Premessa
1. Uomini e dèi
2. Lo spazio e il tempo
3. L’uomo e la natura
4. Il segreto dello yogin
5. L’India e la storia
6. Famiglia e società
7. La donna e l’amore
8. Morte e liberazione
9.Dolore e salvezza
10. Il gusto del bello
PASSI SCELTI
I capitoli che costituiscono questo libretto riprendono con poche aggiunte e modifiche i contenuti di una serie di articoli apparsi sul quotidiano di Udine «Messaggero veneto» nel corso del 1989 (l’anno del penultimo Kumbha-melâ di Prayâga), nel periodo in cui tale giornale visse una delle sue stagioni più felici, grazie soprattutto all’apertura culturale dei suoi dirigenti; e la «terza pagina» contribuì certamente a farne, in quegli anni, uno dei migliori della sua categoria.
L’intento di quegli articoli era di delineare a beneficio dei lettori i tratti salienti della civiltà dell’India in modo semplice e accessibile, dando il giusto spazio alla componente «religiosa» di quella cultura, che è senza dubbio dominante, ma senza trascurare le altre.
L’India è certamente cambiata nella dozzina d’anni che sono trascorsi da quella data, ma è rimasta nel medesimo tempo e per molti aspetti fedele alla propria cultura tradizionale: la sua eccellenza informatica e le sue conquiste spaziali e nucleari, infatti, coesistono con la sopravvivenza dei lavacri di purificazione che si compiono nei guadi sacri (e il Kumbha-melâ di Prayâga del 2001 ne è stato una prova evidente) e con la continuità dei molti atti di valore rituale, che sottolineano un rapporto stretto e peculiare con il sacro, mentre il processo inarrestabile della globalizzazione è riuscito solo a scalfire - e, per ora almeno, in modo superficiale - i costumi tradizionali tuttora praticati, specialmente nei suoi innumerevoli villaggi; e la frenesia che si accompagna inevitabilmente alla diffusione rapida della motorizzazione e al progresso delle telecomunicazioni trova un suo contrappeso nella lentezza arcaica di gesti e movenze, le cui origini spesso non ci è neppure possibile rintracciare.
Dodici anni, del resto, sono il simbolo tradizionale di un ciclo cosmico, alla fine del quale il mondo riprende la sua vita, rinnovato - è vero - ma anche strutturalmente ed essenzialmente ripetitivo. In fondo non siamo altro che quello che siamo stati e la vita dell’umanità non è che una continua replica, pur nella diversità delle apparenze, di uno spettacolo già rappresentato. Secondo il pensiero tradizionale brahmanico, un intero ciclo cosmico dura, per gli uomini, qualche milione di anni, ma il tempo non scorre con la medesima velocità per tutti gli esseri e occorre moltiplicare per mille volte quest’immensa durata per formare un solo giorno della vita di Brahmâ, il Dio che presiede alla manifestazione dell’universo. Alcune decine di migliaia sono i giorni di un’intera vita di Brahmâ, che dura ben cento anni, e tuttavia lo stesso Brahmâ vive molte vite nel tempo che Shiva impiega per sbattere le palpebre! Si potrà mai quantificare un numero di anni che corrisponda anche a una sola movenza di quella danza con la quale lo stesso Shiva scandisce il ripetersi delle infinite esistenze del mondo?
Sullo sfondo di questa visione, che sembra voler aiutare l’uomo ad accostarsi all’idea dell’eternità di Dio, un periodo di dodici anni umani, pur con la sua determinante valenza simbolica, può conservare per uno hindû la fissità del giorno di ieri che è appena trascorso e che si sta ripetendo nell’oggi, apparentemente così diverso e tuttavia uguale.
Ecco perché in queste pagine, che è stato necessario aggiornare solo in minima parte, il lettore potrà trovare qualche eco e, nel medesimo tempo, qualche chiave di interpretazione dell’India di oggi così come dell’India di sempre.
Stefano Piano
Torino, gennaio 2002
1
Una delle esperienze che si fanno più frequentemente in India, specialmente quando si visita per la prima volta quel grande paese, e ancor più se ci si trova in uno dei molti luoghi santi con le loro folle immense di pellegrini, è una sorta di smarrimento: è la sensazione, a volte sgradevole, di una perdita progressiva e inarrestabile della propria identità personale. Immersi in una realtà dai mille colori, odori, sapori, suoni, rumori confusi e assordanti, circondati e quasi travolti da migliaia di volti sconosciuti, si ha talvolta la netta sensazione della propria fragilità e della propria pochezza, di creature come tante, troppe altre, rapite in un turbinio caleidoscopico di forme e di apparenze oltre ogni immaginazione. Si giunge perfino - e l’esperienza è senza dubbio insolita - a provare una sorta di saturazione dei sensi, diventando incapaci di figurarsi ancora con la mente un volto famigliare e amico, un’immagine qualsiasi, che ci parli del «nostro» mondo, di un orizzonte esperienziale conosciuto e che possa costituire come un’ancora di salvezza nell’oceano tempestoso di un frenetico divenire.
Se si è provata anche solo una volta questa sensazione, si può capire più facilmente come l’animo indiano, di fronte a una molteplicità così esasperata delle apparenze terrene, abbia cercato con tutte le sue forze l’esperienza opposta dell’unità, della semplicità, del perfetto isolamento, e abbia finito per trovarla al termine di un percorso «religioso». L’indagine ha preso le mosse dalla parola sacra e, in particolare, dalla sillaba mistica OM, che gli antichi veggenti considerarono il «seme» di ogni preghiera, il «suono» per eccellenza, il fonema inalterabile, l’essenza imperitura di tutti i suoni. Fu così che la parola di verità contenuta in ogni versetto dei testi sacri del Veda (l’antica «Sapienza»), chiamato mantra, o anche bráhman, costituì la base di quella speculazione che portò all’idea dell’Assoluto (il neutro Bráhman, appunto) come pura trascendenza silenziosa, suono non udibile, essenza sottile che permea il cosmo intero e fondamento spirituale (âtman) e radicale dell’essere, di ogni forma di vita e di ogni singola persona.
Quest’idea dell’unità dell’Essere non è meno esasperata di quella molteplicità dalla quale l’uomo intendeva fuggire, giacché - almeno secondo una delle più autorevoli scuole di pensiero indiano - quella del Vedânta - solo il Bráhman esiste e tutto il resto non è che un’apparenza vana, illusoria, frutto di mâyâ, cioè del potere di auto-nascondimento dell’unica Realtà. Se da una parte questa concezione può portare il mistico alla sublime consapevolezza della propria identità con il Tutto (aham brahmâsmi, «io sono il Bráhman»), dall’altra non soddisfa le esigenze della pietà popolare, che ha bisogno di instaurare col divino un rapporto personale fra un «io» e un «Tu».
È così che si perviene all’idea di Dio come persona divina, come supremo Signore (Ishvara) dell’universo; a ricoprire questo ruolo, di solito è Visnu, il dio del sacrificio e dell’ordine universale e morale, o Shiva, il dio degli asceti signore dello yoga e, nello stesso tempo, il danzatore cosmico che periodicamente emette da sé e in sé riassorbe i mondi, o ancora la Devî, la Grande Dea, raffigurata come una vergine guerriera che travolge e distrugge le forze del male, mentre Brahmâ, come si usa scrivere il nome maschile Brahmán, non assume le caratteristiche di Signore supremo, ma si limita a rappresentare la funzione creatrice di Colui che di volta in volta è adorato come Dio.
Per le scuole non dualiste, Dio è semplicemente il Bráhman stesso, mentre per quelle dualiste Egli rappresenta l’Assoluto in quanto posto in relazione con il mondo; in ogni caso la suprema figura divina - sia essa Visnu, o Shiva, o la Devî - è concepita come un Dio di grazia, che instaura col suo devoto un rapporto intenso di amore e di partecipazione (bhakti) e si fa garante della sua salvezza, intesa come liberazione dalla finitezza e dal divenire.
Per moltissimi hindû - e, in particolare, per i vaisnava della corrente Bhâgavata, la figura divina ideale è quella di Krsna, una «discesa» terrena (avatâra) di Visnu elevata - come anche quella di Râma - al rango di divinità suprema: il suo insegnamento immortale è contenuto nell’opera più nota in Occidente di tutta la letteratura religiosa dell’India, la Bhagavad-gîtâ. Nel VII canto di questo «poema celeste» così Krsna si presenta ai suoi devoti: «Io sono l’origine e la fine del mondo; non c’è nulla che sia al di sopra di me; tutto quanto è infilato in me come una serie di gemme in un filo. Nelle acque io sono il gusto, nel sole e nella luna sono la luce, in tutti i Veda io sono ciò che risuona, parola sono nello spazio, virilità negli uomini; odore io sono nella terra, fulgore nel fuoco, in tutte le creature la vita, l’ardore ascetico nei penitenti. Sappi ch’io sono il seme di tutte le creature, l’intelligenza degli intelligenti, degli uomini nobili la nobiltà, dei forti la forza…», e aggiunge più avanti: «Quanto a coloro che mi adorano con devozione, essi sono in me e in essi io sono».
Se questa è, dunque, l’idea di Dio che gli indiani hanno, almeno a partire dal II secolo a.C. - probabile data di composizione della Bhagavad-gîtâ - come è possibile che viaggiatori e missionari delle epoche più diverse si siano fatti l’idea di un popolo assolutamente politeista e idolatra?
Il fatto è che, accanto alla dottrina del Bráhman, è sempre esistita in India l’idea che il Supremo senza-forma potesse assumere forme infinite e, con essa, anche un’altra idea, quella di una sorta di onnipresenza del sacro, concepito come una forza misteriosa che pervade ogni aspetto della natura e della vita. È avvenuto così che, come dalla tensione verso l’uno è nata l’idea di un Dio personale unico Signore di tutto l’universo, così dall’esperienza del molteplice si è sviluppata la credenza in una pluralità pressoché infinita di ierofanie, di manifestazioni di potenze divine (i deva del Veda) che sono state celebrate in termini antropomorfici, dando origine a un grandissimo numero di dei e di dee, che si presentano a noi - per dirla con Giuseppe Tucci - come «simboli dei vari momenti e modi traverso i quali l’uno si attua nelle cose».
Ma, come già ammoniva un celebre inno del Rgveda, gli dei sono al di qua del creato; essi fanno parte, né più né meno che l’uomo, del mondo della natura, del mondo cioè che muta e che passa, e che un abisso invalicabile separa dal mondo dell’Essere. Ciò che esiste è solo il Bráhman, o, se vogliamo, solo Dio: tutto il resto è frutto di un sogno o di un miraggio, è illusione, è mâyâ. Come tutte le creature, compresi gli uomini, sono soggette a una sequela ciclica di nascite e di morti nella dimensione relativa del divenire, così anche gli dei. Gli hindû lo sanno, e di essi si servono per appagare i propri desideri e per far fronte ai propri bisogni, vincolandone la volontà alla propria attraverso il rito e la «parola», che del rito è componente essenziale, con tutta la sua magica potenza. Sono gli dei stessi, infatti, che desiderano i sacrifici loro offerti dagli uomini; ne hanno bisogno, giacché sono il loro cibo; ma il desiderio, si sa, è la vera ragione della permanenza nel divenire…
Anzi, agli dei manca addirittura, nei confronti degli uomini, la straordinaria capacità, solo umana, di spogliarsi del desiderio e di proiettarsi nella dimensione senza fine dell’Essere, infrangendo così la catena del rinascere e del rimorire.
A queste cose ho pensato spesso, mentre mi aggiravo nella vasta piana di Khajuraho o fra le imponenti costruzioni dei luoghi santi dell’India del Sud. Le pareti esterne degli edifici di culto sono letteralmente ricoperte di sculture che raffigurano gli dei; sono avatâra di Visnu, come il pesce, il cinghiale, il nano, l’uomo dalla testa leonina, Râma col suo arco, Krsna col suo flauto capace di incantare migliaia di mandriane; qui si vede ancora Visnu che salva l’elefante attaccato da un coccodrillo, là Shiva che uccide il demone-elefante; qui la Dea trafigge il demone-bufalo, là il popolare Hanumân dall’aspetto di scimmia vola in aiuto di Râma, là ancora Shiva scocca la micidiale freccia contro Tripura… Lo sguardo si smarrisce fra tante figure, seducenti nelle loro forme divine, che dalla pietra narrano soprattutto agli umili, a coloro che nei templi non sono neppure ammessi, miti e leggende di tempi e di mondi lontani…
Se poi si varca l’ingresso (cosa che a noi europei è molto spesso vietata), ci s’imbatte subito nelle immagini sacre che sono fatte oggetto di culto e di venerazione. Già ai lati dell’ingresso ci salutano due dee, Gangâ e Yamunâ, che rappresentano i due principali fiumi dell’India settentrionale e purificano con la loro presenza il visitatore, alla stessa maniera che le loro acque possono distruggere tutti i peccati di colui che in esse s’immerga con devozione; poi ecco, in un canto, le immagini dei nove corpi celesti e poi via via tutti gli Dei (non importa a quale di essi il tempio sia dedicato, e sono comunque cinque quelli ai quali il culto è tradizionalmente dovuto: Visnu, Shiva, la Dea, Ga¿eça con la sua grossa testa di elefante e Sûrya, il Sole). Le immagini si susseguono alle immagini: sono chiamate mûrti, e ciascuna di esse, dopo che vi sia stata invocata la presenza divina, può essere adorata. In realtà, ogni hindû non adora Visnu, o Shiva, o la Devî semplicemente, come si dice nei manuali di molti indologi, ma quella fra le loro mûrti che è installata nel tempio che egli abitualmente frequenta e che è pertanto la sua divinità d’elezione (ista-devatâ): così lo stesso Visnu sarà una trimûrti, quella di Jagannâtha, nel santuario di Purî, in Orissa, e sarà Varadarâjasvâmin a Kâñcî, Venkatesvara a Tirumalai, Ranganâthasvâmin o Nârâyanasvâmin a Shrîraægam e Sundararâja Perumal ad Alagarkoil… e Shiva sarà Sundaresvara a Madurai, Natarâja a Cidambaram, Râmanâthasvâmin a Râmesvaram, Visvesvara a Benares (in sanscrito e hindî: Vârânasî), Lingarâja a Bhuvanesvara, Sundareçvara a Madurai… e la Devî sarà Mînâkßî ancora a Madurai, Kâmâksî a Kâñcî, Annapûrnâ a Vârânasî, Durgâ Mahisâsuramardinî a Maisûr… e ciascuna di queste «forme», di queste mûrti, sarà considerata dai devoti la sola, l’unica, l’ineguagliabile immagine di Dio o della sua Potenza (Shakti). In occasione delle feste religiose, vengono confezionate appositamente immagini che serviranno solo in quell’occasione e che verranno abbandonate alla corrente di un fiume (come l’icona di Durgâ in occasione della durgâ-pûjâ di Râmnagar), o immerse nel mare (come l’immagine di Ganesha o Vinâyaka a Mumbaî), con un rituale di commiato chiamato visarjana, appena la festa sarà finita.
Ma allora appare chiaramente che anche i più semplici fra gli hindû «idolatri» ben sanno che l’immagine non è che un pezzo di pietra o di legno e che soltanto l’uomo con la sua preghiera può evocare in essa la misteriosa presenza del sacro, facendone uno strumento di incontro con la potenza divina.
Solo nelle celle più segrete dei templi le immagini sono stabili e vengono intronizzate una sola volta all’atto della consacrazione dell’edificio sacro; nel caso di Shiva si tratta quasi sempre del sacro linga, a un tempo simbolo fallico, «uovo» cosmico e «segno» tangibile ma aniconico della presenza di Lui. Cinque liæga, in altrettante città-tempio del profondo Sud, sono particolarmente famosi; si richiamano ai cinque elementi di cui il mondo è costituito: a ospitare quello di «spazio», nel sanctum del grande tempio di Cidambaram, è una cella vuota…
4
Il sole al tramonto disegnava lunghe ombre, mentre le acque della sacra Tungâ si coloravano d’improvviso di riflessi rossastri nella luce tersa della sera, là dove la corrente del fiume rallentava un poco la sua corsa - quasi volesse favorire il bagno lustrale degli asceti silenziosi - nei pressi del tîrtha o «guado sacro» di Shrægeri, uno dei luoghi più santi dell’India. Il verde cupo delle montagne, in quell’estremo lembo meridionale del Karnâtak, sembrava d’un tratto ammantarsi di una lucentezza nuova e quasi strana, mentre il sole sempre più rosso annunciava la fine di una limpida giornata di primavera. Il silenzio era grande sulle scalinate degradanti verso il fiume: era il momento della sandhyâ, dell’abluzione della sera, un momento la cui mutevolezza sottolinea quell’indefinibile trapasso dal giorno alla notte che il pensiero filosofico-religioso dell’India ha assunto quale simbolo del Vero. Qua e là, giovanissimi brahmacârin, nella loro veste bianca di monaci-fanciulli destinati a diventare per sempre dei samnyâsin (il nome significa «colui che ha scelto la rinuncia»), ripetevano con diligenza, a bassa voce, i sacri testi in sanscrito che essi erano venuti ad apprendere, secondo una tradizione molto antica, nel celebre monastero fondato dal grande maestro Shankara oltre 1300 anni fa. Ritto al centro della corrente del fiume, immobile, le gambe immerse nell’acqua purificatrice sino alle ginocchia, il viso rivolto verso il disco rosso del sole, uno di quei giovinetti era immerso in una meditazione profonda. L’osservai a lungo, e non potei percepire il minimo movimento di lui: quando mi allontanai per rientrare nella cameretta che mi era stata riservata nell’eremo, egli era ancora là, silenzioso e calmo, appagato, concentrato sulla vera natura del proprio «Sé».
Egli aveva forse trovato la risposta alle domande che ogni essere umano si pone nella propria vita: «Chi sono, donde sono venuto, dove andrò?». Le testimonianze letterarie che sono giunte sino a noi dimostrano che questo tipo di ricerca aumentò, nell’India antica, con l’aumentare delle tendenze ascetiche aventi per scopo la scoperta della verità e delle radici più profonde del proprio essere. Si tratta di una tendenza che visse il suo periodo più felice attorno alla metà del I millennio a.C., un periodo fecondo di nuove esperienze, fra le quali quella di Siddhârtha Gautama, detto il Buddha (il «Risvegliato») non fu, almeno all’inizio, che una fra tante.
Questi asceti indagavano anzitutto su una serie di rapporti e di equivalenze fra le forze psico-fisiche e le forze cosmiche, giungendo gradualmente a identificare il respiro vitale col vento, la parola col fuoco, la vista col sole, l’udito con le direzioni dello spazio, la mente con la luna; e fu proprio attraverso l’idea del «soffio» della vita veicolato dal respiro (prâna) che si giunse a definire il proprio Sé, l’intima natura di ogni uomo, come un’entità spirituale considerata quale soggetto di conoscenza e alla quale si diede il nome di âtman, lo «spirito», l’unica realtà.
Non quindi il nostro corpo sensibile e transeunte, non la materialità sottile della nostra psiche, ma l’âtman (spirito), chiamato anche purusa, fu concepito come reale, e gli furono attribuite essenza (sat), intelligenza (cit) e felicità (ânanda). Si fece strada la convinzione che tutta l’esperienza psico-mentale non appartenesse allo spirito, ma alla Natura, ovvero che essa fosse frutto di un miraggio, o di un’illusione (mâyâ), mentre i vari condizionamenti che l’essere umano subisce in questo mondo e che sono inevitabilmente fonte di sofferenza e di dolore indussero gli asceti a cercare col massimo impegno un’esperienza che si collocasse al di là di quegli stessi condizionamenti. Le «visioni» della realtà che fornirono le basi metafisiche e cosmologiche a questo tipo di ricerca furono quella non-dualista del Vedânta e quella dualista del Sâmkhya e il metodo per realizzare lo stato perfetto, privo di ogni condizionamento, prese il nome di Yoga.
Non c’è forse vocabolo espresso dalla cultura tradizionale dell’India che sia più conosciuto di questo nel mondo occidentale: si tratta però di una conoscenza che, nella maggior parte del casi, si limita agli aspetti più esteriori e banali di una serie di tecniche psico-fisiche intese spesso come una semplice «ginnastica orientale» e che, al contrario, dovrebbero coinvolgere tutto l’essere, a cominciare dalla sfera del suo comportamento morale. Lo Yoga è un’austera disciplina del corpo e della mente che - come conferma l’etimologia stessa della parola, connessa con le parole latine iugum e iungere - mira a «soggiogare», è vero, le forze fisiche e soprattutto psichiche dell’individuo, ma lo fa col solo scopo di condurlo alla propria «unione» con la realtà, alla consapevolezza della propria identità spirituale, al superamento di ogni condizionamento e all’esperienza finale di una felicità ineffabile.
La pratica dello Yoga, qui da noi, si esaurisce quasi sempre nell’esecuzione di esercizi di controllo della respirazione e nell’assunzione di una serie di posture del corpo alle quali si attribuisce un valore terapeutico, specialmente nei confronti dei mali più comuni della vita moderna, giungendo al massimo a compiere i primi passi sulla via della concentrazione e della meditazione. Ma le tappe di questa disciplina antichissima - se è vero che se ne trovano tracce nei reperti della civiltà dell’Indo, fiorita nel III millennio a.C. - sono assai più numerose e complesse. Patañjali, autore del testo «classico» per eccellenza sullo Yoga, gli Yoga-sûtra (I precetti aforistici dello Yoga), suddivide queste tappe in otto «membra» (anga) di quel corpo che è la disciplina unitiva. La superficialità occidentale ha sempre avuto la tendenza a sorvolare sulle prime due (yama, divieti, e niyama, osservanze), che sono forse, al contrario, le più importanti, in quanto costituiscono i preliminari inevitabili, ma non certo scontati, di qualunque tipo di ascesi: se solo si rifletta su di esse, si scoprirà di essere tutt’altro che pronti a passare alla pratica delle successive.
I «divieti» sono cinque: non uccidere, non mentire, non rubare, astenersi dall’attività sessuale, astenersi dall’avarizia. Troviamo, fra queste norme, i fondamenti di tutto l’insegnamento etico dell’India antica; esso prende le mosse dal valore supremo dell’innocenza (ahimsâ), ovvero della capacità di vivere senza nuocere ad alcun essere vivente - una norma che assume oggi le tonalità di un avvertimento profetico, in un momento in cui l’uomo è addirittura pronto a uccidersi per uccidere e si accorge inoltre di aver «ucciso», nella follia del proprio egoismo, la natura - e tocca in seguito delle semplici verità, all’inosservanza delle quali si deve gran parte del disfacimento morale del nostro tempo. Si pensi alla menzogna e al furto, diventati in molti ambienti vero e proprio «metodo» nella conduzione dei rapporti umani, politici, economici e sociali; si pensi alla capacità rara - e quanto benefica in tutti i sensi - di controllare e tenere a freno i propri impulsi sessuali, di fronte a una realtà come quella del mondo contemporaneo, in cui la libertà è diventata licenza e sfrenatezza senza limiti; si pensi infine all’invito a non attaccarsi ai beni terreni, che sembra addirittura incomprensibile là dove si è spesso disposti a sacrificare qualsiasi valore sull’altare del benessere materiale o di un effimero successo personale.
Eppure la saggezza dell’India, mai stanca di ripetere le verità più antiche, continua a proporci questo itinerario di «purificazione» dell’umano agire che è premessa indispensabile del successivo cammino. Un cammino che continua con le cinque osservanze: pulizia esterna e, soprattutto, interna dell’organismo, che comporta il consumo di cibi «puri» e consente di lavar via anche le impurità della mente; appagamento, che consiste nel non ampliare la sfera delle necessità dell’esistenza, contentandosi con serenità di una vita più semplice possibile; ascesi, cioè capacità di sopportare gli opposti disagi; studio delle sacre scritture e dei testi dottrinali; impegno a rapportare a Dio tutte le azioni.
Ecco la solida base su cui si può fondare la vera pratica dello Yoga; lo yogin (così si chiama ogni adepto) dovrà assumere una posizione salda, confortevole e salutare (âsana) e imparare poi a guidare la propria energia vitale attraverso il controllo del respiro (prânâyâma), attuando nel proprio organismo i ritmi propri del sonno e sottraendo gradualmente la propria attività sensoriale al dominio degli oggetti esterni. Gli âsana e il prânâyâma sono i due aspetti della disciplina la cui conoscenza e la cui pratica sono diventate oggetto, in modo particolare, dello hathayoga, cioè di quella branca dello Yoga che, soprattutto in epoca medievale, ha ispirato in India molte scuole di asceti miranti a realizzare in questa vita e con il proprio corpo (nell’ambiente gelido e ostile dello Himâlaya), il sogno seducente e antico dell’immortalità. Oggi, nelle palestre di molte delle nostre città, è ancora quel medesimo hathayoga che aiuta molte persone a ritrovare una consapevolezza perduta: «Io non sono questo mio corpo, io non sono questa mia mente…».
Quello che potremmo chiamare l’iter psicofisiologico dello Yoga si può considerare così concluso; da questo momento in poi il cammino consiste in un progressivo affinamento dell’attenzione, che passa attraverso la concentrazione (fissazione del pensiero su un solo punto) e la meditazione profonda (dhyâna) per giungere all’obiettivo finale, il samâdhi; è questo uno stato di perfetto «isolamento» (kaivalya) assai difficile a definirsi, che uno dei maggiori studiosi dello Yoga, Mircea Eliade, ha tradotto con il neologismo «en-stasi» e che consiste in una sorta di attenzione assoluta della mente senza però che vi sia alcun oggetto al quale quest’attenzione possa applicarsi: chi riesca a rendere duraturo questo stato è un perfetto, un siddha; egli ha percorso a ritroso le tappe dell’evoluzione della natura e ora si colloca al di fuori delle limitazioni di tempo e di spazio; dal molteplice, egli è ora ritornato all’uno e, in uno stato di splendido, assoluto isolamento dal mondo, dalle cose, dalle sensazioni terrene, dimentico del suo «io», ha ritrovato il proprio vero Sé, una pura essenza, una realtà spirituale che solo un inganno dei sensi gli aveva fatto confondere con la psiche e con i moti transitori della mente.
Nell’immensa quiete del crepuscolo della sera, il giovane brahmacârin ad altro non era intento che a questa meta sublime.
9
Stavano costruendo una fognatura, alla periferia di Bombay. Grossi tubi di cemento erano appoggiati lungo la strada, ai bordi di uno scavo appena cominciato e che sembrava essersi arrestato senza un motivo. Una scena, in verità, per nulla estranea al mio abituale orizzonte mentale: eppure qualche cosa d’insolito mi colpì, dapprima senza che ne avessi chiara coscienza, e m’indusse a osservare con più attenzione. I tubi erano abitati! No, non da topi o da qualche animale randagio, ma da esseri umani. Persone come noi, come me, intere famiglie che avevano fatto di un segmento di tubo da fognatura la propria casa. Si vedevano le donne con i bambini più piccoli e gli anziani, seduti sulle pareti ricurve di quel tanto provvisorio quanto incredibile riparo, mentre probabilmente gli uomini e i ragazzi più grandi erano «usciti» in cerca di qualche cosa da mangiare…
Ancora una volta, come tante altre, l’India mi accoglieva con un’immagine nuova - accanto a quelle già note, anzi ormai fruste e fin troppo famigliari - della sofferenza umana; una sofferenza che emerge, come dato inconfondibile e irrefutabile della realtà indiana, non solo dalle situazioni di terribile miseria osservabili nelle baraccopoli delle grandi città industriali, ma anche da quella letteratura sapienziale che ha conservato i detti di una saggezza fra le più antiche del mondo. Eccone un esempio, nella traduzione di P. E. Pavolini:
«Alzati! per un momento porta tu, o amico, il peso della mia miseria; mentre io, già da un pezzo stanco, goda le gioie che ti vengono dalla morte». Così disse, correndo in un cimitero, un povero a un morto; ma questi, avendo conosciuto che meglio della miseria è la morte, stette zitto.
Ma fu sempre così? O non ci fu invece un momento, un periodo storico preciso, nel quale cominciò a farsi strada nelle menti dei pensatori indiani l’assioma del dolore universale? E quando poterono per la prima volta verificarsi eventi tali che giustificassero una visione così marcatamente pessimistica dell’umana esistenza? È difficile dare una risposta a queste domande, anche a causa del ben noto e quasi totale disinteresse degli indiani per la storiografia; si può tuttavia affermare con sicurezza che, attorno alla metà del I millennio a.C., dovettero verificarsi, nelle aree dell’Asia occidentale e meridionale, delle trasformazioni profonde, legate al sorgere di grandi imperi, le quali portarono inevitabilmente con sé tutte le conseguenze negative di una crisi altrettanto profonda. È l’epoca del «silenzioso degli Shâkya», cioè di colui che, dedicatosi alla ricerca interiore del sommo bene e pervenuto alla visione di una verità tanto semplice quanto terribile, venne per questo chiamato un Risvegliato, un «Buddha». E certamente non poté non essere testimone di grandi sofferenze quel giovane principe, se questa è la scoperta alla quale pervenne con dura fatica e grande impegno: illusoria - e sostanzialmente dolorosa - è l’intera esistenza umana su questa terra: sarvam duhkham, «Tutto è dolore». Al Risvegliato fa eco un altro grande pensatore dell’India antica, Patañjali, fondatore di quella tendenza filosofica, di quella «visione» della realtà che è conosciuta con il nome di yoga, quando afferma, nei suoi celebri «Aforismi», che «tutto non è che sofferenza per il saggio» (duhkham eva sarvam vivekinah, Yogasûtra II,15). Tutto è dolore perché tutto esiste nel tempo, tutto ha una durata, tutto passa; la sofferenza è una caratteristica intrinseca della transitorietà. Se questo è vero, l’assenza di dolore non può che essere legata alla non-esistenza nel tempo; in altre parole, essa implica l’eternità, e l’uomo deve dimostrarsi capace di abolire la sofferenza, proiettandosi interamente verso una realtà assoluta che non passa ed esprimendo la sua ansia di eternità attraverso una negazione totale della vita.
Sappiamo che gli hindû credono nel samsâra, cioè nel perenne rinnovarsi delle esistenze umane, ogni volta determinate dalle azioni da ciascuno compiute; la vita non è altro che una successione di atti, ed è proprio questo agire che origina delle potenzialità misteriose, legate al frutto di ogni azione, che deve «maturare» inevitabilmente, prima o poi. In altre parole, è assolutamente inevitabile che si raccolga quello che si è seminato. Le sofferenze che ciascuno deve sopportare in questa vita non sono quindi imputabili al cieco agire di un destino perverso, né a forze soprannaturali che condizionino le umane vicende; esse non sono altro che il prodotto, giunto a maturazione, di azioni compiute in questa o in precedenti esistenze: in altre parole, il dolore non è che «retribuzione».
A questo punto viene spontaneo domandarsi perché mai l’uomo - nonostante tutto - continui ad agire, pur sapendo che così costringerà se stesso a vivere e vivere ancora, a rinascere in sempre nuovi corpi, miseri involucri di rinnovato dolore destinati a essere divorati dalle malattie, dalla vecchiaia e dalla morte.
Anche questa domanda ha una sua risposta, e la risposta è che l’uomo agisce a causa della sua ignoranza (avidyâ). L’ansia insopprimibile della liberazione (mumuksutva) dal ciclo perennemente rinnovantesi di esistenze transeunti, e per questo sostanziate di sofferenza e di pena, deve cominciare di qui il suo itinerario di salvezza. Bisogna anzitutto annientare l’ignoranza, bisogna cioè porre fine a quello stato di «confusione» esistenziale in conseguenza del quale si scambia ciò che è permanente ed eterno dentro l’esperienza, cioè lo spirito (âtman), con ciò che invece è transeunte e irreale (la propria entità fisica e psichica), ciò che è puro con ciò che è impuro, ciò che è gioia (sukha) con ciò che è angoscia (duhkha). Si tratta, in una parola, di esorcizzare una falsa identificazione; e poi bisogna agire, ma occorre farlo - come insegna il Dio Krsna nella Bhagavad-gîtâ (Il canto del Glorioso Signore) - senza desiderio né invidia, non tanto per godere i frutti del nostro agire, quanto piuttosto per l’azione in se stessa, come ci viene dettata dal nostro dovere: bisogna «agire come se non si agisse». Solo in questo modo l’azione avrà il medesimo valore di un rito sacrificale e sarà assolutamente priva di peccato.
Nella visione indiana della vita il dolore è pertanto una necessità ineluttabile, ma non definitiva. Possono porvi fine tanto l’uomo semplice quanto il sapiente: il primo ci viene presentato attraverso i racconti edificanti dei testi tradizionali hindû, che dedicano molto spazio alla devozione e alla pietà e sono dominati da una concezione di Dio come Signore compassionevole che instaura col suo devoto un rapporto di amore, di partecipazione e di grazia. Come è vero che non le opere salvano, ma la consapevolezza, che la gnosi è quindi superiore all’agire, e che - per usare le parole di Giuseppe Tucci - il possesso della verità è al di sopra del bene e del male, così anche la grazia di Dio si presenta come una forza che può piegare l’ineluttabilità della legge del karman, strappando in un istante l’uomo al suo destino di pellegrino nel samsâra. Basta un piccolo atto di devozione sincera, basta un nome pronunciato quasi per caso, basta essere toccati da un granello di sabbia del sacro Gange che il vento ha sollevato e portato lontano perché si attui all’improvviso la redenzione: i peccati sono cancellati e la grazia divina solleva il devoto nei mondi celesti, preparandolo al passo finale verso quel luogo dello Spirito dal quale non c’è più ritorno.
Emblematiche sono, a questo proposito, alcune storie «antiche» (purâna) come quella di Ajâmila il peccatore, che, già afferrato per i capelli dai servi del Dio della morte, si salvò chiamando a gran voce il figlioletto che aveva lo stesso nome del Signore supremo, o come quella del povero brahmano di nome Bhadramati, perfetto conoscitore dei sacri testi, sul quale gravava la responsabilità di una famiglia troppo numerosa e perennemente tormentata dalla fame. Egli ben sapeva che il povero è nel mondo «come un uccello con le ali tagliate, come un albero disseccato, come un lago senz’acqua, come un serpente senza denti»; pensò quindi a qualche osservanza religiosa che potesse procurargli quello che gli mancava e concluse che il dono di terra, essendo considerato dai sacri testi la migliore delle elemosine, faceva al caso suo, dal momento che offrire a un altro la possibilità di compiere tale atto meritorio equivale a compierlo. Rivoltosi a un brahmano facoltoso, gli chiese in dono cinque braccia di terra che poi, a sua volta, donò a persona degna e pia. Il risultato di questa successione di doni fu portentoso, giacché grazie a esso il pover’uomo fu accolto in paradiso insieme coi suoi cari; ritornò poi sulla terra dove visse circondato da ogni opulenza, finché Visnu non gli concesse infine di incamminarsi sulla via della liberazione.
La grazia divina, nell’universo devozionale della bhakti, produce sempre eventi mirabili e, in particolare, può anche farsi garante della soppressione del dolore e della sofferenza. Ma può e sa porvi egualmente fine l’equanimità del saggio, di colui che possiede il senso dell’effimero e della vanità delle cose, di colui che è capace di realizzare il distacco e la rinuncia (vairâgya). Per lui che ha percorso le tappe della morale ascetica, che si è astenuto dall’offesa, dalla falsità, dal furto, dal sesso e dal possesso e ha praticato la pulizia esterna e interiore, la contentezza, la pazienza, il silenzio e l’ascesi, per lui la soppressione del dolore coincide con la soppressione del desiderio (kâma), che è la forza che ci fa apparire davanti agli occhi innumerevoli miraggi di felicità e di gioia; egli sa che la felicità è ben altro, o meglio, che c’è una condizione - quella del «liberato» - che vive del respiro del cosmo, anzi, dello spazio al di là del cosmo, nella quale non esistono più il piccolo e il grande, il bello e il brutto, il buono e il cattivo, il piacevole e il doloroso. Egli lo sa, e per questo «non si rallegra della vita, non si rallegra della morte; aspetta soltanto che il Tempo si compia, così come un servo aspetta l’ordine del suo padrone».
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