Soshitsu Sen XV
Chado: Lo Zen nell'Arte del Tè

 


 

INDICE

 

Prefazione
Premessa
Introduzione
Dominare la Via
L'ospite e l'invitato
La disposizione dell'ambiente
II luogo della pratica
La necessità di una disciplina
II gusto del tè e lo Zen
Furyu
Wabi
Frugalità
Moderazione
A coloro che aspirano a seguire la Via del Tè

 


 

PASSI SCELTI

  

PREFAZIONE

Piace particolarmente, in questo libro di Sen Soshitsu XV, vedere che il Tè, e tutto quanto riguarda la sua cultura, non ci viene presentato per vie astratte e teoriche, ma come esperienza vissuta ed umana - addirittura come autobiografia. Quanto sono simpatiche le pennellate iniziali in cui il Maestro torna addietro negli anni, ai tempi della fanciullezza, e ci racconta del babbo che gli impartiva esoterici insegnamenti in una stanza austera, dalla quale perfino la mamma era esclusa!

Bisogna conoscere le case giapponesi per valutare concretamente la situazione. Da noi (civiltà della pietra e del mattone) una camera è una grotta artificiale; chiudi la porta e sei isolato dal mondo. In Giappone (civiltà del legno e della carta) chiudi, anzi meglio fai scivolare gli shoji, le porte a slitta di leggerissimo legno e diafana carta, e produci un isolamento del tutto relativo. Chiunque, da fuori, avverte movimenti, voci, sospiri di coloro che son dentro; una sensibilità più sveglia del solito riesce a ricostruire cogli occhi della mente ogni invisibile evento. Infatti la mamma era esclusa dalle lezioni, è vero, ma seguiva con tale spasmodica trepidazione il comportamento del figlio da captare nelle mosse di lui certe imperfezioni che il padre non aveva o notato, o sottolineato.

Il Tè, col suo mondo, con la sua raffinata cultura, ci viene dunque presentato in queste pagine con procedimenti tipicamente giapponesi; per suggerimenti, allusioni, ricordi personali, ricordi storici, riportando parole udite o parole tramandate. Come sempre in Giappone, si impara facendo. Non occorrono testi o lavagne: si ripetano gesti, si respirino situazioni.

In tale vena, se m’è permesso, vorrei anch’io tornare indietro nel tempo e parlare brevemente dei miei primi incontri con la Via del Tè. Intanto dirò che fui portato in Giappone quasimente per caso. Avevo poco più di vent’anni, volevo conoscere meglio l’Asia orientale, viverci, ma ero aperto ad ogni possibilità: Cina, Corea, Tibet, India, Giappone, Asia di sud-est… Capitò una borsa di studio pel Giappone, fatto (felice!) che poi determinò in gran parte il corso dei miei giorni. Interessandomi in modo particolare d’antropologia (allora poco di moda in Italia) mi recai in Hokkaido, tra gli Ainu, dove rimasi oltre due anni. So bene che per i giapponesi parlare di Ainu è un po’ come da noi parlare di zingari; difficile immaginare qualcosa di più lontano dal Tè, col suo raffinato universo di sottintesi sociali e squisitezze estetiche. Nel contesto di questo libro la sola parola Ainu, lo sento, suona scandalo! Eppure quanto vissi in quegli anni m’è poi sempre rimasto in cuore con la segreta dolcezza delle autentiche commozioni.

Un gelido giorno di febbraio, sotto quel cielo vagamente nebuloso dell’Hokkaido invernale, dove il sole compare misteriosamente e pudicamente ogni tanto, mentre fiocchi silenziosi di neve calano sugli alberi, sui campi, sui monti, entrai nella capanna di Shirabeno - presso il quale mi recavo spesso per seguire da vicino la vita del villaggio. Shirabeno era un anziano (ekashi) del paesuccio di Nibutani, sperduto tra le selve dello Hidaka; aveva il caratteristico aspetto degli Ainu puri di sangue, gran barba, capelli abbondanti, volto europoide, mani e braccia pelose. Era molto attaccato alle tradizioni. Per quanto facesse un freddo mordente girava scalzo per la capanna, e per abito indossava appena un attush di spesso cotone, una specie di rustico kimono, con le tipiche gagliarde decorazioni a colori sulla schiena.

«Bravo, hai fatto bene a capitare adesso!» esclamò Shirabeno. «Stavamo proprio per celebrare un kamui-nomi di ringraziamento per la guarigione di mia figlia». Poco dopo la capanna si riempì di gente; altri vecchi, molte donne, qualche bambino; e tutti si disposero accovacciati intorno al focolare aperto, a pozzetto, nel centro della capanna. Il focolare Ainu è sacro, la dimora della grande madre Kamui Fuchi. Alcuni piccoli inau (bastoni in legno di salice, ornati di trucioli freschissimi) stavano piantati nella cenere. A quei tempi il mondo culturale degli Ainu era ancora vivo (oggi è tragicamente finito, ucciso dai turisti). Avvertivo nel piccolo consesso un alito genuino, quasi magico, di reverente religiosità. Shirabeno teneva in mano un’antica coppa giapponese laccata, colma di quella candida birra casalinga che si chiama kamui-ashkoro. Mormorando con voce cavernosa preghiere nella lingua degli avi, intingeva ripetutamente un ikubashui, diciamo uno «scettro da libazioni», nel liquido e ne offriva alcune gocce alle divinità protettrici della casa. I suoi gesti erano larghi e sicuri, splendidamente cerimoniosi.

Terminata la residenza in Hokkaido, vicende varie della vita mi condussero a Kyoto. Tornare in Italia era ormai impossibile; la guerra scatenatasi nel mondo impediva comunicazioni e viaggi. Fortuna volle potessi ottenere un posticino come lettore d’italiano presso l’università di Kyoto.

Che trapianto sensazionale! Lasciavo quel lontano, ostile, dimenticato mondo di primitivi sopravvissuti per strano caso alla preistoria, ed eccomi faccia a faccia con le manifestazioni d’una civiltà raffinata, complessa, compita, e nella città che più degnamente, più orgogliosamente, ne conservava le tradizioni. Passavo dalle capanne (ingegnosamente costruite per resistere al vento e alle nevi, ma sempre capanne) ai mirabili e monumentali templi buddhisti, nei quali l’uomo aveva portato a livelli supremi l’estetica del legno, la tecnica e il gusto dei vasti tetti ricurvi, lasciavo pupazzi e trovavo sculture, pitture, che riflettevano un cumularsi millenario d’esplorazioni estetiche, di ricerche espressive… insomma capii che dovevo umilmente e subito tornare a scuola, ma proprio dalle elementari, per abbeverarmi della civiltà giapponese in ogni suo aspetto.

Fortuna volle che mi legassi d’amicizia con un giovane bonzo del Ginkaku-ji (il famoso «Padiglione d’Argento»), il quale godeva con pudico entusiasmo nel fare da guida a queste iniziazioni estetiche. Topazia, allora mia moglie, col suo istinto sicuro d’artista, m’accompagnava (no, diciamolo francamente, spesso mi precedeva!) nelle giornaliere scoperte di meraviglie e bellezze.

Ovviamente mi trovai ben presto dinanzi alla cerimonia del Tè. Sarò assolutamente esplicito: la prima impressione fu negativa, anzi furiosamente negativa. Osservavo una gentile fanciulla in kimono (nella fattispecie la sorella dell’amico bonzo) mentre preparava con gesti aerei, astratti, stilizzati, quasi una leggerissima danza, il necessario per il Tè, la seguivo nelle varie incombenze, una musica trascritta da suoni in spazio, poi osservavo gli ospiti che sorbivano la verde bevanda da coppe preziose con mosse impeccabili. Ahimè, quanto mi sembrava gelido, artificiale, impettito, spocchioso tutto questo! La memoria, il cuore, tornavano come saette alla capanna di Shirabeno, al silenzio immenso di Yezo invernale che avvolgeva quel minuscolo nido di luce e di calore. Il vento sibilava di tanto in tanto tra i covoni di paglia del tetto. I gesti dell’amico ekashi, che libava alla dea del focolare, erano rozzi e primordiali in paragone alla compita finezza di quelli kiotensi, ma negli occhi dei miseri Ainu, sopravvissuti per sbaglio alle albe della storia umana, brillava una confidente generosa innocenza che incantava.

Passò molto tempo. Lentamente risalivo la china, da uno stato deplorevole d’ignoranza ad uno di maggiori contezze. Mi familiarizzai con la miriade d’aspetti della società giapponese, cercai di penetrare più a fondo la lingua dei miei ospiti, parlata e scritta. Mi capitava spesso di tornare al Tè, e ogni volta con un bagaglio di conoscenze più approfondite, quindi con una possibilità di comprensione migliore. Capii ben presto che l’espressione «cerimonia del Tè» svia completamente. In giapponese si parla con semplicità di cha no yu, di «acqua calda del tè»; mirabile lezione di understatement, d’affermazione in sordina.

La tempesta della guerra pareva non dovesse finire mai. Ad un certo punto (Badoglio, re, Mussolini eccetera) divenimmo perfino nemici, traditori, condizione di spregio supremo all’occhio nipponico: quindi fummo duramente internati e affamati. Fortuna volle che degli umili sinceri amici giapponesi resistessero alle pressioni anche violente della polizia, e rifiutassero d’avallare l’accusa che io fossi una spia. Infine venne quel fatidico 15 agosto 1945, col discorso per radio dell’imperatore (che sulle prime nessuno capì, dato l’aulico linguaggio di corte nel quale fu redatto) e tornammo liberi.

Qualche tempo dopo ritrovammo gli antichi fedeli amici, che si erano salvati per miracolo dall’orrore di Hiroshima. Saluti, feste, fiumane di ricordi, com’era naturale. Poi la signora Morioka esclamò di colpo, come fosse la cosa più naturale del mondo: «Ah che bellezza, adesso beviamo insieme del tè!». Ci trovavamo in campagna. Il Giappone era ancora disastrato dalla sconfitta. Mancava ogni cosa. Eppure, non si sa come, in pochi minuti comparvero dal nulla nella piccola stanza a tatami un braciere (furo), una teiera di ferro (kama), un ramaiolo di bambù (chashaku), delle coppe, insomma l’occorrente essenziale. La signora Morioka aveva seguito assiduamente da giovane le arti del Tè. Una naturale gentilezza e un’innata eleganza davano adesso ai suoi gesti lo sciolto convincimento d’un rito pregno di significati.

Lei e suo marito volevano in qualche modo esprimere la gioia di ritrovarci dopo anni di paure e di stenti; noi volevamo comunicare loro la gratitudine per il sostegno nei momenti di più duro e pericoloso patire. Questo umile, rabberciato Tè campagnolo fu davvero una eucaristia, nel senso etimologico della parola, un «rendimento di grazie». In quell’istante ebbi la sensazione di capire l’essenza del Tè. La forma non irrigidiva i sentimenti, li sublimava.

Fosco Maraini

 

PREMESSA

Il semplice gesto di offrire il tè e di accettarlo con riconoscenza è alla base di un modo di vivere chiamato Chado, la Via del Tè. Offrire una tazza di tè in maniera conforme alle regole significa realizzare una sintesi culturale, i cui elevati ideali comportano elementi provenienti dalla religione, dalla morale, dall’estetica, dalla filosofia, dalla disciplina e dalle relazioni sociali.

Chi studia la Cerimonia del Tè apprende a disporre gli oggetti, a comprendere il ritmo e le pause, ad apprezzare il garbo dei gesti e ad applicare tale insegnamento alla vita quotidiana. Tutto ciò può realizzarsi nel semplice procedimento di offrire e ricevere una tazza di tè ed è compiuto per un solo scopo: quello di realizzare la tranquillità dell’anima in comunione con il nostro prossimo nel nostro mondo. è questo il significato odierno della Via del Tè. Una tazza di tè può veramente propagare la pace: la quiete da essa procurata può essere condivisa e diviene il fondamento di un modo di vivere.

Io sono nato in una famiglia profondamente radicata nella tradizione e nella pratica della Via del Tè: la mia vita, al pari di quella dei miei avi, è stata impregnata di questo spirito. I miei più lontani ricordi comprendono le stanze da tè della mia casa, gli utensili per il tè con i quali giocavo, le lezioni di tè con mio padre, l’interminabile flusso di invitati accolti con una tazza di tè verde frullato. Nel 1964 sono subentrato a mio padre come capo della famiglia e sono divenuto il Gran Maestro della XV generazione della Scuola di Tè Urasenke, guidando più di due milioni di studenti della tradizione Urasenke. Quello che vi esporrò sono la mia vita e i miei pensieri.

Sono lieto di presentare ai lettori italiani questo breve testo che racchiude i princìpi del Chado, alla divulgazione dei quali ho dedicato la mia vita.

L’Italia è un paese di antichissime tradizioni culturali, le cui tracce sono visibili ancora ai nostri giorni, ed è la culla della civiltà europea.

Ho pensato che gli italiani, con la sensibilità derivata loro dalla apertura verso gli altri che li caratterizza, siano in grado di capire e apprezzare anche questo particolare aspetto della cultura tradizionale giapponese.

Sono sicuro che il «cuore» del Chado parlerà direttamente al cuore degli italiani.

 

INTRODUZIONE

Un monaco chiese un giorno al suo maestro: «Poco mi importa di ciò che mi viene riservato: la Via qual è?». Di rimando, immediata fu la risposta: «La Via è la tua vita quotidiana».

Questo concetto è il fulcro della Via del Tè; i suoi princìpi abbracciano l’esistenza nella sua totalità e non si limitano al tempo trascorso all’interno della stanza del Tè. In pratica, la prova consiste nell’affrontare ogni evento quotidiano con mente chiara e piena padronanza di se stessi. In un certo senso anche l’azione più insignificante è la Via del Tè, e questo le conferisce oggi la stessa rilevanza che aveva ai suoi esordi più di 450 anni fa.

L’usanza di bere il tè verde in polvere venne introdotta in Giappone nel XII secolo dai monaci che tornavano dagli studi compiuti nei grandi monasteri zen della Cina. Il Tè stimolava la loro meditazione; era anche una medicina e un mezzo di diffusione dello Zen. Due secoli più tardi, si beveva per motivi totalmente diversi, come gare di degustazione del tè accompagnate da fastosi banchetti, con ostentazione di ricchezze e averi, e scommesse con puntate massicce. I partecipanti parevano trovare in questo ambiente di sfarzo eccessivo il modo di evadere dalla loro epoca molto incerta.

Verso la fine del XV secolo la pratica del Tè venne studiata dal monaco zen Murata Shuko (1422-1502). Egli conosceva bene le procedure del servizio del Tè alla corte dello shogun ed era un discepolo del celebre maestro zen Ikkyu (1394-1481) che lo incoraggiò in questa pratica. Il suo modo di offrire il tè metteva in evidenza la sua formazione zen. In contrasto con le grandi sale e gli utensili cinesi generalmente usati ai suoi tempi, egli preferiva offrire il tè in una piccola stanza con un numero ridotto di utensili, molti dei quali di origine domestica. In tal modo Shuko scoprì che servire il tè era ben altra cosa che un semplice rituale di raffinata eleganza.

La pratica del Tè si stava diffondendo anche tra i membri della classe dei mercanti, e così assunse nuove caratteristiche. In contrasto con la solennità della corte dello shogun, l’offerta del Tè praticata dai mercanti prese un aspetto molto più animato. Molti fra i Maestri del Tè appartenenti alla classe dei mercanti erano impegnati nello Zen. Benché l’atmosfera delle loro riunioni differisse da quelle di Shuko, la base era la stessa.

Uno degli uomini più autorevoli del gruppo fu Takeno Joo (1502-1555). Nel corso della sua vita sviluppò il concetto di uno stile del tutto nuovo di Cerimonia del Tè: lo stile wabi, praticato in una rustica capanna con utensili modesti e rasserenanti. Con modestia e senza ostentazioni, esso unisce l’estetica zen e il carattere egualitario della democrazia.

Questo stile in seguito doveva essere sviluppato pienamente dal discepolo di Joo, Sen Rikyu.

Sen Rikyu (1521-1591) iniziò i suoi studi con Joo, a diciannove anni. Al pari di Joo, proveniva da una famiglia di mercanti e risiedeva nel porto di Sakai, presso Osaka. Occorrerebbero interi volumi per raccontare la sua storia personale e i suoi contributi alla pratica del Tè. Basti dire in questo contesto che Rikyu ha ordinato e amalgamato i numerosi stili del Tè praticati fino ad allora, con la loro filosofia, la loro etichetta e la loro storia: tutto ciò oggi viene chiamato Chado, la Via del Tè.

Rikyu identificò lo spirito della Via del Tè con i quattro princìpi fondamentali: armonia, rispetto, purezza, serenità. Questi quattro princìpi costituiscono il fondamento di tutte le regole del Tè e rappresentano nel contempo i suoi ideali più elevati.

L’armonia è il risultato dell’influenza reciproca tra ospite e invitato, del cibo servito e degli oggetti scelti secondo il ritmo fluttuante della natura. Essa riflette ad un tempo l’effimero in tutte le cose e la stabilità nel mutamento. L’ospite e l’invitato agiscono all’unisono, comportandosi l’uno verso l’altro come se i rispettivi ruoli fossero intercambiabili. Prima di offrire il tè, l’ospite porge dei dolciumi all’invitato o talvolta un pasto leggero. In entrambi i casi, ciò che viene offerto deve essere adatto alla stagione, gli utensili devono armonizzare fra loro, con l’atmosfera e con il tema della riunione del Tè. L’intima analogia con la natura polarizza ulteriormente l’attenzione sulla qualità fugace di una tale riunione. Il principio di armonia significa essere liberi da ogni pretesa, incamminarsi sul sentiero della moderazione, non accalorarsi né irrigidirsi e mai dimenticare l’abito dell’umiltà.

Il rispetto è la sincerità dell’animo che ci libera e ci permette di avere un rapporto aperto con l’ambiente circostante, con i nostri simili e con la natura, mentre di ognuno e di ogni cosa riconosciamo l’innata dignità. Il rispetto dà struttura a una riunione del Tè e stabilisce gli scambi tra i partecipanti, innanzitutto per mezzo di regole. Ma in un senso molto più ampio, al di là delle apparenze, questo principio ci spinge a sentire profondamente il cuore delle persone che incontriamo e l’essenza delle cose che ci circondano. Solo così avvertiamo di essere tutt’uno con il mondo in cui viviamo.

La purezza, il semplice atto di pulire, ha un ruolo importante in una riunione del Tè, nei preparativi, nell’offerta del Tè propriamente detta e, dopo la partenza degli invitati, nel rimettere in ordine gli oggetti e nel chiudere la stanza del Tè. Alcuni gesti, come togliere la polvere dalla stanza e liberare il sentiero del giardino dalle foglie morte, rappresentano di per sé l’atto di «togliere la polvere dal mondo», ovvero i vincoli mondani dal proprio animo e dalla propria mente. Solo dopo essersi affrancati dalle preoccupazioni materiali, persone e cose possono essere percepite nella loro essenza più veritiera. Pertanto, l’atto di pulire ci rende sensibili all’essenza pura e sacra delle cose, dell’uomo e della natura.

Mentre pulisce e mette in ordine i posti che gli invitati occuperanno, l’ospite riordina anche se stesso. Questo ordine è essenziale. Mentre accudisce ai particolari della stanza del Tè e del sentiero nel giardino, non è meno attento alla propria coscienza e alle condizioni di spirito con cui servirà ogni invitato.

La serenità, concetto estetico specifico del Tè, sopraggiunge con la pratica costante dei tre primi princìpi di armonia, rispetto e purezza nella vita quotidiana. Seduto solo, lontano dal mondo, all’unisono con i ritmi della natura, liberato dai vincoli del mondo materiale e dalle comodità corporali, purificato e sensibile all’essenza sacra di tutto ciò che lo circonda, colui che prepara e beve il tè in contemplazione si avvicina a uno stadio sublime di serenità. E, strano a dirsi, questa serenità si amplia maggiormente quando un’altra persona entra nel microcosmo della stanza del Tè e si unisce all’ospite in contemplazione di una tazza di tè. Trovare una serenità duratura in noi stessi in compagnia d’altri: questo è il paradosso.


 

LA DISPOSIZIONE DELL’AMBIENTE

Si può considerare la Via del Tè come la storia del gusto giapponese. Nel XV secolo, nei giardini del Padiglione d’argento e del Padiglione d’oro, a Kyoto, gli invitati amavano passeggiare lungo un percorso che costeggiava un laghetto artificiale, fermandosi qua e là per ammirare le straordinarie riproduzioni in miniatura di celebri paesaggi. Entravano poi in una sala spaziosa dove erano esposte belle collezioni di ceramiche e scritture cinesi. Una sala attigua, sontuosamente decorata, si apriva, ed essi, dopo aver gustato delle leccornie, bevevano il tè. In quell’epoca erano apprezzati solo gli oggetti di origine cinese, perciò si adoperavano utensili cinesi per servire il tè.

Murata Shuko si oppose a questa tendenza: egli insegnò che il fine della pratica del Tè è quello di apportare calma e non di dar mostra di sfarzo. Uno degli insegnamenti lasciati ai suoi discepoli, e più tardi a tutti i giapponesi, è l’amore per gli utensili d’origine giapponese come per quelli cinesi. Shuko diceva di preferire la luna nei momenti in cui era parzialmente velata dalle nubi: quello che lo commuoveva profondamente non era la luna risplendente in un cielo terso, ma la luna che si può intravedere attraverso le nuvole. Con lo stesso spirito, egli preferiva la bellezza velata degli oggetti semplici e imperfetti. La ricerca della bellezza in questi oggetti lo induceva a dichiarare: «La cosa più importante è cercare la bellezza negli oggetti giapponesi come in quelli cinesi». Egli fu seguito in questi precetti da Takeno Joo, che doveva ulteriormente semplificare le regole della Cerimonia del Tè e ridurne il fasto.

Infine fu Rikyu a sintetizzare gli insegnamenti del passato e a invitare a una maggiore semplicità nel contesto della disciplina. Cercando di armonizzare i numerosi elementi comuni al Tè e alla vita quotidiana, accordò una netta preferenza alle ceramiche locali e coreane, che generalmente erano meno raffinate delle altre provenienti dalla Cina. Incoraggiò l’utilizzazione degli oggetti comuni e di uso domestico, tanto che oggi si considera quest’atteggiamento come l’impulso che dette origine alla ceramica d’arte giapponese.

Lasciamoci trasportare con la fantasia all’epoca di Rikyu. Non è difficile immaginare il mondo del Tè nel caos più totale, con gli esperti che rivaleggiavano fra loro e utilizzavano le riunioni come luogo d’incontro per giochi politici e controversie religiose. Operando in tali circostanze, Rikyu dette forma al Tè con questo chiaro insegnamento espresso in forma di waka:

Il Tè non è che:
far scaldare l’acqua,
preparare il tè,
e berlo come si conviene.
Questo è quanto dovete sapere.

L’insegnamento di Rikyu deve essere inteso come ammonimento indirizzato al mondo del Tè della sua epoca, e queste idee ci sono state trasmesse come regole fondamentali: tuttavia, se la forma ultima del Tè può essere ridotta all’estrema semplicità dei versi di Rikyu, ci possiamo chiedere perché si è fatto tanto per una cosa apparentemente così semplice. La difficoltà risiede proprio nel cammino per giungere a tale semplicità, che non è facilmente raggiungibile.

Il sentiero che conduce alla stanza del Tè si chiama roji. Il significato letterale del termine è «terreno rugiadoso». Nel Buddhismo il mondo in cui viviamo è chiamato «la casa ardente (di passioni) dei tre mondi». Attraversiamo il «terreno umido di rugiada», abbandonando la «casa ardente», per vivere un momento in un luogo di purezza e di rivelazione. Camminare lungo questo sentiero significa distaccarsi da titoli, posizione sociale, ricchezze.

Percorrendo il giardino, la cui atmosfera richiama montagne e profonde vallate, giungiamo al padiglione del Tè. Entriamo da una porticina molto bassa: le sue dimensioni e la sua posizione nel padiglione esigono che vi passiamo quasi carponi anziché a grandi passi. Quattro secoli fa, quando le classi sociali erano nettamente divise e i samurai portavano la spada, nessuno poteva entrare nella stanza con le armi né con altro oggetto che non fosse necessario alla riunione. Contro il muro esterno del padiglione, presso l’entrata, c’era un ripiano su cui il samurai poteva poggiare le armi. Quindi, poiché l’entrata era molto bassa, anche la persona più piccola doveva inchinarsi nell’entrare e, così facendo, guardare i propri piedi. Questo è un gesto significativo per un essere umano, poiché entrare a testa bassa gli fa provare un senso d’umiltà e provoca in lui un mutato atteggiamento.

La stanza del Tè è uno spazio vuoto, senza ornamenti, se si escludono i suoi elementi architettonici. Perciò, quando l’ospite invita a una cerimonia, deve, in un certo senso, procedere alla «disposizione dell’ambiente». Per fare questo esistono alcune norme che si possono modificare in molti modi secondo l’umore, l’esperienza o l’abilità.

La stanza può essere decorata semplicemente, nei toni neutri, come il nero e il bianco di una pittura d’inchiostro, o essere colorata vivacemente come se l’ospite fosse anche un decoratore. Ciò esige una certa abilità, ma è ancora più importante l’arte di mettere insieme i vari elementi: bisogna porre un’attenzione tutta particolare nell’unire utensili diversi - di argilla, metallo, legno, lacca o altro - che siano eleganti ma discreti. Questa armonia fa parte della riunione del Tè.

Un kakejiku è appeso nel tokonoma e deve essere scelto con la massima cura. è uno dei mezzi più diretti con cui l’ospite esprime il tema specifico di una riunione del Tè. Spesso il kakejiku è la calligrafia di un maestro zen. Può trattarsi di una pittura o della trascrizione di una citazione classica della saggezza zen, una poesia o una qualsiasi frase appropriata.

Nell’appenderla, non è sufficiente verificare che essa convenga al tokonoma o alla disposizione particolare della stanza del Tè. Oltre alle qualità artistiche, la dimensione, la forma, i colori e altre proprietà, nella scelta occorre tener presente la stagione. Nella Via del Tè la stagione assume un ruolo particolare. Si suol dire: «La primavera ha i fiori; l’estate, la brezza degli alisei; l’autunno, la luna; l’inverno, la neve». Per apprezzare pienamente la stagione, l’ospite deve mettere il kakejiku appropriato. In autunno la sua preferenza deve andare a un tema autunnale, in inverno a un tema invernale.

Questa attenzione fino al dettaglio è essenziale. I kakejiku hanno molti significati. Si possono scegliere in funzione della stagione o secondo l’ispirazione. Quando gli invitati li scorgono, possono essere toccati dal loro messaggio o sensibilizzati dalle immagini della stagione che essi evocano.

Nel Namboroku si legge: «Il significato della calligrafia sul kakejiku deriva dallo spirito della persona che l’ha composta come da quello di colui che l’ha trascritta». Così, la conoscenza della vita e del pensiero della persona che ha eseguito la calligrafia, come il significato reale delle parole o della pittura, sono tutti elementi che aiutano nella comprensione del tema scelto per la riunione.

Nel tokonoma vengono posti anche i fiori meticolosamente scelti: semplici, senza pretese, fiori di stagione. Al contrario della maggior parte delle idee sulle composizioni floreali, secondo cui essi devono essere disposti «artisticamente», nel Tè i fiori vanno composti come si vedono in natura. Rikyu insegnava che, in una riunione del Tè, i fiori devono essere «così come sono nei campi». Ma nulla è più difficile che cercare di disporli in questo modo. Ciò è possibile solo quando lo spirito è in armonia con la natura. Si devono quindi disporre il kakejiku e i fiori nel vaso usando il contrasto e la somiglianza, tenendo conto dello spazio nella stanza del Tè e delle pareti del tokonoma e tenendo presente il tema della riunione.

Rikyu riteneva che nulla dovesse distrarre la mente nella stanza del Tè, nonostante in essa si riunissero utensili di colore, forme e dimensioni diverse, similmente alla diversità degli ospiti. Infatti essi dovevano svolgere il loro ruolo e creare l’armonia divenendo parte del tutto. Questo è ancora vero ai nostri giorni. Nel Tè si deve sempre stare attenti ai dettagli, al fine di creare e mantenere questa armonia.

La combinazione appropriata dei vari utensili rivela il cuore, ovvero la sincerità dell’ospite. Pertanto, la maniera in cui essi sono utilizzati, come le loro diverse qualità, rivestono una grande importanza.

Per preparare il tè occorrono diversi oggetti: un contenitore per le foglie polverizzate di tè verde, un cucchiaino da tè per dosarlo, un frullino e una tazza in cui si mescolano l’acqua calda e il tè che verrà sorseggiato. Questi oggetti non vanno considerati come semplici utensili, né valutati semplicemente in qualità di oggetti d’arte antica, ma sono «come uno specchio nel quale si riflette l’anima dell’ospite». Essi vengono portati nella stanza in cui gli ospiti hanno preso posto, secondo un ordine prestabilito. Il tè viene preparato e servito e, quando la riunione è terminata, si ripongono ugualmente nell’ordine stabilito.

L’alta qualità della fattura e il modello degli utensili per il tè balzano subito agli occhi. Essi sono il risultato di un sentimento poco comune. La lieve curva del cucchiaino, il modo in cui lo smalto viene colato sulla tazza, la durezza della lacca nera della scatola del tè, le punte leggermente ricurve del frullino, non sono semplicemente elementi decorativi, ma dettagli necessari che contribuiranno all’atmosfera generale di una riunione del Tè. Che si vedano in una vetrina durante un’esposizione, o che si tengano in mano, gli oggetti utilizzati per la preparazione del tè possiedono una loro qualità che parla a chiunque. Al momento della riunione del Tè, essi tornano a vivere e possono suggerire un mondo spirituale al di là del tempo e dello spazio.

Capita talvolta che per una riunione del Tè vi sia una selezione eccezionale di oggetti. Tuttavia, se l’ospite e gli invitati prestano attenzione soltanto agli oggetti, a detrimento della loro relazione personale unica, la riunione non potrà evocare che l’inaugurazione di una mostra. Per quanto concerne l’essenza del Tè, queste riunioni, basate solo sull’esibizione di oggetti, non hanno alcun valore. Solo privilegiando il rapporto ospite-invitato, gli utensili inerti tornano a vivere e mostrano il loro valore.

Gengen Sai (1810-1877), XI Gran Maestro del Tè della Scuola Urasenke, seppe guardare lontano. Egli visse in una difficile epoca di trapasso che vide l’abolizione della classe feudale e l’alba del Giappone moderno attorno al 1860. Uomo del suo tempo, adottò le idee occidentali applicandole alla pratica del Tè. Nel 1872, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Kyoto, preparò e servì il tè seduto su uno sgabello dietro un tavolo. Anche gli invitati erano seduti su sgabelli. I giapponesi più attaccati alla tradizione furono critici. Malgrado ciò, rischiando la propria reputazione, non ebbe timore d’inaugurare un nuovo stile giunto fino a noi.

L’insegnamento che si deve trarre da questa innovazione è che egli si comportò in tal modo per rispetto verso gli invitati. I visitatori, provenienti da ogni parte del mondo, sarebbero convenuti a Kyoto per l’esposizione. Egli desiderava offrire loro il tè. Ben sapendo che essi non si sarebbero potuti sedere sul tatami1, disegnò tavoli e sgabelli e mise a punto un nuovo modo di servire il tè. Fedele a queste idee, incoraggiò tutti coloro che vivevano all’estero a utilizzare gli stessi utensili ai quali erano abituati, senza preoccuparsi se fossero o no destinati al tè. Tuttavia, nel momento in cui si operano tali sostituzioni o modifiche, è assolutamente necessario tener presente innanzitutto il rapporto fondamentale ospite-invitato. Il cambiamento per il cambiamento è privo di senso. Seguite l’esempio di Gengen Sai e, sostituendovi all’ospite, prevenitene le necessità.

Rikyu stabilì i princìpi secondo i quali va servita e bevuta una tazza di tè. A prima vista possono sembrare fastidiosi, ma, senza di essi, non si avrebbe la sicurezza di eseguire efficacemente i movimenti del corpo, la preparazione del fuoco, la pulizia della stanza del Tè, ecc. Benché i gesti e la loro successione siano prestabiliti, quando persone diverse concorrono alla preparazione e all’offerta del tè, possono realizzare tali princìpi con la loro personalità e il loro cuore.

La Via del Tè, grazie a numerose generazioni, si è arricchita e raffinata. Ciascuna delle tappe ha comportato una rifinitura; perciò è difficile metterla in atto con altrettanta perizia e scioltezza. Quindi, nella pratica del Tè, conviene prima apprendere fedelmente ogni gesto. A poco a poco, potrete dimostrare il risultato dello studio e dell’applicazione.

Una volta acquisita e assimilata la tecnica, potrete superarla. Ma non dovete saltare alcuna tappa e dovete essere attenti a ogni dettaglio. Progressivamente, dopo averli ripetuti più e più volte, avrete quasi l’impressione che i gesti si compiano da soli. Diverranno parte del vostro corpo, naturali come il camminare.

Una volta che avrete appreso come sedervi e come offrire il tè in modo conforme alle regole, sarete liberi di usare il vostro spirito e il vostro corpo come vorrete. Quando saprete quale uso fare della vostra libertà, potrete infine offrire il tè come si conviene. Sarebbe facile concludere che dovrete prepararvi con una disciplina ferrea al compito di organizzare una riunione del Tè o assistervi. Ma una preparazione così intransigente presenta un pericolo. Rikyu mette in guardia i suoi discepoli contro tale rischio in un passo del Namboroku:

è bene che l’ospite e l’invitato facciano del loro meglio e di conseguenza siano soddisfatti entrambi. Tuttavia, non è bene che essi mirino a priori a questa soddisfazione.

Sembra saggio perciò rinunciare allo scopo di realizzare un successo perfetto. Questa rinuncia ha in se stessa la possibilità di condurre a una felice esperienza. è molto probabile che commettiate un errore, mettendo un utensile al posto sbagliato, o altro: in quel momento la disciplina vi porterà i suoi frutti perché saprete risolvere i problemi con calma. Certo, la capacità di eseguire la Cerimonia del Tè senza errori è anche il risultato di una lunga pratica. Ma ciò che davvero importa è saper affrontare con rapidità e disinvoltura ogni mancanza, ogni passo falso.

Quando mi chiedono di prendere il pennello e mettere per iscritto una frase o una poesia, l’essenziale non è la qualità della calligrafia, ma il fatto che essa esprima la verità atemporale delle parole. Perciò, come ognuno fa entrando nella stanza del Tè, io m’inchino davanti al tokonoma in cui è il kakejiku, anche se esso è opera della mia mano. Più che un gesto formale è un umile inchino davanti alle parole che vi sono scritte.

Alcuni trovano singolare che m’inchini davanti a una mia opera. Essi pensano anche che è sorprendente che un ceramista beva il tè in una tazza che egli stesso ha fatto e s’inchini, in segno di apprezzamento, davanti all’oggetto. Essi dimenticano l’umiltà con cui si tiene tra le mani una tazza di tè, inchinandosi non solo davanti alla tazza, ma anche, per rispetto e gratitudine, verso tutto ciò che è in relazione con la fattura della tazza e la preparazione del tè: la terra, l’argilla, il talento del ceramista, il sole, le foglie del tè. Si esprime anche la propria riconoscenza per aver avuto la possibilità di trovarsi in questo momento, in questo luogo, per bere il tè.

Questa riconoscenza si manifesta con un piccolo gesto di umiltà che si ritrova nello stesso spirito di colui che si curva per oltrepassare la piccola entrata del padiglione del Tè. Dopo aver alzato la tazza ed essersi leggermente inchinato, l’invitato fa compiere mezzo giro alla tazza, in modo da non bere sul davanti (parte più bella, considerata la «faccia»), ma sul dietro. Questi gesti di gratitudine e umiltà costituiscono una parte importante dell’esperienza del Tè.

Rispondendo alle domande di un giovane sulla cerimonia mattutina, il Buddha disse:

Quando t’inchini verso est, ringrazia per i tuoi genitori.
Quando t’inchini verso sud, ringrazia per i tuoi maestri.
Quando t’inchini verso ovest, ringrazia per tua moglie e i tuoi figli
Quando t’inchini verso nord, ringrazia per i tuoi amici,
i conoscenti e tutti gli abitanti del mondo.
Alzando gli occhi al cielo,
sii riconoscente di far parte dell’universo;
abbassando gli occhi verso terra,
sii riconoscente per la sua generosità.

Prima di preparare il koicha, ci poniamo in una disposizione di spirito particolare e purifichiamo gli animi come gli utensili che saranno utilizzati. Una tappa di questa preparazione consiste nell’esaminare attentamente i quattro lati di un fukusa1. Questi gesti rappresentano anche un atto di ringraziamento reso ai quattro punti cardinali, rappresentati dai quattro lati, in conformità con il s¥tra che abbiamo appena citato. Non ci contentiamo di purificare gli oggetti e lo spirito, ma, come implica il s¥tra, prendiamo umilmente consapevolezza della nostra relazione con tutto ciò che ci circonda, con l’universo. Senza questo, l’offerta del tè sarebbe ridotta a gesti automatici e privi di senso. Questo cuore purificato, semplice e riconoscente, che dà significato al Tè, si ottiene al termine di una disciplina vicina alla pratica dello Zen.


 

WABI

I Maestri del Tè hanno sovente espresso in poesie l’insegnamento di alcuni concetti. Un’immagine, un’allusione contenuta in una poesia, colpiscono un Maestro del Tè, perché essa esprime un concetto difficile, se non impossibile da spiegare. La poesia, nella sua completezza, insegna allora in modo essenziale, per mezzo di una metafora, ciò che non è possibile spiegare in modo diverso. Wabi rappresenta tale concetto.

La Via del Tè si fonda sull’estetica del wabi che talvolta può essere tradotto come «semplicità rustica». Tuttavia non si deve confondere questa estetica con l’amore verso ciò che è rustico. Wabi è uno stato dello spirito. Può essere espresso con termini quali «frugalità», «semplicità», «umiltà».

Come intendevano il wabi i grandi maestri del passato? Sen Rikyu apprezzava il seguente waka perché rappresentava la serenità raggiungibile attraverso la Via del Tè.

Guardandomi attorno,
non vedo né fiori né foglie rosse autunnali.
Una solitaria capanna
in riva al mare.
Tramonto d’autunno.

Questa scena, una capanna solitaria e umile, il paesaggio privo sia di splendore che di fiori o di foglie autunnali, rappresentano pienamente la totale semplicità e il gusto modesto di Takeno Joo, che insegnò il Tè a Rikyu. Questi, sebbene avesse sviluppato caratteristiche diverse da quelle del Maestro, continuò a rispettare il sentimento di wabi così come si manifesta in questi versi. Ma, nello stesso tempo, Rikyu andò oltre e approfondì i suoi rapporti con la natura più di quanto avesse fatto Joo, che identificò l’essenza del Tè con l’estrema semplicità della natura.

In contrapposizione a questo, Rikyu citava un altro waka che, secondo lui, evocava in maniera più pertinente lo spirito wabi e l’essenza del Tè, così come egli la intendeva.

A coloro che aspettano soltanto i fiori,
voglio mostrare la primavera nell’erba
che spunta tra la neve
nel villaggio montano.

Rikyu era impressionato dalla forza che scorgeva nella natura, la quale continua a lottare e a sopportare i rigori invernali per rinnovarsi senza posa; vedeva un esempio di questa resistenza nei germogli che, in inverno, oppressi dal peso della neve, si slanciano con tutte le loro forze e riescono a forarla.

Le due poesie che ho appena citato rappresentano entrambe lo stato di purezza e tranquillità, in mancanza di ogni variopinta bellezza, e l’una e l’altra dipingono un paesaggio desolato. Esse possono sembrare simili a prima vista, ma in realtà sono molto diverse, in quanto l’una rappresenta lo yin, condizione negativa delle cose, che ne esprime la fine, mentre l’altra rappresenta lo yang, stato positivo, che ne indica l’inizio. Grazie all’azione unificatrice di Rikyu, la Via del Tè ingloba questi due aspetti.

La Via del Tè raggiunge la perfezione nel momento in cui queste due idee si fondono per creare il criterio estetico che è proprio del Tè, il concetto di wabi.

La gente vuole i fiori in piena fioritura. Tuttavia, pur apprezzandone la bellezza, dobbiamo saper rendere omaggio allo sforzo che porta questi stessi fiori alla fioritura. Un minuscolo germoglio spunta: sa che è primavera. Non ha scelta: deve spuntare o morire. La verità della natura si può rivelare nella vita di un fiore. Rikyu scoprì questa stessa verità nella Via del Tè. Colui che non ha provato i rigori dell’austerità, come un filo d’erba, non può comprendere l’essenza del wabi. è naturale apprezzare la bellezza dei fiori nella loro stagione, ma scoprire quella dei germogli sotto la neve esige una sensibilità più sottile. Rikyu sapeva che lo stato di tranquillità e purezza ha in sé qualcosa di dinamico e inestinguibile: la natura non cessa di produrre la vita. Rikyu identificò questo rinnovamento e questa continuità nel wabi. Dobbiamo coltivare e affinare questa sensibilità particolare, man mano che procediamo nella Via del Tè.

Sen Sotan, chiamato anche «Wabi Sotan», fu invitato un giorno a prendere il tè dal daimyo Nagai Shinsai. Poiché Sotan era considerato un uomo di wabi, il daimyo fece preparare un pasto estremamente leggero. Il giorno seguente rese visita a Sotan per chiedergli cosa pensasse della riunione del Tè. Sotan rispose che l’esperienza era stata molto piacevole ma che, dato che si trattava della riunione del Tè di un daimyo, essa non era conveniente alla posizione sociale di Shinsai. Aveva commesso un errore immaginando di poter raggiungere gli ideali del wabi affettando povertà.

Qualche tempo dopo, Shinsai invitò ancora Sotan. Pensando che Shinsai avesse compreso cosa fosse il wabi, Sotan si fece accompagnare da un povero imbianchino. Tra varie squisitezze si trovava un piatto delicato: una carpa di acqua dolce. Sotan, notando che l’imbianchino mangiava assai poco, gli fece capire che, poiché tali festini non gli erano abituali, non aveva motivo di mostrare indifferenza, ma poteva mangiare quanto voleva.

Né il ricco né il povero avevano compreso il wabi, dal momento che avevano pensato di dover assumere un atteggiamento che non era il loro.

 

 

 


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