-yoga, abbia raggiunto l’immortalità e viva insieme agli altri nâtha sul sacro monte Kailâsa. Il luogo più importante tra tutti è però Gorakh Ïilla, nel Pañjâb pakistano, a un’altitudine di circa 1000 metri, dove Goraksa si sarebbe dedicato a pratiche ascetiche, sempre nell’era Tretâ.
In conclusione, si potrebbe prospettare uno scenario che vede intorno ai secc. XI-XII, nelle regioni nord-occidentali dell’India, un aggregarsi di elementi sivaiti, sâkta e hatha-yoghici per opera di vari maestri legati alla tradizione dei nâtha, tra i quali Goraksa-nâtha fu il personaggio più rappresentativo, uno dei padri dell’ordine dei kânphata-yogin, cioè degli yogin dalle orecchie forate. è infatti costume, come iniziazione e segno di appartenenza al gruppo, aperto a uomini e donne, senza alcuna distinzione di casta, fendere con un coltello il padiglione auricolare dell’iniziando. Una volta cicatrizzata la piaga, nella fenditura viene inserito un grande orecchino, di solito fatto di corno di rinoceronte.
La Hatha-yoga-pradîpikâ vuole essere veramente una «lampada» che illumina la disciplina dello hatha yoga, cioè un chiaro commento che consenta di accedere allo Yoga e di comprenderne quindi le tecniche e gli scopi principali. Eppure proprio nel verso d’apertura si afferma che lo hatha-yoga è la scala per coloro che vogliono ascendere ai vertici del râja-yoga; poi, in modo ancor più esplicito si dichiara che lo hatha- e il laya-yoga non sono che mezzi per ottenere il râja-yoga (cfr. H.Y.P., IV, 103); in un altro passo, però, si aggiunge anche che non si può ottenere il râja- senza lo hatha-yoga, né lo hatha- senza il râja-yoga (cfr. H.Y.P., II, 76). Non esiste dunque alcuna soluzione di continuità tra le due discipline: ciascuna trova bensì il proprio naturale compimento nell’altra. Resta tuttavia palese una visione gerarchica che vede come ultimo approdo della coscienza proprio il râja-yoga: esso occupa infatti il primo posto nell’elenco dei vari termini sinonimici che, secondo Svâtmârâma, indicano lo stato in cui la coscienza ordinaria è superata e si è raggiunto il livello della pura contemplazione del Sé, in una condizione di totale unificazione (si veda in H.Y.P., IV, 3-4 e 5-7 la chiara descrizione dello stato di samâdhi).
In realtà il râja-yoga o «Yoga regale» è anch’esso, prima di tutto, una precisa tecnica sperimentale orientata all’acquisizione permanente di uno stato di coscienza «allargata», in cui il Sé individuale (jîvâtman) e il Sé universale (paramâtman) vengono percepiti come identici e come l’unica realtà su cui si basa il creato.
Lo Yoga regale, nella sua forma classica, così come noi la conosciamo, costituisce uno dei sei darsana (lett. l’atto del vedere, del percepire, e quindi «punto di vista, ottica, dottrina») cioè una delle sei «visioni» della realtà attorno alle quali si organizza il pensiero indù: Pûrva-Mîmâmsâ e Uttara-Mîmâmsâ o Vedânta, Nyâya e Vaisesika, Sâmkhya e Yoga. L’ordinatore di quest’ultima dottrina fu Patañjali (vissuto probabilmente tra il IV e V secolo d.C.), che sintetizzò mirabilmente nei 194 enunciati dei suoi Yoga-sûtra (Gli aforismi sullo Yoga) la disciplina dello Yoga regale, il quale viene anche chiamato col nome dell’autore cioè Pâtañjala-yoga, o ancora Yoga-darsana tout court. S’è visto nella precedente enumerazione che i vari darsana sono stati enunciati a coppie: in particolare, per quanto riguarda Sâmkhya e Yoga, uno stretto legame li unisce: l’azione di quest’ultimo si esplica infatti nella realtà metafisica illustrata dal Sâmkhya. è questa la visione del mondo che lo yogin conosce e seguendo la quale egli percepisce, agisce e vive. Questa dottrina, il cui nome letteralmente significa «discriminazione, enumerazione», considera l’universo come costituito da due reali, cioè enti dall’effettiva esistenza (tattva): il purusa e la prakrti. Essi coesistono, uno accanto all’altra, destinati però a non miscelarsi mai, simili a olio e acqua. Mai ciò che è costituito da prakrti potrà in alcun modo affliggere il purusa, né quest’ultimo potrà avere un qualsiasi ruolo nelle vicende della prakrti. Il purusa - il suo primo significato è quello di «uomo», in tutte le sue accezioni; indica poi il principio vitale dell’uomo, la sua «anima», e il principio universale, l’«anima» cosmica - è lo spirito, il Sé passivo, che è ovunque; non agisce, ma è testimone di ogni cosa; è stabile, eterno, immutabile, sempre uguale a se stesso. è una monade in sé chiusa che non comunica né con gli altri purusa, né con la prakrti; di qui nasce l’oggettiva difficoltà di rintracciare, ritrovare in noi stessi questo spirito, reale eppure sfuggente, che non è percepibile - e non potrebbe essere altrimenti - dai normali mezzi di ricerca di cui dispone l’individuo, e che sono costituiti da prakrti. è presente in ciascun essere vivente (jîva), che è inteso come unione transeunte di esso con la prakrti: commistione ben strana questa, che non è in realtà - data l’intangibilità del Sé da parte della natura - ma è raffigurata erroneamente per colpa dell’incapacità intellettiva della buddhi, un po’ come avviene quando si attribuisce al Sole quel moto che è solo della Terra.
Al contrario del purusa, la prakrti non possiede autocoscienza: è, e basta. Ed esistendo, costituisce tutto quello che ci circonda, e anche noi stessi. Dalla materia che forma le stelle e i pianeti, a quella che forma il corpo di ogni creatura, fino alla sottilissima essenza che costituisce la psiche di ciascun individuo e lo stesso pensiero, tutto è prakrti. Il sostantivo deriva dalla radice kr il cui significato primario è «creare, fare» e dal prefisso pra, che esprime il concetto di anteriorità. Quindi prakrti è ciò che è stato creato prima, la sostanza primaria, la causa originaria ed efficiente; solitamente è resa con «natura», o natura naturans, in quanto complesso di tutto ciò che esiste. L’estrema articolata varietà dell’universo è dunque riconducibile a un unico Principio, dal quale derivano, per successive modificazioni, gli altri 23 tattva del Sâmkhya.
La natura è in sé un organismo complesso, formata dall’indissolubile unione di tre guna (lett. uno dei singoli fili che concorrono alla formazione della corda), ovvero «qualità» intrinseche, costituenti primari, ciascuno individuato da caratteristiche ben precise. Essi non possono essere percepiti direttamente, ma la loro presenza si deduce dagli effetti che producono. Così il sattva, il primo tra essi, produce serenità, offre uno stato di compiutezza; il suo colore è chiaro e luminoso, la sua caratteristica è la leggerezza. Segue il rajas, dal colore rosso, consistente, «concreto»; è alla base di ogni attività, dell’agitazione, del fervore, e anche della tristezza, dell’insoddisfazione, dei vari moti contrastanti dell’animo connessi col fare. Infine c’è il tamas, scuro di colore e completamente inattivo; produce inerzia e ottusità; sospinge nel vuoto dell’ignoranza. Finché vi è equilibrio tra i costituenti, la natura è per così dire congelata e dinamicamente stabile. Un primo evento ruppe l’equilibrio tra i guna e diede l’avvio alla sua evoluzione. Il mahat, ovvero il «magno», fu il primo e più sottile prodotto a differenziarsi. Questa entità, considerata in senso cosmico, è la vera e propria causa efficiente dell’intera creazione; prende invece il nome di buddhi quando è intesa in senso microcosmico, cioè come la base dell’insieme psico-mentale di ciascun individuo. è il tattva più vicino al purusa, particolarmente quando c’è una predominanza di sattva in essa. La loro vicinanza è quella che crea l’illusione di una buddhi senziente: in realtà, il purusa si specchia nella buddhi pervasa di sattva e si identifica così con essa, al punto da credersi tale, con tutte le latenze psichiche provenienti dalle vite anteriori che essa porta con sé, la sua individualità, le sue inclinazioni e via dicendo. Il legame con il ciclo samsarico è proprio creato da questo errore, da questo tremendo equivoco metafisico: il purusa rispecchiato nella buddhi si crede agente, mentre quest’ultima sembra a sua volta dotata della qualità propria del purusa stesso, cioè della coscienza. Secondo il Sâmkhya, solo la conoscenza è in grado di rimuovere questo errore esiziale e non appena si riconosce l’incontaminata realtà del purusa, avviene il conseguimento della liberazione.
Dalla buddhi deriva il tattva successivo, l’ahamkâra, cioè il senso dell’io, l’egotismo, ovvero il principio dell’individuazione, che permette di cogliere la propria identità. Insieme alla buddhi e al manas esso costituisce la base tripartita dell’ego. Dall’ahamkâra, quando in esso predomina la «qualità» sattva deriva appunto il manas, mentre quando prevale il rajas si originano i cinque organi di percezione e i cinque organi di azione. Il manas, che si può liberamente rendere con il termine «mente», è una sorta di super-senso, in quanto coordina l’attività dei dieci organi sopra citati: ne è, in qualche modo, il vigile ordinatore ed elabora tutte le informazioni che da essi provengono. Più precisamente, i cinque organi di percezione sono la vista, l’udito, l’odorato, il gusto e il tatto, mentre i cinque organi di azione sono la lingua, i piedi, le mani, gli organi preposti all’evacuazione e alla riproduzione. Dall’ahamkâra con predominanza di tamas provengono invece i cinque elementi sottili (tanmâtra): suono, tocco, odore, colore e sapore, e da questi ultimi derivano infine i cinque elementi «grossi», cioè l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra. Questa attenta e minuziosa analisi della struttura delle cose è il sentiero stesso della liberazione dalle loro catene. Si perviene infatti alla consapevolezza che non esiste possibile contaminazione tra il purusa e la prakrti nei suoi stati allotropici. Il Sé è per sua natura eternamente puro. Solo la mancanza di discriminazione (aviveka) fa sì che l’uomo confonda la buddhi col Sé cosciente. L’intima riscoperta della non esistenza dell’io - nâsmi, io non sono - consente la mukti (liberazione). Il testo principe del Sâmkhya s’intitola Sâmkhyakârikâ (Strofe del Sâmkhya) e fu composto dal dotto Isvarakrsna nel IV-V secolo dell’era cristiana; così esso condensa in un’icastica immagine tutta la tensione soteriologica di questo darsana: la natura cessa ogni sua attività dopo che si manifesta al purusa, proprio come una ballerina che, dopo aver terminato la sua esibizione di fronte al pubblico, si ritira e scompare. Riconoscere dunque l’unicità della natura, al di là della varietà delle sue forme, comprenderne l’alterità dal purusa: questa è la via della conoscenza (jñâna-mârga) che affranca dal samsâra.
Facendo propria questa «visione» del mondo, lo Yoga-darsána afferma tuttavia che la sola conoscenza della Realtà non è condizione sufficiente per superare il piano samsarico e attingere quello dell’Essere. Patañjali, come già si è accennato, riassume, organizza, espone tecniche di meditazione già note e diffuse, e sviluppa un sistema organico volto a sopprimere l’attività mentale (cittavrttinirodhah, Yoga-sûtra, I, 2): su questo «silenzio» della mente, sulla mancanza di ogni interferenza e stimolo esterno, può finalmente sorgere la coscienza del Sé.
La principale differenza tra il Sâmkhya discriminativo e lo Yoga sperimentalista sta nel fatto che quest’ultimo postula l’esistenza di Dio (Isvara) che è assente nella formulazione classica del Sâmkhya. Isvara, a differenza di tutti gli altri sé, non è mai stato unito alla prakrti; non ha mai concorso a formare un jîva, cioè un essere vivente costituito da un Sé trascendente unito alla natura e ai suoi stati allotropici; dall’inizio dei tempi la sua traccia non s’è mai sovrapposta a quella della prakrti. Proprio per questo lo Yoga è anche chiamato sesvara-Sâmkhya, cioè Sâmkhya teista, in contrapposizione al nirîsvara-Sâmkhya, cioè il Sâmkhya vero e proprio, non teista. L’introduzione del concetto di un tale sommo purusa, giammai rispecchiato in una buddhi, è direttamente connessa con il carattere sperimentale dello Yoga. Non si poteva infatti prescindere dalle esperienze yoghiche degli asceti che, grazie alla meditazione sulla divinità, erano pervenuti a quello stato di coscienza «unificata» che è il samâdhi. La contemplazione fissa (ekâgratâ) su Isvara era un fatto reale che consentiva di raggiungere un preciso obbiettivo: come tale doveva quindi essere studiato e inserito nella dottrina. Grazie all’Isvara-pranidhâna, cioè la meditazione sul Signore, la devozione completa verso di Lui, si ottiene il favore del Dio e un suo fattivo intervento di soccorso e aiuto che consente l’innalzamento del Sé del devoto verso il Sé universale, che Isvara rappresenta: la concentrazione sulla divinità è la più alta fra tutte quelle possibili.
Prima però di poter raggiungere la sfera del pensiero profondo, lo yogin deve acquisire nel modo più completo la disciplina del râja-yoga, che si esplica in un cammino costituito da otto tappe.
La base di questo percorso è costituita dagli yama (restrizioni, astensioni) e dai niyama (obblighi). I primi sono la non violenza, o meglio la totale assenza del desiderio di perpetrare alcun male (ahimsâ), la sincerità (satya), la continenza (brahmacarya), il non rubare (asteya) e la non avidità, la mancanza di desiderio di possesso (aparigraha); i secondi sono formati dalla pulizia, intesa sia come fatto esterno sia come purezza interiore (sauca), contentamento (di ciò che si ha) (santosa), ascesi (tapas), studi sacri (svâdhyâya) e infine l’adorazione del Signore (Isvara-pranidhâna). Tra gli yama, il più importante è anche il primo citato, e cioè la non violenza; anzi, da essa si può dire che derivino tutte le altre astensioni: la verità, l’onestà, il disinteresse non sono altro che dirette conseguenze di una condotta retta, volta a non produrre nocumento alcuno. Naturalmente, questo atteggiamento, volto a portare concordia e pace, produce una benefica «ricaduta» sul Sé; esso genera infatti - come del resto anche gli altri yama e niyama - un potere, una perfezione, che è segno - fra l’altro - del perfetto compimento della pratica stessa. Così, per esempio, queste sono le perfezioni che procedono dagli yama: la mancanza di volontà di nuocere genera tutt’intorno compassione, amicizia, comprensione, e qualsiasi essere giunga nella sfera d’influenza di colui che pratica l’ahimsâ abbandona ogni animosità; qualsiasi cosa dica lo yogin che pratica il satya, questa diventa vera; se il praticante domina perfettamente il brahmacarya, diventa capace di trasmettere la sua conoscenza ai discepoli; se padroneggia il non rubare, allora ottiene spontaneamente qualsiasi ricchezza; infine, quando raggiunge l’assenza totale della pulsione di possedere, sorge in lui il desiderio di conoscere il Sé.
I niyama indicano invece azioni da compiere per avanzare sulla strada dello Yoga. In particolare l’Isvara-pranidhâna, di cui s’è detto, spicca per importanza, e con esso lo svâdhyâya, che comprende anche la ripetizione dei mantra, tra i quali il pranava, cioè la sillaba o¡, dall’ineguagliabile valore mistico, sufficiente di per sé a provocare il risveglio di Kundalinî-Sakti. Sostanzialmente i niyama costituiscono un metodo ascetico che prepara - anzi già inizia ad attuare - la riduzione e quindi l’estinzione delle attività del citta, termine che riassume in sé le valenze della buddhi, dell’ahamkâra e del manas. Anche gli âsana, terzo membro del Pâtañjala-yoga, hanno nello Yoga regale questo scopo precipuo: debbono offrire una posizione stabile, salda e confortevole, atta a favorire gli esercizi del controllo del prâna e la concentrazione volta a immobilizzare il pensiero. Tuttavia nessun âsana specifico viene menzionato: Vyâsa, il commentatore degli Yoga-sûtra, ne cita invece dodici, molto probabilmente riprendendoli dalla tradizione dello hatha-yoga. Al primo posto nell’elenco è la posizione del loto, l’âsana principe per la meditazione, in quanto possiede in sé un potere isolante dagli stimoli esterni, ottimo anche per praticare il prânâyâma. La disciplina del soffio vitale è anch’essa fatta oggetto di una brevissima trattazione negli Yoga-sûtra (II, 49-53), a differenza di quanto avviene nella Hatha-yoga-pradîpikâ, dove il prânâyâma è accuratamente e a lungo analizzato. Esso consiste in una attenta regolazione dell’inspirazione e dell’espirazione, ma soprattutto della ritenzione del soffio all’interno del corpo. è questo il punto focale del prânâyâma: grazie al kumbhaka (ritenzione del respiro), avviene la distruzione del velo karmico che impedisce la comprensione della Realtà ultima e che è principalmente costituito dalle latenze subconsce presenti nel citta, causate dalle azioni compiute nelle precedenti esistenze. Nella descrizione di Patañjali quattro sono i modi di questa disciplina. Il primo, chiamato «esterno», si ha quando il respiro si sospende dopo l’espirazione. Il secondo, «l’interno», avviene quando si attua il kumbhaka dopo un’inspirazione. Il terzo, detto «stabile» o «raffrenato», è causato da una contemporanea cessazione dell’inspirazione e dell’espirazione. A questo proposito è suggerito il paragone con l’acqua, che si contrae istantaneamente da tutti i lati, fino a scomparire, quando viene gettata su una piastra rovente. Le prime due forme di prânâyâma corrispondono approssimativamente al sahita-kumbhaka (rattenimento del prâna accompagnato da inspirazione o da espirazione) dello hatha-yoga, mentre la terza può già venire considerata come kevala-kumbhaka, cioè ritenzione assoluta, ovvero sciolta, non correlata all’inspirare e all’espirare. Il quarto modo della disciplina del respiro è anch’esso un kevala-kumbhaka, anzi, è il kevala-kumbhaka nella sua più alta espressione, che trascende gli altri tre stadi e al quale si ha accesso solo dopo aver ottenuto una totale padronanza di questi ultimi.
Il pratyâhâra è il quinto anga del râja-yoga e l’ultimo degli ausili «esterni» per raggiungerne il fine. Consiste nel ritiro (e questo è il significato letterale del termine) dei sensi dagli oggetti che ne provocano la stimolazione. Finché i sensi sono attivi, anche la mente è costretta all’attività: da essi riceve continui messaggi che la distraggono e la mantengono operosa. è necessario quindi interrompere il ciclo costituito dallo stimolo sensoriale e dalla conseguente attività mentale. Questo blocco avviene proprio grazie all’isolamento dei sensi, al quale corrisponde l’isolamento della mente. Si giunge al punto che i sensi non registrano più la presenza degli oggetti circostanti, non li percepiscono, e il citta può rivolgersi, non più distratto, alla contemplazione. Col pratyâhâra lo yogin ha raggiunto il massimo per quanto riguarda ciò che è ottenibile con ausili che non coinvolgono direttamente il citta: egli è puro, interiormente ed esteriormente, stabilmente assiso, col respiro perfettamente controllato e ormai isolato dal mondo. Rimane ormai da pilotare il sistema mentale verso la sua propria estinzione. Mirati a questo fine sono i tre ultimi anga: dhâranâ, dhyâna e samâdhi, raggruppati sotto il nome comune di samyama, concentrazione della mente.
La dhâranâ (attenzione fissa) consiste nel concentrare e fermare il pensiero su un oggetto-bersaglio, così che l’oggetto prescelto per la meditazione rimanga nitido e a fuoco, mentre ogni altra cosa tutt’intorno scompare. Il passaggio successivo è costituito dal dhyâna, che può essere definito approssimativamente come meditazione profonda. In questa situazione, pur nell’obliterazione di ogni altro pensiero, continua a esistere la lucida percezione dell’oggetto sul quale si medita. Nella concentrazione rivolta su di esso continua a essere mantenuta la distinzione tra il soggetto pensante e l’oggetto stesso: permane dunque il senso dell’identità e di conseguenza anche la percezione dell’alterità di ciò che si medita dal Sé. Sopra tutti gli altri sette membri si trova lo stato che è il fine stesso dello Yoga: il samâdhi, il cui significato, «porre insieme, unire», indica precisamente quello che avviene durante questa particolare esperienza. è necessario premettere che anche il samâdhi, come praticamente ogni altra tecnica dello Yoga, è a sua volta suddiviso in vari gradi. Qui ricorderemo solo la sua principale bipartizione in samprajñâta (conscio) e asamprajñâta (non conscio, nel senso che è al di là del livello di conoscenza ordinaria). Il samprajñâta-samâdhi forma per dir così un ponte tra il dhyâna e la più alta forma di samâdhi: il citta è infatti attivo in questo stato di unificazione; il pensiero e l’oggetto meditato sono già unificati, ma rimane tuttavia un senso dell’io, e continua ad aversi la percezione degli opposti, ad esempio del caldo e del freddo, di ciò che è bene e di ciò che è male. Nell’asamprajñâta-samâdhi la cognizione dell’io, la percezione della stessa meditazione in atto e di ciò su cui essa è indirizzata vengono a cadere. Si raggiunge uno stato di unità totale: pensante, pensiero e pensato diventano una cosa sola. Il rivolgere il samyama, così completato, su particolari oggetti consente poi di ottenere poteri sopranormali, o siddhi. Così, concentrandosi sui corpi celesti si può pervenire alla conoscenza del cosmo intero; la meditazione su certe parti del corpo permette di ottenere capacità particolari: concentrandosi, per esempio, sulla regione della gola, si eliminano fame e sete. Il samyama rivolto sulla forza degli animali o degli elementi consente di impadronirsi di tale potenza: così si può ottenere il vigore dell’elefante o l’energia del vento. Tutto quello che può sembrare magìa è in realtà conquistato grazie a questa particolare concentrazione della mente.
L’ultimo fine è però ben lungi dal consistere nella supremazia sulle cose e sulle persone; al contrario, questi poteri possono tentare lo yogin e ricondurlo a desiderare il successo mondano e quindi a reinserirsi nel ciclo del samsâra. Anche questo è dunque un ultimo ostacolo da superare, uno tra i più difficili. Dopo averlo vinto, infine, non rimane più nulla. Grazie al perfetto compimento del samâdhi ogni residuo karmico è estinto; ogni attività mentale (cittavrtti) è interrotta, definitivamente abbandonata, e cessa la confusione tra buddhi e purusa, tra insenziente e senziente. Lo yogin raggiunge il totale isolamento dalla prakrti: si riconosce nel purusa che egli è, libero e puro, simile a Isvara.
La Hatha-yoga-pradîpikâ, ovvero la «Lucerna dello hatha-yoga», è uno tra i testi fondamentali che trattano questa disciplina.
La meticolosa descrizione dei principali âsana, degli otto tipi di prânâyâma, dei tre bandha fondamentali e delle varie mudrâ è finalizzata al conseguimento dello stato di samâdhi, nel quale lo yogin è finalmente libero dai cinque modi dell’esistere, e cioè dalla veglia, dal sogno, dal sonno profondo, dallo svenimento e dalla morte: la sua mente è ormai esente da ogni pensiero, sensazione, turbamento, giunta com’è alla contemplazione del Vero, del Brahman, di Parama-Siva, ed egli è immobile, stabile, con il prâna bloccato nel brahmarandhra, alla sommità del capo. è un jîvanmukta, un essere che, pur essendo ancora in vita, ha raggiunto e ottenuto la liberazione finale ed è al di là del samsâra e delle catene del karman.
Sebbene l’opera sia a ragione famosa e molto conosciuta, le notizie su di essa e sul suo autore Svâtmârâma (Colui che trova diletto nel Sé) sono estremamente scarse. Sappiamo solo che Svâtmârâma si chiamava in realtà Cintâmani, figlio di Sahajânanda e allievo di Srînâtha, e che si fregiò del titolo di Yogîndra, cioè di signore, maestro tra gli yogin.
Complesso è anche il problema relativo alla datazione dell’opera: sappiamo soltanto che essa è posteriore al Goraksa-sataka e che il più antico manoscritto che ci sia pervenuto (National Library di Calcutta, n° T H 321) è datato Samvat 1686, cioè 1629 d.C. L’ipotesi più attendibile sulla sua composizione la colloca intorno al sec. XV.
Cintâmani si ispira, per la sua opera, a due importanti testi: uno, purtroppo non giunto fino a noi, è lo Hatha-yoga, l’altro è il Goraksa-sataka (La centuria di Goraksa), entrambi composti dal celeberrimo Goraksanâtha.
Per la conoscenza dello hatha-yoga sono infine degni di menzione altri due testi, di scuola nâtha, posteriori alla Hatha-yoga-pradîpikâ, che si rifanno sia a essa, sia allo Hatha-yoga e al Goraksa-sataka, e cioè la Gheranda-samhitâ, in sette lezioni per un totale di 351 versi e la Siva-samhitâ, suddivisa in cinque capitoli per un totale di 540 versi.
Le principali edizioni e traduzioni della Hatha-yoga-pradîpikâ sono le seguenti:
Svâtmârâma’s Hathayoga pradîpikâ (die Leuchte des Hathayoga) aus dem Sanskrit übersetzt und als Inaugural-dissertation […] der Universität München vorgelegt von Hermann Walter, München, 1893.
The Hathayogapradîpikâ of Svâtmârâma, with the commentary Jyotsnâ of Brahmânanda, and the English translation of Srînivâs Jayangâr, Bombay, 1893 (quest’opera fu successivamente emendata e ristampata in «Oriental Series» n° 15, Theosophical Publishing House, Adyar, 1933; fu poi ancora riveduta da A.A. Ramanathan e S. V. Subrahmanya Sastri e ristampata dalla medesima casa editrice, in Adyar, nel 1972).
The Hatha Yoga Pradipika, Translated into English by Pancha Sinh, Panini Office, Allahabad, 1915 (ristampato da Oriental Books Reprint Corporation, New Delhi, 19803).
The Hathapradîpikâ of Svâtmârâma, ed. by Swami Digambarji and Raghunathashastri Kokaje, Lonavla, 1970 (traduzione italiana: Svâtmârâma, Hathapradîpikâ. La Chiara Lanterna dello Hatha Yoga, Torino, 1978).
Svâtmârâma, Das klassiche Yoga-Lehrbuch Indiens, Hatha-Yoga Pradîpikâ, aus dem Sanskrit mit Kommentaren und 12 Zeichnungen von Hans Ulrich Rieker, Zürich, 1957 (traduzione inglese: The Yoga of Light, the classic esoteric handbook of kundalini yoga, Clearlake, California, 19835).
Hathâ-yoga-pradîpikâ. Un traité sanskrit de Hatha-yoga. Traduction, introduction et notes, avec extraits du commentaire de Brahmânanda par Tara Michaël. Préface de Jean Filliozat, Paris, 1974. (Questo testo si segnala tra tutti gli altri per l’accuratezza e l’approfondimento dell’ampio commento e delle note e per la precisione e correttezza della traduzione).
Maurizio Morelli, Yoga come scienza totale, prima versione integrale commentata dell’Hathayogapradîpikâ di Swâtmârâma Svâmin, Milano, 1979. (L’opera si rifà al testo pubblicato dalla Adyar Library and Research Center, Adyar, Madras: non viene precisata la data).
La presente traduzione è stata condotta sul testo sanscrito edito ad Adyar nel 1972.
1. Allora lo yogin che ha domato le proprie passioni e osserva una dieta salutare e moderata, dopo che l’âsana è stabilmente acquisito, deve praticare il prânâyâma, seguendo gli insegnamenti del maestro.
2. Quando il respiro è instabile, la mente è instabile; quando il respiro è stabile, la mente è stabile e lo yogin raggiunge la stasi: perciò è necessario controllare il respiro.
3. Si dice che c’è vita fintanto che nel corpo c’è il soffio vitale; la morte è la sua fuoriuscita: perciò bisogna bloccare il soffio vitale.
4. Allorché le nâdî sono ostruite dalle impurità, il prâna non può percorrere la via mediana: come può allora attuarsi lo stato di unmanî? Come può essere raggiunta la realizzazione dello scopo?
5. Quando l’intero complesso delle nâdî ostruito dalle impurità diventa puro, allora lo yogin diventa abile nel controllo del soffio vitale.
6. Perciò egli deve costantemente compiere il prânâyâma con la mente permeata di sattva, finché le impurità che si trovano nella nâdî susumnâ sono mondate.
7. Lo yogin assiso in padmâsana deve inspirare il prâna con la narice sinistra ed espirarlo con la narice destra, dopo averlo trattenuto quanto più a lungo possibile.
8. Poi egli inspiri lentamente il prâna nell’interno dell’addome attraverso il Sole; dopo aver effettuato il kumbhaka secondo la regola esposta precedentemente, deve espirare attraverso la Luna.
è chiara l’allusione a idâ, la nâdî lunare, che sbocca nella narice sinistra, e a pingalâ, la nâdî solare, che termina nella narice destra.
9. Si deve inspirare con la narice dalla quale si è espirato, poi trattenere il prâna in massimo grado e quindi espirare dall’altra narice dolcemente, senza impeto.
10. Se si inspira il prâna attraverso idâ, dopo averlo ritenuto deve essere espirato con l’altra nâdî; dopo aver inspirato con pingalâ, e aver quindi trattenuto il soffio, lo si espiri attraverso la nâdî sinistra: l’insieme delle nâdî di coloro che hanno il dominio su se stessi e che pratichino continuamente nel modo prescritto l’esercizio del respirare alternativamente attraverso idâ e pingalâ, in tre mesi è purificato.
11. Bisogna praticare i kumbhaka quattro volte al giorno: all’alba, a mezzogiorno, alla sera e a mezzanotte, gradualmente, fino al numero di ottanta per ciascuna volta.
12. Nello stadio iniziale si genera traspirazione, in quello medio si instaura un tremore, nell’ultimo si ottiene il Luogo (il brahmarandhra): per questo motivo si controlli il prâna.
I vari sintomi che appaiono durante l’esecuzione della ritenzione del respiro consentono allo yogin di verificare la corretta progressione dell’esercizio. Il primo stadio, quello inferiore, dura 12 mâtrâ, quello medio 24 e quello superiore 36. Al termine di quest’ultimo si raggiunge quel luogo eccelso che è costituito dal brahmarandhra, l’apertura alla sommità del cranio che approssimativamente dovrebbe corrispondere alla «fontanella» del cranio dei neonati: qui il prâna raggiunge la totale stabilità.
La particolare unità di tempo detta mâtrâ è variamente calcolata: essa può corrispondere al tempo che si impiega a battere tre volte le mani, oppure a fare un giro con la mano intorno al ginocchio, schioccando tre volte le dita, o ancora equivale al tempo che un uomo profondamente addormentato impiega per compiere un atto respiratorio.
13. Si frizioni il corpo con la traspirazione originata dallo sforzo: grazie a questo il corpo acquista stabilità e leggerezza.
14. All’inizio della pratica è indicato un cibo ricco di latte e burro chiarificato; quando poi la pratica è ben acquisita, questa prescrizione non è più da osservare.
15. Come un leone, un elefante, una tigre, si addomesticano a poco a poco, così anche il prâna deve essere controllato per gradi, altrimenti distrugge chi lo pratica.
16. Tutte le malattie scompaiono grazie al prânâyâma correttamente eseguito; ogni tipo di malattia ha origine dalla pratica scorretta.
17. Singhiozzo, asma, tosse, dolore di testa, d’orecchie, d’occhi e varie malattie derivano dal disturbo del prâna.
18. Si deve espirare il prâna in modo corretto, in modo corretto lo si deve inspirare e in modo corretto lo si deve trattenere: così si ottiene la perfetta realizzazione.
19. Quando le nâdî sono purificate, allora appaiono segni esteriori: senza dubbio si generano snellezza e bellezza del corpo.
20. In seguito alla purificazione delle nâdî nasce la capacità di ritenere il respiro a volontà, si ravviva il fuoco gastrico, si manifesta il suono interiore, è prodotta la salute.
21. Chi abbia un eccesso di grasso o di flemma deve prima praticare i sei atti; gli altri non li compiano poiché già possiedono l’equilibrio dei tre elementi.
I sei atti (satkarmâni), cioè le sei azioni purificatrici, debbono essere compiuti prima di eseguire il prânâyâma. Per quanto riguarda i tre dhâtu (umori, componenti del corpo), si veda il cap. I, v. 31.
22. Questi sei atti si chiamano: dhauti, vasti, neti, trâtaka, nauli e kapâlabhâti.
23. Questi sei atti che sono il mezzo di purificazione del corpo debbono essere tenuti segreti; essi, dotati di qualità straordinarie, sono venerati dai migliori tra gli yogin.
La dhauti (pulizia interna):
24. Si deve inghiottire lentamente, secondo la regola insegnata dal maestro, una striscia di stoffa umida lunga 15 hasta e larga quattro dita; poi la si estragga. Questa azione è chiamata dhauti.
25. Per l’efficacia del dhauti-karman scompaiono tosse, asma, disturbi della milza, lebbra e 20 tipi di malattie originate dalla flemma, non c’è dubbio.
Il vasti (enteroclisma):
26. Dopo aver assunto l’utkatâsana, stando nell’acqua fino all’ombelico, si inserisca una cannula nell’ano; si contragga poi il retto e si esegua il lavaggio: questo è il vasti-karman.
L’utkatâsana consiste nel porsi accucciati, in equilibrio sulle dita dei piedi, mentre i talloni sono a contatto delle cosce. Grazie ad appropriate contrazioni dell’intestino retto, l’acqua è fatta penetrare all’interno del corpo, facilitata in questo dall’apposita cannula. Sempre per mezzo dei movimenti intestinali volontari, avviene un vero e proprio lavaggio dell’organo, terminato il quale l’acqua viene espulsa.
27. Grazie alla potenza del vasti-karman scompaiono tutte le malattie prodotte da vâta, pitta e kapha, l’ingrossamento della milza, le dilatazioni ghiandolari dell’addome e l’idropisia.
28. Il vasti praticato nell’acqua, effettuato assiduamente, migliora i costituenti del corpo, i sensi e la mente, ravviva il fuoco gastrico, dona bellezza e distrugge la crescita di tutte le affezioni morbose.
La locuzione «costituenti del corpo (dhâtu)» allude qui ai sette elementi base che concorrono alla sua formazione, e cioè il chilo (rasa), il sangue (rakta), la carne (mâmsa), il grasso (medas), l’osso (asthi), il midollo (majjâ) e lo sperma (sukra).
La neti:
29. Si introduca un cordoncino lungo un vitasti e ben lubrificato in una narice e lo si faccia uscire dalla bocca: questa è chiamata neti dai siddha.
30. La neti purifica il capo, offre vista divina ed elimina rapidamente la quantità di malattie che si manifestano dalle spalle in su.
La vista, o visione divina (divyadrsti) è un potere soprannaturale che consente di vedere le cose «sottili», che sono al di là del piano ordinario e che sfuggono alla normale percezione.
Il trâtaka:
31. Si fissi con occhi immobili e spirito ben concentrato un piccolo oggetto finché non fluiscono le lacrime: questo è chiamato trâtaka dai maestri.
32. Il trâtaka è la liberazione dalle malattie oculari e la porta sbarrata per l’indolenza e via dicendo: perciò deve essere mantenuto segreto con ogni sforzo, come un forziere d’oro.
La nauli:
33. Con le spalle chinate, si agiti a destra e a sinistra il ventre, con la veemenza di un rapido gorgo: ciò è chiamato nauli dai siddha.
34. Questa nauli, coronamento delle pratiche dello hatha-yoga, alimenta il fuoco gastrico affievolito, aumenta il potere digestivo, dona continuamente gioia e distrugge tutti i malanni.
La kapâlabhâti:
35. Quando l’espirazione e l’inspirazione sono rapide come il mantice del fabbro, questo è conosciuto come kapâlabhâti, che distrugge le malattie che derivano dalla flemma.
36. Dopo che l’obesità, i disordini causati dalla flemma, le impurità, ecc., sono scomparse grazie ai sei atti, bisogna praticare il prânâyâma: allora il successo è ottenuto senza sforzo.
37. Tuttavia alcuni maestri dicono che tutte le impurità sono distrutte dal prânâyâma e non approvano altre azioni.
La gajakaranî (l’azione dell’elefante):
38. Dopo aver fatto salire l’apâna fino all’esofago, si vomitino le sostanze contenute nello stomaco. Questo, la cui pratica graduale pone sotto controllo il complesso delle nâdî, è chiamato gajakaranî da coloro che conoscono lo hatha-yoga.
39. Persino Brahmâ e i Trenta Dei sono completamente assorbiti nella pratica del controllo del soffio vitale, a causa del terrore della morte: per questo si esegua il prânâyâma.
40. Quando il prâna è bloccato nel corpo, quando la mente è ben concentrata, quando lo sguardo è fissato tra i sopraccigli, perché mai allora c’è paura della morte?
In questo verso è palesemente descritto lo stato di samâdhi: il respiro è infatti fermo nel corpo, senza più inspirazione né espirazione, in kevala-kumbhaka. La mente è anch’essa stabile, inattiva, mentre lo sguardo è fisso nello spazio alla radice del naso. In questa situazione lo yogin è al di là del livello del samsâra, non più esposto né alla morte né alla vita.
41. Quando il complesso delle nâdî è stato purificato con la corretta pratica del prânâyâma, il soffio vitale, dopo aver perforato l’apertura della susumnâ, penetra in essa senza sforzo.
42. Quando il soffio vitale è nel sentiero mediano, la mente diventa stabile e calma: questa condizione di immobilità mentale è lo stato di manonmanî.
Il sentiero mediano è la susumnâ. Lo stato di manonmanî, cioè di assenza del pensiero, di completa sospensione di ogni attività mentale, sarà citato al cap. IV, v. 3, come uno dei sinonimi di samâdhi.
43. Coloro che conoscono le regole praticano vari tipi di kumbhaka per il suo conseguimento; grazie alla pratica di diversi kumbhaka si ottengono varie siddhi.
Qui e nel verso successivo kumbhaka è una sineddoche, e sta ad indicare il prânâyâma. L’effettuazione dei vari tipi di esercizi respiratori permette di ottenere particolari poteri supernormali chiamati siddhi.
Kumbhakabheda (la varietà dei kumbhaka):
44. I kumbhaka sono otto: sûryabhedana, ujjâyin, sîtkârin, sîtalî, bhastrikâ, bhrâmarin, mûrcchâ e plâvinî.
45. Al termine dell’inspirazione deve essere eseguito il bandha chiamato jâlandhara. Alla fine del kumbhaka e all’inizio dell’espirazione deve essere compiuto l’uddîyâna-bandha.
46. Contraendo la gola e contemporaneamente le parti basse (la zona del perineo) e traendo verso la schiena la regione dell’ombelico, il prâna percorre la brahmanâdî.
Sono qui sinteticamente descritti i tre più importanti bandha che verranno in seguito esaminati in dettaglio: il primo è il jâlandhara (cfr. cap. III, vv. 70-73), che consiste nel premere il mento contro il petto e nel contrarre la gola, così da bloccare il passaggio del prâna; il secondo è il mûla-bandha (cfr. cap. III, vv. 61-69), nel quale si contrae la regione anale così da costringere l’apâna a risalire; il terzo è l’uddîyâna (cfr. cap. III, vv. 55-60) che è una forte contrazione del ventre all’indietro, verso la schiena: grazie a questi bandha eseguiti pressoché simultaneamente, il prâna può finalmente penetrare nella susumnâ.
47. Lo yogin che tragga il soffio discendente verso l’alto e spinga il prâna dalla gola verso il basso è libero dalla vecchiaia e acquista il vigore di un sedicenne.
Il sûryabhedana (perforazione del Sole):
48-49. Lo yogin, postosi in un âsana su un confortevole sedile, inspiri lentamente l’aria esterna con la narice destra, quindi trattenga il respiro fino al limite delle proprie capacità, così che il prâna arrivi dai capelli all’estremità delle unghie; poi, molto lentamente espiri il soffio vitale dalla narice sinistra.
Il sûryabhedana deve il suo nome al fatto che il prâna viene inspirato attraverso la narice destra e scorre lungo pingalâ, la nâdî del Sole.
50. Il sûryabhedana che purifica il capo, distrugge i malanni che derivano dall’alterazione del vâta e le malattie causate dai vermi, deve essere continuamente praticato.
L’ujjâyin:
51. Dopo aver chiuso la bocca, si inspiri lentamente l’aria con entrambe le narici, così che essa, risuonando, pervada il corpo dalla gola al cuore.
Il termine ujjâyin deriva dal causativo della radice ji (vincere) col prefisso ud, che indica superiorità e significa quindi «ciò che fa vincere, che conduce alla vittoria».
52. Si trattenga il prâna come in precedenza e poi lo si espiri attraverso idâ. Questo distrugge le malattie della gola causate dalla flemma e aumenta il fuoco gastrico nel corpo.
«Come in precedenza» significa che è necessario trattenere il prâna fino all’estremo limite delle possibilità, come avviene durante il sûryabhedana. Le alterazioni nella gola sono la tosse, l’eccessiva secrezione delle mucose e gli edemi.
53. Esso pone termine alle affezioni delle nâdî, all’idropisia e alle malattie che interessano i costituenti del corpo. La ritenzione del respiro chiamata ujjâyin può essere eseguita sia stando fermi che camminando.
Il sîtkârin:
54. Si deve emettere il suono sît con la bocca mentre si inspira e poi espirare solo col naso: grazie alla sua costante pratica si diventa un secondo dio dell’amore.
55. Chi lo pratica è onorato dalla comunità delle yoginî; è artefice dell’emissione e del riassorbimento; né fame, né sete, né sonno, né accidia si manifestano più in lui.
Le yoginî sono le donne che praticano lo Yoga, spesso considerate alla stregua di maghe a causa dei poteri occulti così ottenuti. Emissione e riassorbimento assumono in questo contesto una duplice valenza. In senso macrocosmico essi stanno a significare la creazione e la dissoluzione del mondo, in quanto emanato e riassorbito dallo yogin stesso; in senso microcosmico ci si riferisce alla capacità di colui che pratica lo Yoga di poter emettere e ritenere il seme - facendolo poi risalire all’interno del corpo - secondo il proprio volere.
56. Grazie a questa pratica egli, libero da ogni disgrazia, acquista un corpo vigoroso e diventa certamente il migliore tra gli yogin dell’orbe terracqueo.
La sîtalî:
57. Il saggio inspiri l’aria con la lingua, poi compia la ritenzione del respiro come in precedenza, infine espiri lentamente l’aria con entrambe le narici.
Sîtalî significa «rinfrescante» e la sua esecuzione è piuttosto complessa: infatti è necessario sporgere la lingua dalle labbra e piegare i suoi lati verso l’alto, così da darle la forma di un corto tubo o di un beccuccio. Si inspira poi l’aria dalla lingua così sistemata con un suono sibilante. Infine si ritira la lingua e si chiude la bocca per effettuare il kumbhaka fino all’estremo limite delle proprie capacità.
58. Il kumbhaka chiamato sîtalî distrugge completamente le dilatazioni ghiandolari dell’addome, i disturbi della milza, ecc., la febbre, gli attacchi di bile, la fame, la sete e i veleni ingeriti.
La bhastrikâ:
59. Allorché si pongono entrambe le piante dei piedi, in modo aggraziato, sopra le cosce, questo è il padmâsana, che distrugge ogni peccato.
60. Dopo aver assunto correttamente il padmâsana, con la mente stabile, il collo e la schiena allineati, si chiuda la bocca e si espiri con forza da una narice
61. finché lo scorrere del prâna nel petto, nella gola, fino al capo, non produca un suono; poi si inspiri con forza l’aria fino al loto del cuore.
62. Quindi si espiri nuovamente, come in precedenza, e si inspiri, e così ripetutamente; proprio come il mantice è agitato con violenza dal fabbro,
63. nello stesso modo l’aria che sta nel corpo deve essere consapevolmente agitata: quando nel corpo sopravviene la stanchezza, si inspiri per mezzo della narice destra.
64. Non appena la cavità toracica si è velocemente riempita d’aria, allora si occluda saldamente il naso, senza usare il medio e l’indice.
65. Dopo aver eseguito il kumbhaka come prescritto, si espiri il prâna attraverso idâ. Esso aumenta il fuoco gastrico all’interno del corpo, distrugge le malattie originate da perturbazioni del vâta, pitta e kapha;
66. risveglia velocemente Kundalinî, offre purificazione, piacere, ed è benefico; rimuove l’ostruzione costituita dal kapha, ecc., che sta alla base della brahmanâdî;
67. perfora i tre nodi (granthi) che si trovano stabilmente lungo la susumnâ: perciò questo kumbhaka conosciuto come bhastrikâ (mantice) deve essere assolutamente eseguito.
I sei cakra che si trovano lungo la susumnâ sono suddivisi in tre gruppi: ciascuno di questi fa capo a un nodo (granthi) - situato in un cakra che perciò viene ad avere un’importanza speciale - che è luogo di massima sacertà, in cui la potenza della divinità si manifesta in modo particolare. Il brahmagranthi, cioè il nodo presieduto da Brahmâ, è posto nel mûlâdhâra-cakra, ed è associato all’elemento fuoco; il visnugranthi, il nodo di Visnu, si trova nell’anâhata-cakra ed è legato al Sole; infine l’ultimo e più alto nodo è il rudragranthi, connesso con l’aspetto terrifico di Siva, cioè Rudra, collocato nell’âjñâ-cakra, ed è collegato alla Luna.
Il bhrâmarin:
68. L’inspirazione, molto violenta, deve produrre un suono simile al ronzio di un’ape maschio; l’espirazione, molto delicata, quello di un’ape femmina. Grazie alla pratica di questo esercizio, beatitudine e piacere sorgeranno nella mente dei migliori tra gli yogin.
La mûrcchâ:
69. Al termine dell’inspirazione, eseguendo molto fermamente il jâlandhara, si espiri lentamente: ciò è chiamato mûrcchâ, che dà gioia e affievolimento (mûrcchâ) dello spirito.
La plâvinî (galleggiante):
70. Lo yogin che ha l’addome pieno dell’aria che ha abbondantemente inspirato all’interno del corpo con facilità galleggia anche su acque profonde, come una foglia di loto.
71. Il prânâyâma è conosciuto come triplice: composto da recaka, pûraka e kumbhaka; il kumbhaka è considerato duplice, suddiviso in sahita e kevala.
Il recaka è l’espirazione e il recaka-prânâyâma consiste nella ritenzione del soffio vitale dopo aver effettuato l’espirazione. Il pûraka è l’inspirazione e il pûraka-prânâyâma è costituito dal trattenere il prâna dopo l’atto inspiratorio. Quando il kumbhaka consiste nel bloccare il prâna dopo l’espirazione, corrisponde al primo tipo di prânâyâma. Quando invece si attua dopo l’inspirazione, si identifica col secondo tipo. Quindi il kumbhaka, nei casi sopra descritti, è chiamato sahita, cioè «accompagnato» dall’espirazione o dall’inspirazione. Il kevala-kumbhaka, cioè la ritenzione del respiro assoluta, sciolta, indipendente, si ha quando non v’è più inspirazione né espirazione, ma il respiro è arrestato e il prâna reso immobile. Questo è, come si afferma al verso 73, il prânâyâma per antonomasia, grazie al quale Kundalinî è risvegliata e il manas definitivamente bloccato.
72. Bisogna praticare il sahita-kumbhaka finché non si raggiunge il successo nel kevala-kumbhaka che è la ritenzione, con facilità, del prâna dopo che si è abbandonato il recaka e il pûraka.
73. Il kevala-kumbhaka: questo è invero chiamato prânâyâma. Dopo che lo yogin è diventato abile nel kevala-kumbhaka, senza recaka né pûraka,
74. per lui non esiste alcuna cosa difficile a ottenersi nei tre mondi. Chi, grazie al kevala-kumbhaka, può trattenere il respiro a piacer suo,
75. ottiene anche lo stadio del râja-yoga, non c’è dubbio. Col kumbhaka si ha il risveglio di Kundalinî; grazie al risveglio di Kundalinî, la susumnâ è libera dalle ostruzioni ed è realizzato il successo nello hatha-yoga.
76. Il râja-yoga non è coronato da successo senza lo hatha, né lo hatha senza il râja: perciò li si pratichi entrambi fino alla realizzazione finale.
77. Al termine della ritenzione del prâna compiuta grazie al kumbhaka la mente deve essere senza supporto: invero, per mezzo di questo esercizio si ottiene il livello del râja-yoga.
Per il potere del kumbhaka, il citta (la mente) diventa nir-âsraya, senza più supporto, cioè non si appoggia più a ciò che è fuori di essa (sentimenti, emozioni, pensieri, percezioni): cessa ogni attività. Il citta, ormai formato di solo sattva, concepisce il Sé e realizza lo stato non duale di Âtman/Brahman.
78. Gli indizi del successo nello hatha-yoga sono la snellezza del corpo, la luminosità del volto, la manifestazione del suono interiore, una vista estremamente limpida, la salute, il controllo del seme, l’incremento del fuoco gastrico e la completa purificazione delle nâdî.
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