Hari Prasad Shastri
Il mondo dentro la mente

 


 

INDICE

 

Prefazione

Introduzione

PARTE PRIMA
I DISCORSI DEL SAGGIO VASISHTHA
Primo discorso
Secondo discorso
Terzo discorso
Quarto discorso
Quinto discorso
Sesto discorso
Settimo discorso
Ottavo discorso
Nono discorso
Decimo discorso
Undicesimo discorso
Dodicesimo discorso
Tredicesimo discorso
Quattordicesimo discorso
Quindicesimo discorso
Sedicesimo discorso
Diciassettesimo discorso

PARTE SECONDA
LA STORIA DELLA REGINA CÛDÂLA
Capitolo Primo
Capitolo Secondo
Capitolo Terzo
Capitolo Quarto
Capitolo Quinto
Capitolo Sesto
Capitolo Settimo

Note

 


 

PASSI SCELTI

 

TERZO DISCORSO

Il venerabile Vasistha continuò:

“Tu devi considerare ogni cosa alla luce degli Shâstra e approfondire il loro reale significato: ricaverai inoltre beneficio dal tuo Maestro, meditando su di essi in cuor tuo e mediante la pratica costante di ignorare il visibile finché perverrai a conoscere l'Uno invisibile.

Tu puoi conseguire questa beata condizione con il distacco dalle passioni, con la conoscenza degli Shâstra e del loro significato, e ascoltando i discorsi dei Maestri spirituali, unitamente al tuo personale convincimento di poter raggiungere un tale stato”.

Râma disse:

“Venerabile Maestro, tu sei il sole del giorno della Conoscenza spirituale, sei un fuoco che brilla nella notte dei miei dubbi, sei la luna rinfrescante per l'arsura della mia ignoranza! Abbi la bontà di dirmi quale di questi due ha maggiore merito, il devoto che vive nel consorzio umano o quello che vive in solitudine”.

Vasistha rispose:

“Entrambi sono anime felici fintanto che s'allietano della pace interiore.

Colui che considera le proprietà e le qualità delle cose come del tutto distinte dallo Spirito, gioisce dentro di sé di una calma tranquillità che è detta samâdhi.

L'uomo la cui mente è illuminata e che è attivo nel mondo, così come il saggio illuminato che siede nel suo romitaggio, sono ambedue nella medesima condizione di quiete spirituale e hanno raggiunto senza dubbio uno stato di beatitudine.

L'attività o l’inattività della mente sono l'unica causa dell'agitazione e della serenità spirituale degli uomini. L'affollarsi dei desideri serve solo a riempire la mente con la vanità della loro natura, che è la causa di tutte le afflizioni mentali: pertanto cerca continuamente di indebolire i tuoi sentimenti mondani.

Quando la mente è tranquilla in conseguenza del suo affrancamento da paura, dolore e desiderio, sicché l'anima si trova in pace, questo stato è chiamato samâdhi.

Le case degli uomini che hanno famiglia, i quali hanno sottoposto a retto controllo le loro menti e hanno bandito da sé ogni sentimento egoistico, valgono quanto le foreste solitarie, le fresche caverne, o i boschi tranquilli, o Râma-jî.

Gli uomini le cui menti hanno conseguito la pace guardano agli splendidi edifici delle città con lo stesso distacco con cui essi considerano gli alberi della foresta. Colui il quale, nel profondo del suo spirito, vede il mondo in Dio, quell'uomo veramente è il Signore dell'umanità!

Il mondo è pura quiete per gli yogin dalla mente controllata; è l'Anima divina che manifesta se stessa tanto nella forma dell’ego quanto nella forma del mondo.

Colui il quale ha conseguito la quiete esteriore e interiore praticando lo Yoga unitamente alla virtù, servendo il Maestro, e vede il mondo come inseparabile da Dio, questi gioisce ovunque del samâdhi; ma chi percepisce differenze e separa il suo ego dagli altri è eternamente alla deriva come fosse in balia delle onde impetuose del mare.

Colui il quale attende ai suoi doveri con gli organi dell'azione, ma ha fissato la sua mente nella meditazione inferiore e non è turbato da gioia o dolore, quest'uomo è detto lo yogin privo di attaccamento passionale.

Colui il quale guarda in perfetta quiete al corso degli eventi mondani che si svolgono o si presentano davanti a lui, e siede sorridendo alle vicende del mondo, quest'uomo è detto lo yogin privo di attaccamento passionale.

L'uomo dotato di un tale distacco spirituale e di una tale serenità di spirito raggiunge la più alta perfezione ed è affatto indifferente riguardo alla sua ascesa o.alla sua caduta esteriore, alla vita o alla morte.

Egli è imperturbato sia che viva lussuosamente nella propria casa ovvero si sia ritirato dalla società civile e viva osservando il silenzio: egli è sempre tutt'uno con se stesso.

La conoscenza dell'estinzione di ogni esistenza in Dio è l’unica cura per quella cecità che consiste nel credere in se stessi come in una unità dualisticamente separata, ed è l’unico mezzo per conseguire la pace mentale.

Come la rimozione dell'errore da parte di chi credeva di vedere un serpente dove non vi era che una fune reca pace e gioia, così l’acquietarsi dell'egoismo nell’âtman dona pace e tranquillità alla mente. Nessun desiderio si accende in un anima, così come nessun seme germoglia dal seno di una pietra, e tali desideri, quali possono di volta in volta sorgere in essa, sono come onde nel mare che si innalzano e ricadono nello stesso elemento.

Tutto è Lui e il tutto che costituisce questo universo, senza divisione o dualità alcuna, è in Lui: Egli è tutt'uno con il Dio supremo. Quando la mente è libera dalla sua instabilità abituale e dall’attività febbrile, essa ritrova la sua antica serenità così come l’onda ritorna alla sua condizione di acqua tranquilla dalla quale essa è sorta.

Le piccole menti sono condotte dalla loro bramosia a vivere in affanni dolorosi, come insetti che vagano nel fango, e il loro attaccamento fa sì che esse provino desiderio soltanto per le cose esteriori, trascurando il supremo âtman che hanno dentro di sé.

O Râma-jî, quando perverrai a scorgere la grandezza del tuo âtman mediante la luce dello Yoga sublime insegnato dall’insigne Manu in persona, scoprirai allora di possedere un’immensità ancora più vasta del ciclo e dell'oceano insieme.

Sappi bene, o diletto principe, che - come il sole non cessa di irradiare la sua luce sull'altro emisfero dopo che è tramontato - così la tua intelligenza continua a risplendere anche dopo che ha compiuto il suo corso in questa vita.

Libera l'elefante - la tua mente - dai ceppi dell’egoismo e dai legami dell'avidità”.

Allorché il venerabile Vasistha ebbe concluso il suo discorso nell’assemblea imperiale, egli si inchinò con reverenza verso tutti gli yogin e i brahmachârin. L'imperatore e i suoi figli offrirono al saggio fiori, acqua, e doni. I deva fecero piovere fiori dall'alto dei cieli e tutti esclamarono: “Jai! Jai! Jai!”.


 

SETTIMO DISCORSO

Il principe Râma disse:

“Dimmi ora, o Signore, come può ottenere la liberazione un uomo ignorante, pigro, il cui livello morale è basso, che non ha mai frequentato gli yogin né ha ricevuto un insegnamento spirituale?”

Vasistha rispose:

“O Râma, l'uomo ignorante, che non ha mai raggiunto alcuno degli stati propri dello Yoga, è trascinato dalla corrente della reincarnazione attraverso centinaia di rinascite, finché gli accade di pervenire alla luce spirituale in una delle sue vite; oppure può succedere che egli, frequentando uomini più virtuosi, provi disaffezione per il mondo: è questo il primo gradino sulla via dello Yoga.

O Râma-jî, distruggi la sensualità! Questo è il primo passo. Che bisogno c'è di usare lunghi discorsi per descriverlo, quando bastano poche parole?

Il desiderio è il nostro maggiore legame: la sua assenza è per noi totale liberazione. Colui il quale nutre forti sentimenti egoistici non sarà mai affrancato dalle pene della vita: ma la negazione di un tale sentimento produce la liberazione.

Coloro i quali sono schiavi del piacere considerano la beatitudine del nirvâna come cosa da nulla. Essi accordano la loro preferenza alla mondanità anziché alla beatitudine finale degli altri: colui che agisce in maniera siffatta è considerato uomo attivo ed energico.

Un tale uomo, dedito al mondo, assomiglia ad una tartaruga, con il collo ritratto nella sua corazza: di quando in quando, tuttavia, essa tira fuori la testa per bere l'acqua salata del mare in cui vive. Così vive un tale uomo, fino a quando, dopo molte rinascite, ottiene una vita migliore incamminandosi verso la salvezza.

Ma colui che riflette sull'inanità del mondo, e sul misero posto che egli vi occupa, non si lascia trascinare alla deriva, giorno dopo giorno, dalla corrente dei suoi doveri terreni.

Quando un uomo comincia a chiedersi in che modo possa liberarsi dalle passioni e attraversare il tumultuoso oceano del mondo, allora è rinsavito.

Colui il quale condanna i divertimenti sciocchi e le meschine attività degli uomini, e che s'impegna in azioni meritorie anziché soffermarsi sulle colpe e sui difetti altrui; l'uomo la cui mente è dedita ad opere utili che non causano sofferenza agli altri; colui che è indifferente a tutti i piaceri e alle gioie del corpo, che fa discorsi amabili e gentili e usa parole appropriate al tempo, al luogo e alle persone cui si rivolge: ebbene, un tale uomo ha compiuto - si dice - il primo passo nello Yoga. Egli si ritiene in dovere di cercare la compagnia di chi è buono e di imitarlo nel pensiero, nella parola e nell’azione.

Egli raccoglie libri sulla filosofia divina e li studia con diligenza; medita poi sui loro contenuti e ne assimila la dottrina che ha il potere di salvarlo da un mondo di peccato.

Egli perviene poi al secondo stadio dello Yoga, che è detto lo stadio della ricerca, e ascolta dalle labbra dei pandita, scelti secondo la tradizione, la spiegazione della Sruti e della Smriti, le regole di un retto comportamento, in che modo meditare e come praticare lo Yoga.

Egli getta via il suo abito esteriore fatto di orgoglio e di vanità, e si libera della gelosia e dell'avidità come un serpente abbandona la sua vecchia pelle. Avendo così purificato la mente, egli attende affettuosamente al servizio dei suoi precettori spirituali e delle persone virtuose, e apprende da essi i misteri della filosofia dello Yoga: perviene quindi al terzo stadio.

Egli impara a fissare la sua attenzione in modo fermo, in conformità degli insegnamenti dello Yoga, e trascorre il suo tempo a conversare di argomenti spirituali e a fare del bene agli altri.

L'uomo saggio, che è giunto al terzo stadio dello Yoga, rimane in questo stato di coscienza, che è libero da oggettività e soggettività.

Egli è libero dalla percezione di sé come soggetto o come oggetto delle proprie azioni.

Egli sa che ogni unione finisce in separazione e che ogni guadagno terreno finisce in perdita; mediante questo convincimento e la pratica continua della meditazione e della virtù egli perviene sicuramente a riconoscere Dio dentro di sé, così chiaramente e con la stessa certezza con cui una persona scorge un frutto sul palmo della propria mano.

La conoscenza del supremo autore della creazione imprime in lui la ferma convinzione che non è l'io, bensì Dio, che fa ogni cosa nel mondo.

Avendo rinunciato al sentimento dell'individualità, un tale uomo non è attaccato a cosa alcuna nel mondo.

La letizia è come un dolce profumo nella mente, e le azioni virtuose sono belle come petali di rosa. Il fiore della discriminazione interiore è dischiuso come un bocciolo di loto dai raggi solari della ragione, e produce il frutto della perfezione nel giardino del terzo stadio della pratica dello Yoga.

Anche la pratica di una parte soltanto di questi stadi del sublime Adhyâtma-yoga è sufficiente per rimettere il cattivo karman passato.

Questi tre stadi, o Râma-jî, sono chiamati gli stati di veglia, poiché in essi lo yogin perviene a percepire le differenze fra le cose.

Un tale yogin diviene degno di venerazione: egli è dedito solo ad azioni virtuose ed è perseverante nell'adempimento dei suoi doveri sociali.

Colui che consacra la sua mente allo Yoga con attenzione ininterrotta dal principio alla fine e vede tutte le cose in un'unica luce, si dice che è giunto al quarto stadio del sublime Yoga.

Allorché l'errore della dualità scompare e la conoscenza dell'unità interiore risplende meravigliosamente, lo yogin è nel quarto stadio dello Yoga e vede il mondo come la visione di un sogno.

Il quinto stadio è di grande gioia, null'altro che gioia della visione di Dio ovunque, o Râma-jî. Lo yogin si eleva a tanta altezza e discendendo di nuovo, mediante la sua mente, nelle regioni inferiori (un gran sacrificio davvero!) serve il proprio Sé negli altri.

Il sesto stadio è quello della liberazione in vita, o Râma-jî: in esso tanto l'unità quanto la dualità scompaiono. Colui il quale raggiunge un tale stadio è colmo di estasi divina all'interno e all'esterno ed è dotato di facoltà superiori. E tuttavia, in superficie, appare privo di valore.

Il settimo stadio non può essere descritto a parole e supera i limiti di questa terra e del cielo. Si dice che esso sia simile alla condizione di Shiva e di Brahmâ”.


 

TREDICESIMO DISCORSO

Il venerabile Vasistha disse:

"Una volta pregai il saggio Bhusunda che ci dicesse in che modo era capace di sfuggire alle mani della morte, mentre tutti gli altri esseri del mondo sono condannati ad essere stritolati dalle sue fauci che tutto divorano.

Bhusunda disse:

“Tu, o signore, che conosci tutte le cose, mi chiedi di dirti ciò che conosci perfettamente? Un tale comando, impartito al tuo servo dal suo Maestro, lo obbliga a parlare, laddove egli avrebbe frenato la lingua.

La morte non distrugge l'uomo che non indossa sul suo corpo i gioielli dei suoi desideri viziosi, come un brigante non uccide il viaggiatore che non ha preziose catene d'oro attorno al collo.

La morte non assale la persona che non è viziata dal veleno della collera e dell'inimicizia, il cui cuore non nutre il drago dell'avidità nella sua oscurità, e la cui mente non è rósa dal cancro delle cure mondane.

La morte non uccide la persona il cui corpo non è infiammato dall'ardente passione dell'attaccamento, la quale, simile a un incendio, riduce in cenere le spighe del buon senso.

La morte non si avvicina all'uomo che fonda la sua verità nel solo Spirito di Dio, immacolato e purificante, e la cui anima riposa nel grembo dell'Anima suprema.

Così la mente, riposando nel suo Creatore in un inalterabile stato di tranquilla quiete, non è oppressa dai mali e dalle sofferenze del mondo.

Colui la cui mente è rapita nella divina meditazione non dà nulla, né riceve nulla dagli altri; né mai tenta di rifiutare ciò che ha, né cerca ciò che non ha.

Colui la cui mente ha trovato riposo nella divina meditazione non ha motivo di rimpianto.

Innalza la tua mente al di sopra della molteplicità dei possessi mondani e ponila nell'unità dello Spirito.

Rivolgi il tuo cuore verso quella felicità suprema che è fonte di gioia all'inizio e alla fine.

Applica la tua mente al Brahman, che è al di là della tua comprensione, a quella luce santa, principio e fonte di ogni cosa, in cui risiede ogni buona sorte e il nutrimento divino delle nostre anime.

Non vi nulla altrettanto desiderabile e duraturo nel mondo che ci circonda, al di sopra e al di sotto di noi, quanto la pace imperitura di una mente rivolta a Dio.

Non è bene turbare la mente occupandosi di ogni ramo dello scibile, né vi è vantaggio alcuno a rendersi schiavi nel servizio di un altro, quando si è ancora ignoranti riguardo a se stessi e al proprio vero bene.

Non è bene limitarsi a vivere a lungo, afflitti dal dolore tormentoso dell'esistenza.

Poiché tutte le cose sono incostanti, vane, e fonte di pena per gli uomini, il saggio vede che vi è solo un'unica Realtà, imperitura e al di là di ogni errore, la quale, sebbene presente ovunque, trascende la conoscenza di ogni cosa.

Questa essenza è âtman, e la meditazione su di esso è l'unico modo di allontanare ogni dolore, ogni afflizione. Esso solo distrugge la visione fallace del mondo.

La contemplazione divina rifulge nella chiara atmosfera della mente non impura e irradia ovunque il suo splendore come la luce solare; essa distrugge la tenebra del dolore e della sofferenza e ogni fallace idea di dualità.

La meditazione divina nella forma del So ’ham o Shivo ’ham, scevra di ogni desiderio o scopo egoistico, penetra, come i raggi della luna, attraverso le tenebre della notte dell'ignoranza.

Vi è una vaga somiglianza fra questa luce spirituale e la luce intellettuale dei filosofi.

Io seggo quieto in ogni momento, con il pensiero fisso sul ritmo del mio respiro e non defletto mai da questo atteggiamento mentale: neppure se il monte Meru si muovesse sotto di me. Le terre continuano ad innalzarsi e ad abbassarsi senza posa dal tempo del grande diluvio, e io sono stato testimone dello sprofondamento e dell'emersione dei continenti, senza alcun mutamento nella mia pace, nata dalla coscienza del divino. Osservo il ritmo dell'inspirazione e dell'espirazione, e comprendo pienamente l'eccelsa condizione del Brahman, mentre, appagato, trovo pace in me stesso e mi allieto della mia lunga vita priva di dolore e malattia.

Non lodo né disprezzo alcuna azione mia o di altri, e questo distacco da ogni preoccupazione mi ha condotto a questa felice condizione di longevità libera da affanni.

Ho affrancato la mia mente, o grande muni, dai suoi errori, propri dell'incostanza e dell'infruttuosa curiosità, e l'ho posta stabilmente nel Brahman al di sopra di ogni pena, di ogni ansietà; essa è divenuta risoluta, calma e quieta, e così ho conseguito questa lunga vita.

Non ho paura della morte, della malattia o della vecchiaia, né mi esalto all'idea di conquistare un impero; questo distacco è la causa della mia longevità fisica.

Non considero nessuno sotto l'aspetto dell'amico o del nemico: questa equanimità è causa della mia lunga vita.

Io considero ogni esistenza come il riflesso del Brahman che ha in sé la propria esistenza, che è tutto in tutto, e in lui conosco il Sé come So ’ham; è questa la causa della mia lunga vita, o grande rishì.

Questo corpo fisico non è mai considerato da me come il mio âtman, e questa conoscenza suprema mi ha reso longevo.

Sono così raccolto nella mia mente che mai consento ad essa di lasciarsi coinvolgere nelle cose mondane, né consento alle cose mondane di toccare il mio cuore: ciò mi ha donato la beatitudine di una longevità che non conosce decadimento.

Mi allieto della felicità degli altri e mi sforzo di liberare gli altri esseri dalla sofferenza: questo sentimento di partecipazione alla buona e alla cattiva sorte dei miei fratelli mi ha conservato sempre giovane di spirito e pieno di vitalità.

Nell’avversa fortuna rimango saldo come una roccia; nella prosperità sono ben disposto verso chiunque. Non sono mai spinto dal bisogno o dal desiderio di ricchezza, e questa fermezza di spirito è la causa della mia inesauribile longevità.

È mia ferma convinzione che io sono quell’intelligenza che manifesta se stessa, che dimora nel cielo sopra di noi come nelle foreste della terra. È questa convinzione che mi fa signore della vita e della morte.

Perciò io, o venerabile saggio, ho dimora nella coppa dei tre mondi come un’ape nella corolla di un fiore di loto, e sono conosciuto nel mondo come l’eterno saggio che ha nome Bhushunda”.

Io gli risposi:

Venerabile signore, mi hai fatto dono di un discorso meraviglioso. Nel mio peregrinare nel mondo sono stato testimone della grandezza e della nobiltà degli dèi e dei dotti, ma non ho visto alcun saggio così santo come te. Onore a te, o conoscitore del Brahman”.


 

SEDICESIMO DISCORSO

Il venerabile Vasistha disse:

“O Râma, di nuovo io ti esporrò l'essenza di quella saggezza che ti condurrà alla piena comprensione del Sé. Non puoi ottenere un tale stato di coscienza senza una pratica costante. L'ignoranza, che sussiste da tempo, perdurando per molte incarnazioni, si è radicata saldamente: essa appare sia in forma di oggetti esterni sia in forma di esperienze soggettive.

L'âtman è al di là dei sensi. Quando la mente ed i sensi divengono inattivi, allora soltanto si sperimenta la vera pace.

L'ignoranza ha due aspetti: un aspetto superiore ed uno inferiore. La conoscenza nasce dall’ignoranza e distrugge l'ignoranza. L'ignoranza soggettiva, che riduce l'estroversione delle vritti è superiore; l'ignoranza che cerca il piacere nel mondo oggettivo rappresenta l'aspetto inferiore dell'ignoranza stessa. Distruggi l'ignoranza, o Râma!

L'esercizio e la perseveranza portano al successo. Qualsiasi bene si ottenga, esso è il frutto dell'albero di un costante esercizio. Questa ignoranza è il risultato di un errato modo di pensare attraverso molte incarnazioni, e perciò appare forte, ma allorché tu operi pazientemente per la consapevolezza del Sé, allora l'ignoranza ha fine.

Il cuore è simile ad un albero avvinto dalle liane parassite dell'ignoranza. Recidi queste liane con la spada della conoscenza, o Râma, e adempì ai tuoi normali doveri nella vita. Questa è la via che conduce alla felicità.

Sii simile al re Janaka il quale, avendo appreso ciò che doveva essere appreso, visse in seno al consorzio umano. Sii ben saldo nella conoscenza del Sé, in questa coscienza, profondamente radicata, della Verità, come i veggenti antichi, i quali, benché consci delle passioni interiori altrui, ne furono liberi essi stessi”.

Râma disse:

“Maestro, dimmi, ti prego, qual è il fermo convincimento che devo prediligere per essere al di sopra dei piaceri e dei dolori”.

Vasistha rispose:

“Ascolta, o Râma, questa saggezza, il fermo convincimento del conoscitore della Verità. L'intero vasto mondo di cui tu hai coscienza è l'immacolato Brahman, il quale si compiace della sua propria gloria. Come le onde che si formano nell'oceano sono acqua, così tutti gli oggetti che tu vedi sono Brahman. Chi prova gioia è Brahman; ciò che è oggetto di gioia è Brahman. L'amico è Brahman e anche il nemico è Quello. Egli ha in eterno il suo fondamento nella propria autoesistenza.

O Râma, le persone che possiedono questa consapevolezza sono libere da attrazione e ripulsa, e sono felici. Sappi, o Râma, che la presenza è Brahman e anche l'assenza è Brahman. Nulla vi è al di fuori del Brahman, e coloro che hanno coscienza di ciò non provano più attaccamento né avversione.

Il Brahman conosce il Brahman e ha fondamento nel suo proprio Sé. O Râma, il Brahman è l’io sono, è il Sé interiore. La morte è Brahman, il corpo è Brahman. Il Brahman muore e il Brahman uccide. Come in una fune si scorge un serpente, così nel Brahman si scorgono piaceri e dolori. Ciò che sono le onde per il mare: questo è il mondo per il Brahman. Coloro i quali sono veri veggenti, lo vedono; ma gli altri, quelli che non hanno ancora conosciuto la Verità, vedono in altro modo. I sapienti vedono Dio ovunque; l'ignorante vede il mondo nei suoi vari aspetti e soffre come soffre un bambino quando immagina che la sua ombra sia un fantasma.

All'ignorante il mondo appare colmo di sofferenza, ma per il saggio esso è tutto quanto Brahman. Come l'eco che risuona fra i monti è la propria voce, come in un sogno uno vede se stesso decapitato, ma in realtà non è così, tale è questo mondo, o Râma.

Il Brahman è il substrato di tutti i poteri, e qualsiasi cosa Egli immagini viene veduta in realtà.

Colui il quale ha conseguito la perfetta conoscenza, vede il mondo come è; egli è eterno e risplende della sua propria luce.

O Râma, chi medita su questo fatto, pensando "io sono il Brahman”, diviene il Brahman.

Il Brahman è libero da ogni pensiero, immaginazione o emozione. è eternamente puro, immutabile e colmo di pace. Colui il quale conosce la Verità perviene a questa consapevolezza:

“Io sono il Brahman; non provo sofferenza né piacere; nulla io bramo, nulla rifiuto; sono azzurro, sono giallo, sono bianco; sono nell'erba, nelle foglie, negli alberi e nei fiori; sono montagna e fiume, valle e cima. Sono l'essenza di ogni cosa. Quando ogni immaginazione è svanita, ogni sentimento è dissolto, allora io sono la Realtà trascendente. L'immutabile, il senza-nome e senza-forma: questo son io. Sono il Sé-testimone, sono il fondamento di ogni esperienza. Sono la luce che rende possibile l'esperienza.

Sono l'uomo che si è innamorato di una giovane donna e paragona la sua bellezza alla luna; la Coscienza che illumina la gioia nel cuore di un amante, son io. Nei più dolci frutti sono il sapore. Guadagno e perdita sono la stessa cosa per me. Come il filo che regge le perle di una collana rimane nascosto, cosi io sono la Realtà che è nascosta in tutti gli esseri.

Io adoro L’âtman che è l'essenza degli esseri viventi, la dolcezza della luna e lo splendore del sole”.

O Râma, tale è il fermo convincimento del conoscitore della Verità!”


 

LA STORIA DELLA REGINA CHUDALA

CAPITOLO PRIMO

Il venerabile Vasistha disse:

“O Râma, molto tempo fa, nell’età chiamata dvâpara, visse un re giusto e generoso. Egli era incapace di fare del male a qualsiasi essere vivente ed era molto amato dai suoi sudditi. Il suo nome era Shikhidhvaja e il suo regno si estendeva su quella regione dell'India che oggi ha nome Mâlava. Un giorno, nella stagione primaverile, quando gli alberi dei boschi erano in piena fioritura, il re uscì per una partita di caccia e, allorché si trovò immerso nella bellezza della natura, si affacciò alla sua mente l'idea di prendere moglie.

I suoi ministri combinarono il matrimonio con la figlia di un altro re: questa principessa era di elevata cultura, di animo nobile e generoso, ed era una grande yoginî: era una sposa perfetta, e inoltre era di aspetto assai grazioso.

Il re e la regina vivevano felici come Vishnu e Lakshmî, amandosi reciprocamente: come l’acqua gocciola via pian piano da un grosso recipiente attraverso un forellino, così scorreva il tempo per la coppia regale. La regina, grazie alla sua grande carità e alla sua devozione verso Dio, pervenne a percepire in cuor suo l'irrealtà del mondo, e convertì il re al suo pensiero.

Essi pensavano: “II mondo è irreale e la sete di piacere non si estingue mai in modo permanente. La giovinezza e il potere sono temporanei come un lampo di luce. La nostra giovinezza è scorsa via come acqua attraverso le nostre mani. La mente ha la sofferenza per sua inseparabile compagna. Come un gatto corre dietro un pezzo dì carne, così la sofferenza segue le nostre gioie e i nostri piaceri. Il nostro corpo è rivendicato dalla morte come un frutto maturo di mango caduto dal ramo di un albero. Qualunque cosa possiamo pensare, non siamo capaci di conservare per sempre la giovinezza del corpo. Dobbiamo fare qualcosa per porre fine alla malattia degli eventi mondani.

Non vi è nulla, ad eccezione della conoscenza del Brahman, che possa donarci una duratura soddisfazione”.

Avendo pensato così, il re e la regina avvicinarono i Mahâtman che erano pervenuti alla conoscenza del Brahman, avevano attraversato la corrente degli eventi mondani ed erano incarnazioni di verità e di saggezza. Posero i loro doni con riverenza davanti a un rishi e incominciarono a servirlo. Quando il rishi parlò loro dell’âtman, ascoltarono con grande attenzione e rispetto: udirono che l’ âtman è eternamente puro, infinito, ed è beatitudine assoluta, e appresero che questa conoscenza è in grado di sconfiggere per sempre il dolore.

La regina, la cui mente era stata purificata da un karman favorevole, comprese la verità e domandò a se stessa: “Che cosa sono io? Che cos’è questo mondo? Qual è l'origine di esso?”. Ben presto essa giunse alla seguente conclusione:

“Io non posso essere il corpo, poiché esso è inerte, mentre io sono consapevole. Il corpo si muove per opera dei sensi. Io non sono i sensi, poiché essi non sono autocoscienti. Neppure la mente, che muove i sensi, è autocosciente, né lo è la facoltà discriminativa. Perciò, a causa della mia autocoscienza, io devo essere differente da essi.

L'ego non è il mio Sé, poiché esso è illuminato dalla luce della mente. La mente non ha coscienza permanente, mentre io, in quanto âtman, sono la Coscienza stessa. Il mio Sé è verità, è un sole in una condizione di eterna aurora. Come è meraviglioso il mio Sé! Esso è beatitudine assoluta. Ho scoperto la mia vera condizione, che è indistruttibile e infinita,

Come il cielo autunnale è limpido e non è offuscato da nubi, così io sono senza macchia, sono eternamente libera dalla febbre dell'attaccamento e dell'avversione. Sono libera dai desideri, ovvero da fluttuazioni della coscienza. Sono libera dall'io e dal tu. Essendo libera dall’identificazione con la mente, sono sempre imperturbata e tutt'uno con me stessa. Non vi è in me possibilità di mutamenti.

I grandi yogin hanno chiamato l'eterno principio Brahman. Questo Sé manifesta se stesso come mente e come mondo, e tuttavia non vi è mutamento nella sua natura originaria. Come le rocce, le pietre e i sassi di una montagna non sono altro che la montagna stessa, così il mondo percepibile è soltanto âtman. Una città fantasma non ha esistenza reale, e neppure il mondo la possiede. Lo yogin che è giunto alla meta vive nell'unità, mentre l'ignorante vive nella dualità.

Un bambino modella forme di argilla, e le chiama ‘elefante’, ‘mucca’, ‘cavallo’ o ‘re’, ma in realtà non sono che argilla. L'ignoranza impresta molti colori alla Realtà priva di colori, l'âtman. Ora mi è chiara la Conoscenza fondamentale”.

Chûdâlâ pervenne a concepire il proprio Sé come ciò che non può essere bruciato, che è impenetrabile, non è composto di parti, eternamente puro. Essa inoltre affermò: “Io non ho in me né nascita né morte. Il mondo appare per opera della coscienza; i devo, le cose mobili e immobili, tutto è âtman. Come le onde, le bolle d'aria e la schiuma non differiscono dal mare, così non vi è nulla che abbia autoesistenza: soltanto l’âtman la possiede.

L'egoità non è mai apparsa in me. Avendo compreso chiaramente questa verità, io andrò libera nel mondo, illuminando gli altri”.

Vasistha continuò:

"O Râma-jî, Chûdâlâ adesso era libera dalla sete di piacere, non provava più né sofferenza né timore, e si rese conto che non vi era più nient'altro che ella dovesse conoscere. Sperimentò il perpetuo samâdhi e pervenne a una condizione di eterna beatitudine. Non vi sono parole capaci di descrivere la beatitudine della regina.

Il re vide la regina in questo stato di grazia, irradiante pace, e ne fu grandemente meravigliato. Egli disse: “Mia diletta, vedo che ancora una volta hai ritrovato la giovinezza e mi sembra che tu abbia provato una gioia celestiale. Forse un qualche deva ti ha fatto bere un nettare che ti ha resa immortale, o forse un grande yogin ti ha fatto dono delle sue benedizioni. La tua mente appare colma dell'essenza della saggezza e hai ottenuto qualcosa che è superiore al dominio dei tre mondi. Tu sei in pace: non vedo in te desiderio o passione alcuna”.

Chûdâlâ rispose: “O sovrano, ho conseguito quella condizione beata che è al di là di ogni cosa peritura e percepibile: in tale stato vi è una totale assenza di dualità. Gioisco dell'assenza di piaceri, causata in me dalla consapevolezza del Sé.

Essendomi innalzata al di sopra dei piaceri regali, ho dimora in quella beatitudine che è propria del Sé e sono libera da attaccamento e repulsione. Io so ora per certo, o re, che ogni cosa percepita o concepita è soltanto un sogno ed è irreale; lo stato di normalità che ho scoperto è al di là della portata dei sensi e della mente, ed è libero di ogni macchia d'egoismo: esso è il substrato di ogni cosa, il Sé di ogni cosa, l'essenza di ogni cosa. Il nettare che ho bevuto mi ha donato il significato dell'immortalità e mi ha reso libera per sempre da timore”.

O Râma-jî, il re non comprese il significato delle parole della regina e rise davanti a questa strana saggezza, mettendola in ridicolo.

Egli disse: “O diletta, ciò che tu dici non ha senso, ed io non comprendo la tua visione delle cose. Tu chiami irreale ciò che è percepibile, e reale ciò che non è percepibile. Nessuno potrebbe accettare quanto affermi, poiché è privo di senso. Chi professa questa strana saggezza non impone rispetto. Dici di essere felice, avendo rinunciato ai piaceri regali. Non sembra questa l'affermazione di una persona priva di senno? Quale piacere può esistere al di là della sfera dei sensi? Ricchezza, giovinezza, felicità, allegria, salute, compagnia di persone giovani: tutto questo è piacere. Credo che tu sia diventata assai stolta, credendo di essere saggia. Affermi che tu sei il Brahman: e chi crederà ad una tale insensatezza? Queste idee abnormi non si addicono a una regina, e ancor meno questo folle atteggiamento mentale”.

Pronunciate queste parole, il re si alzò e uscì dalla stanza. Poiché era mezzogiorno, andò come al solito a fare il bagno nella piscina reale.

La regina Chûdâlâ fu sorpresa per l'atteggiamento del re e si rattristò per la sua mancanza di illuminazione interiore. Ella non gli parlò più di questa divina saggezza e continuò a vivere la sua solita vita nel palazzo”.

 

CAPITOLO SECONDO

"La regina Chûdâlâ era esperta tanto nei poteri yogici quanto nella conoscenza del Sé. Si innalzò dunque alla regione mediana e vide i grandi esseri che vivono in quei luoghi: i deva, le ninfe e le altre creature celesti. Poi discese di lassù e andò al palazzo dove il re stava dormendo. Il re non era consapevole della presenza della regina. Al sorgere del sole egli si levò e, dopo le sue abluzioni, si recò nella sala del culto, dove pregò e meditò.

La regina cominciò a trasmettere al re il suo insegnamento, gradualmente e in modo indiretto, e pregò i pandita di spiegargli che il mondo è soltanto un sogno e una lunga malattia per la quale non vi è altra cura che la consapevolezza del Sé. Malgrado gli sforzi della regina e dei pandita, il re non conseguiva l'illuminazione e rimaneva privo della vera felicità”.

Râma disse:

“Venerabile maestro, la regina era una grande yoginî ed era giunta a conoscere Dio. I pandita erano dotti e pii. Non comprendo quindi perché il re permaneva nell'ignoranza malgrado i loro insegnamenti.

Il re non era privo di acume, ma, nonostante l'esempio della regina, giunta alla conoscenza di Dio, egli non conseguì una tale conoscenza”.

Vasistha rispose:

“Come un filo non passa attraverso una perla che non sia perforata, così gli insegnamenti della regina non ebbero effetto sul cuore del re.

O Râma-jî, se il discepolo, per parte sua, non medita, non riflette e non mette in pratica gli insegnamenti con interesse e perseveranza, perfino le parole dello stesso Brahmâ suonano vane al suo orecchio. Il motivo è che l’âtman conosce se stesso e non è l'oggetto della ragione o dei sensi”.

Râma disse:

“O signore, se l’âtman conosce se stesso e non è influenzato da alcun agente esterno, che bisogno c'è di un guru, dei sat-sanga o dello Yoga?”.

Vasistha spiegò:

“O Râma-jî, il guru e le Scritture mostrano la via e forniscono un metodo. Essi danno questa indicazione al discepolo: “II tuo vero Sé è l’Atman”, ma non possono trasmettergli la conoscenza di Dio. Il discepolo deve fare il resto da solo. Il guru non può sostituirsi al discepolo nei pensieri e nella pratica. Si può additare la luna ad un'altra persona che abbia occhi per vedere, ed essa può scorgere la luna. Ma se è miope, non potrà vederla. Allo stesso modo il guru e le Scritture donano al discepolo la verità spirituale, ma il discepolo deve applicarsi, riflettendo e meditando, sì da conseguire la conoscenza che essi gli hanno insegnato.

O Râma-jî, l’Atman non è un oggetto dei sensi o della mente. Se tu mi dici: “Anche tu insegni mediante i sensi: perché lo fai, sapendo che l’Atman non è un oggetto dei sensi?”, la risposta a questa obiezione è la seguente: Râma-jî, dimentica i sensi e la mente, vai diritto alla loro causa e conoscerai l’Atman. Eccoti un esempio. C'era una volta un mercante che viveva in una certa città. Era ricco, ma infelice. Non divideva la sua ricchezza con i bisognosi e non dispensava doni ai brâhmani e agli yogin. Desiderava accumulare beni sempre maggiori, Infine gli venne il desiderio di possedere il gioiello chiamato Cintâmani, che è di inestimabile valore.

Si recò presso un mucchio di spazzatura e, sperando di trovare il gioiello, vi frugò per tutto il giorno. Alla sera trovò una conchiglia. Pensò allora che poteva esserci qualcosa di più, e così ritornò ogni giorno a cercare. Trovò un'altra conchiglia, poi un'altra ancora. Alla fine, dopo aver cercato per molti anni, trovò il gioiello Cintâmani.

O Râma-jî, gli insegnamenti del guru (“Tat tvam asi” e “Aham Brahmâsmi”) sono come quelle conchiglie. Come il ritrovamento delle conchiglie porta a scoprire il gioiello Cintâmani, così gli insegnamenti del guru guidano alla conoscenza di Dio”.

Vasistha continuò:

“O Râma-jî, lasciando la regina Chûdâlâ, il re andò al tempio per l'adorazione. Le parole di saggezza che aveva udito da lei ebbero il loro effetto e pensieri di distacco dalle passioni e di rinuncia invasero il suo cuore. Egli pensò: “Ho trascorso così tanti anni della mia vita nel piacere, e ancora non sono appagato: sempre all'esperienza del piacere ha fatto seguito la sofferenza. Ora vedo che il mondo e le sue gioie sono illusioni”.

Il re donò in beneficenza oro, terra, vacche, case e molti altri beni. Elargì doni ai brâhmani e diede ai poveri molto denaro.

La regina chiese ai sacerdoti della famiglia di insegnare al re la dottrina dell'irrealtà del mondo e di mostrargli come la conoscenza del Sé sia l'unica fonte di felicità e il solo mezzo per porre fine al ciclo delle nascite e delle morti.

Quando il re udì questa verità dai brâhmani, si diede a pensare in quale modo potesse affrancarsi dalla sofferenza. Decise allora di intraprendere un pellegrinaggio ai luoghi santi. Si immerse nelle acque dei fiumi sacri, facendo la carità ai brâhmani e ai bisognosi, e vide molti rsi e molti uomini perfetti.

Tornato dal suo pellegrinaggio, entrò nella stanza della regina e le rivolse queste parole: “O dolce Chûdâlâ, ho deciso di andare nella foresta per darmi all'ascesi. Tutti i piaceri del mondo mi sembrano sofferenze, in una forma o nell'altra: il regno stesso mi appare cosa futile e non migliore di un luogo desolato e selvaggio”.

Rispose la regina: “O re, non è questo per te il momento di farti eremita; sei ancora giovane e devi godere i piaceri del regno. Come i fiori della primavera cessano di essere belli in inverno, così, quando invecchieremo, ci ritireremo nella foresta e saremo felici colà. Quando i nostri capelli diverranno grigi come gli argentei fiori del bosco, allora sarà giunto per noi il momento di vivere da eremiti nella foresta”.

II re non si avvide della saggezza che vi era nelle parole della regina, e rimase fermo nel suo sentimento di distacco dalle passioni. I suoi pellegrinaggi e gli atti di carità compiuti avevano purificato il suo cuore e l'avevano reso colmo di sentimenti di irrealtà del mondo, ma, come il giglio d'acqua perde la sua fulgida bellezza quando non c'è la luna piena, così il re non trovava appagamento né pace, poiché era privo della conoscenza della Verità.

Egli disse: “O regina, lascia che io rinunci al regno e mi ritiri nella foresta. Ti chiedi forse chi mi servirà quando sarò lontano dal mio palazzo e dai miei domestici? Ti assicuro, o regina, che sarà la terra a servirmi, che la vista delle alte fustaie sarà la mia compagna, i cerbiatti e gli uccelli saranno i miei figli, la quieta atmosfera dei boschi silenziosi sarà il mio tetto, i fiori mi faranno da ornamenti”.

Prima dell'alba il re lasciò il palazzo, e la regina, con le sue ancelle, lo seguì. Tutti passarono la notte nella fitta selva. A mezzanotte il re si svegliò e, vedendo che la regina e il suo seguito dormivano in perfetto oblio, si levò e si mise in cammino da solo. Una sola volta si volse verso la capitale del suo regno e disse: “Addio, ricchezze e piaceri regali! Addio, compagni ed amici!”

lì re camminò a lungo di buon passo attraverso la fitta foresta, e udì il ruggito dei leoni e il sibilo dei serpenti. Al sorgere del sole prese un bagno nelle fresche acque di un torrente di montagna e recitò la sua preghiera mattutina, poi colse dei frutti maturi e se ne cibò. Temendo di essere ritrovato dai suoi sudditi, si rimise in cammino a grandi passi. Attraversò valli e montagne, guadò torrenti dal corso impetuoso: infine, dopo un cammino ininterrotto di dodici giorni, Shikhidhvaja giunse ai piedi del monte Mandarâchala. Qui scelse un luogo per viverci e si costruì una capanna di rami e frasche. Raccolse fiori e frutti e li depose davanti all'altare nella sua piccola stanza.

Ogni giorno si alzava prima dell'alba e, dopo le sue abluzioni, ripeteva devotamente fino a mezzogiorno, in uno stato di totale concentrazione, il suo mantra; poi, prendendo il secondo bagno della giornata, adorava Dio e gli faceva offerta di fiori e frutta. Nella terza parte della giornata si cibava semplicemente con frutti selvatici e bacche, dopodiché si affrettava a riprendere la recitazione del mantra. Alla sera offriva preghiere a Dio e, dopo il tramonto, era di nuovo la volta del suo mantra, che ripeteva fino a mezzanotte”.

 

 


Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione del testo in qualsiasi forma senza permesso dell’editore, salvo nel caso di citazioni o di recensioni, purché quanto in esse riportato sia conforme all’originale e se ne citi la fonte.

Ritorna alla pagina iniziale

Magnanelli Edizioni

Via Malta, 36/14 - 10141 Torino

Tel. 011-3821049 - Fax 011-3821196