Insegnamenti sullo Yoga
(Gheranda-samhitâ)
a cura di Stefano Fossati

 


 

INDICE

  

 Introduzione
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Bibliografia essenziale
Indice-glossario

 


 

PASSI SCELTI

 

INTRODUZIONE

 

 La Gheranda-samhitâ è uno dei più importanti trattati di hatha-yoga1, assieme alla Hathayoga-pradîpikâ e alla Shiva-samhitâ, rispetto ai quali si caratterizza innanzitutto per il maggior numero delle tecniche descritte e per l’elaborazione di un proprio metodo ascetico, mentre i passi più propriamente filosofici sono estremamente ridotti.

1 Come si vedrà oltre, la Gheranda-samhitâ non usa mai l’espressione hatha-yoga, ma ghatastha-yoga, traducibile con «Yoga del corpo». Tuttavia le tecniche in essa descritte rientrano a pieno titolo nella tradizione dello hatha-yoga.

L’espressione hatha-yoga, «Yoga violento», è riferita a un complesso di posizioni e purificazioni corporee, di tecniche di controllo del soffio vitale e stimolazione delle energie latenti nell’uomo, che affonda le sue radici in una preistoria non ancora definibile con precisione.

In età storica, la diffusione dello hatha-yoga è associata soprattutto alla setta dei nâtha-yogin (nâtha, «protettore», «maestro», è il titolo conferito ai maestri spirituali di questa corrente), detti anche gorakhnâthî, dal nome del loro fondatore Gorakhnâth (o Gorakshanâtha).

Il movimento dei nâtha-yogin nacque probabilmente in Bengala intorno al XII secolo, sulla base di antiche tradizioni yoghiche e alchemiche e subì l’influenza di importanti correnti religiose (shivaismo e buddhismo in primo luogo), i cui insegnamenti vennero integrati in una dottrina sincretica che non appare sempre ben ordinata e sistematica.

Fondamentale è comunque l’insistenza sulle tecniche dello hatha-yoga, finalizzate a una definitiva rigenerazione del corpo, che lo sottragga al comune destino di decadenza, morte e reincarnazione.

Questi metodi ascetici e la complessa fisiologia esoterica sulla quale sono fondati, assumono un’importanza centrale, che è superiore a quella degli aspetti religiosi più esteriori e confessionali.

In realtà, secondo una concezione ben nota alla cultura indiana, la forma sotto cui una particolare divinità si offre ai suoi adoratori, non è che un aspetto transitorio che l’assoluto adotta per svolgere una determinata funzione nel cosmo.

Possiamo così notare, per esempio, per limitarci ai tre testi appena citati, come, benché l’orientamento «confessionale» - in senso lato - della Shiva-samhitâ e della Hathayoga-pradîpikâ sia shivaita, la Gheranda-samhitâ, che pure presenta frequenti punti di contatto, anche testuali, soprattutto con la Hathayoga-pradîpikâ ed è tradizionalmente inglobata nella letteratura dei nâtha-yogin, presenti, in qualche passo, un orientamento decisamente vishnuita.

è impossibile contenere in poche pagine la quantità di apporti filosofici, religiosi ed esoterici che costituiscono lo sfondo e la giustificazione delle pratiche yoghiche. In questa introduzione ci limiteremo pertanto a offrire una breve rassegna di quelle nozioni che possono facilitare la comprensione del testo; altre indicazioni saranno offerte, all’occasione, nelle note di commento.

In primo luogo prenderemo in considerazione la visione del mondo secondo il sistema filosofico Sâmkhya-Yoga e gli strumenti ascetici di salvezza delineati negli Yoga-sûtra, poiché si tratta di punti di riferimento fondamentali.

Successivamente cercheremo di delineare le principali trasformazioni che quella visione e, conseguentemente, quegli strumenti hanno subito nel clima religioso e filosofico detto tantrico. E, infine, faremo qualche cenno allo specifico iter proposto dalla Gheranda-samhitâ per raggiungere quello che è, notoriamente, l’obiettivo dominante nella ricerca filosofica e mistica indiana: la liberazione dal ciclo delle rinascite.

 

Il termine Yoga

Con questo termine si definisce essenzialmente sia una meta spirituale, mistica, l’unione del sé individuale (âtman) con il Sé universale (Brahman), per la quale si ottiene la liberazione dal ciclo delle rinascite, sia una disciplina, un metodo di ricerca, grazie al quale l’uomo, superando i limiti conoscitivi e biologici, che gli vengono imposti dalla nascita e dalla sua congenita ignoranza metafisica, recupera definitivamente la propria essenza eterna, liberandosi da una dolorosa condizione di perenne precarietà.

La diversa connotazione religiosa e filosofica di questa «essenza», ha poi una diretta influenza sulle particolari tecniche fisiche e spirituali messe in atto per la sua valorizzazione ed è quindi responsabile della nascita di diverse «scuole» di Yoga, contrassegnate così sia dall’appartenenza ad una particolare corrente religiosa (per esempio il buddhismo, con tutte le sue ulteriori partizioni), sia dall’accentuazione di un determinato elemento o momento della pratica ascetica (per cui si parla, per esempio, di laya-yoga, mantra-yoga, ecc.).

In un’accezione più ristretta, Yoga è il sistema filosofico il cui primo documento scritto è per noi costituito dagli Yoga-sûtra di Patañjali.

È certo che Patañjali non fondò questo sistema filosofico; tuttavia diede a quella dottrina un’impronta sistematica così autorevole che il suo nome rimase a essa definitivamente associato e il metodo ascetico descritto nella sua opera costituì il supremo punto di riferimento o coronamento degli altri metodi che nel corso del tempo vennero elaborati. Per questo motivo l’espressione «Yoga regale» (râja-yoga) è spesso, anche se non sempre2, riferita allo Yoga di Patañjali.

2 Cfr. la prefazione di J. Filliozat alla traduzione della Hathayoga-pradîpikâ di T. Michaël.

La visione del mondo proposta negli Yoga-sûtra è per molti versi identica a quella di un’altra importantissima scuola, il Sâmkhya, al punto da apparire come espressione di una sua corrente.

L’importanza del Sâmkhya deriva non soltanto dalla sua antichità rispetto agli altri sistemi speculativi, ma soprattutto dalla grande influenza che esso esercitò su tutti i campi della cultura indiana.

In particolare (ed è l’aspetto che ci interessa maggiormente) la sua catalogazione di tutti i fenomeni del cosmo in un complesso di venticinque «princìpi» o «categorie» (tattva) fondamentali, ricompare più o meno modificata in contesti filosoficamente anche molto distanti.

 

La metafisica del Sâmkhya-Yoga

All’interno dell’uomo - e dell’intero cosmo - esistono due princìpi eterni e distinti: la «natura» o prakriti, che genera ogni specie di forma e struttura, sia fisica che psichica, e le «anime» (purusha), molteplici, immutabili, luminose e dotate di una coscienza priva di oggetto.

I purusha sono enti eterni, molteplici, luminosi, ossia costituiti di pura intelligenza. Non potendo essere oggetto di esperienza, la loro esistenza è dedotta dall’osservazione della vita psichica.

La constatazione, cioè, che la nostra vita mentale è soggetta a continuo mutamento (mutamento che, per definizione, è «vorticoso», come sottolinea l’espressione comunemente tradotta con «stati mentali», e che è citta-vritti, lett. «vortici mentali») rende indispensabile postulare l’esistenza di un ente che garantisca la continuità della vita interiore. Questo ente è il purusha, che, riflettendo la propria luce sulla struttura psichica, fornisce autocoscienza e intelligenza ad un’attività che di per sé ne sarebbe priva in quanto relativa a fenomeni puramente materiali: la mente e i pensieri non sono altro - come vedremo - che forme estremamente rarefatte di materia e quindi prive di coscienza.

In altri termini è grazie al purusha che l’essere vivente riferisce sempre a uno stesso soggetto - se stesso - i dati dell’esperienza ed è in grado di coordinarli attorno a un nucleo centrale.

La costruzione metafisica di questo sistema filosofico è fondata sulla nozione di guna («qualità»), elementi costitutivi della prakriti, di numero infinito, il cui vario aggregarsi è causa di tutti i fenomeni della realtà. Essi sono esperibili dai sensi solo indirettamente, cioè attraverso il loro modo di essere, sulla base del quale vengono infatti classificati in tre classi:

1. sattva, caratterizzato da traslucidità;

2. rajas, caratterizzato da energia, attività, movimento;

3. tamas, caratterizzato da inerzia, oscurità, opacità.

Il sattva è preponderante nella costituzione dei fenomeni di natura psichica (mente, sensi, pensieri); il tamas in quelli che formano l’oggettività materiale; mentre il rajas determina ogni forma di energia o attività.

I tre guna sono in realtà sempre compresenti in ogni fenomeno, benché solo uno di essi sia di volta in volta preponderante.

 

La prakriti e l’evoluzione dei «princìpi» (tattva)

Originariamente, le tre classi di guna esistono in uno stato di equilibrio, nel quale le loro modalità si oppongono, annullandosi reciprocamente e dando origine a una dimensione priva di determinazioni di ogni genere (qualità, forma, ecc.) e perciò coincidente con il non essere. è questo stato che viene detto prakriti.

Quando questo perfetto equilibrio dei guna, si rompe, sorge la prima categoria della creazione, che è il mahat («il grande» o buddhi «intelletto»), sostanziato prevalentemente di sattva. Il mahat è una struttura universale, che contiene in sé, in potenza, tutti i successivi sviluppi del cosmo: le menti individuali e l’oggettività materiale.

Al mahat appartengono sia i fondamenti della coscienza ordinaria - le future strutture della soggettività - sia il dinamismo che regolerà armonicamente l’esistenza, nelle sue manifestazioni fisiche e psichiche, e che viene detto prâna.

Il prâna, quindi, è, per così dire, l’aspetto attivo di questo «principio» (tattva) ed è l’essenza stessa della vita nel mondo fenomenico.

Successivamente, il rajas, che permaneva in uno stato latente (ricordiamo che i tre guna sono sempre compresenti, benché solo uno di essi sia di volta in volta predominante) inizia a manifestare la propria attività. Questa attività, che è uno degli elementi caratteristici del pensiero, determina la formazione del successivo «principio», la «soggettività» (ahamkâra), che ha la forma di un «io conosco, io voglio, ecc.» privo di contenuti, non essendo ancora dominante la presenza del tamas, responsabile delle forme psichiche e delle immagini mentali dell’esperienza. Questo soggetto, che trascende ogni forma di manifestazione, è la parte attiva dell’autocoscienza.

Avviene, a questo livello, un fraintendimento gravido di conseguenze: l’anima, riflettendosi sull’intelletto, ne assume come propria la struttura e l’intelletto ascrive a sé l’intelligenza che l’anima gli cede, illuminandolo.

In seguito a questo fraintendimento il purusha, pur permanendo intatto e puro, si lega al soggetto così determinato, seguendolo di rinascita in rinascita.

Dall’Io (ahamkâra) evolve la «mente» (manas), che elabora le sensazioni e formula concetti; e successivamente si formano i seguenti dieci «princìpi» (tattva), gli indriya (funzioni sensorie), distinti in:

1. «funzioni di percezione» (buddhîndriya): udire, vedere, toccare, odorare, gustare;

2. «funzioni di azione» (karmendriya): parlare, afferrare, camminare, evacuare, generare.

Gli indriya non devono essere identificati con gli organi corporei, che ne sono piuttosto il supporto; né devono essere intesi solo come strumenti al servizio del senso dell’Io, ma come forze che, nell’ambito della loro sfera di competenza, posseggono una certa autonomia (il termine indriya designava in origine le divinità minori che assistevano gli dèi principali, tra cui, appunto, Indra). La percezione non è vista perciò come un meccanismo automatico, ma piuttosto come il risultato della «distrazione» dell’uomo che, incapace di tenere i propri sensi sotto controllo, ne è in qualche modo sopraffatto3.

3 Cfr. J. Varenne, Yoga and the Hindu tradition, Delhi, 1989, pp. 116-117.

 

Il mondo materiale: tanmâtra e mahâbhûta

Sempre al livello dell’ahamkâra - in seguito all’influenza del tamas - sorgono i tanmâtra, un termine generalmente tradotto con l’espressione «elementi sottili». I tanmâtra (suono, contatto, forma, sapore, odore) costituiscono il presupposto dell’oggettività concreta, sia nel senso che formano, componendosi, i cinque «elementi grossi» (Etere, Aria, Fuoco, Acqua e Terra), sia nel senso che essi posseggono le forme essenziali dell’esperienza sensibile. La sensazione, in questo senso, è resa possibile perché il soggetto contiene in sé, in essenza, qualcosa dell’oggetto.

Il meccanismo della percezione sensoria è così fondato su una sostanziale omogeneità tra sensi e realtà oggettiva.

Il modo in cui gli atomi materiali si sviluppano dagli elementi sottili è oggetto di discussioni e controversie; una delle teorie più diffuse lo descrive come un processo di aggregazione degli elementi sottili. In origine, cioè, il «suono» produrrebbe, da solo, l’Etere; poi, unendosi al «contatto», darebbe origine all’Aria; e così via.

Questi elementi rappresentano l’ultima evoluzione dei guna, nel senso che dopo di essi non vengono più create nuove categorie, benché gli atomi materiali continuino a combinarsi incessantemente, formando la realtà concreta del mondo.

Anche le sostanze che formano il corpo umano, secondo una concezione sviluppata dalla scienza medica indiana, sono quindi il risultato della composizione di questi cinque elementi «grossi»: per esempio l’Aria, nella quale risiede il dinamismo dell’universo, è presente nel corpo in forma di «respiro», «soffio» (prâna) che, veicolato dai vasi sanguigni, presiede alle sue varie funzioni.

A questo proposito si parla, in particolare, di cinque «soffi», ognuno dei quali ha localizzazione e funzioni proprie4:

4 Cfr. J. Filliozat, The classical doctrine of Indian medicine, Delhi, 1964, p. 28.

1. prâna (in senso stretto), localizzato soprattutto nel cuore, ma anche in bocca, naso e polmoni; presiede alla respirazione e alla deglutizione;

2. apâna: ombelico e parti inferiori del corpo; presiede all’escrezione;

3. samâna: tra il cuore e l’ombelico; presiede alla digestione e veicola per tutto il corpo le sostanze digerite;

4. udâna: naso e cervello; presiede all’emissione dei suoni articolati;

5. vyâna: pervade l’intero corpo e garantisce l’equilibrio delle sue funzioni.

Il concetto di prâna, comunque, esorbita da un’interpretazione in termini di pura forza meccanica; coincide piuttosto con la stessa attività della mente e delle funzioni sensorie e solo in secondo luogo si manifesta come forza vitale, con le suddivisioni che abbiamo visto.

La natura è perciò un sistema armonico, in cui tutti gli esseri, inanimati e animati, e le rappresentazioni mentali di questi ultimi (sensazioni, emozioni, idee, ecc.) posseggono uno stesso dinamismo e una medesima sostanza. La differenza tra i vari fenomeni, il loro modo di apparire, è dovuta soltanto alla diversa disposizione degli atomi, la quale è soggetta a un mutamento incessante, le cui fasi, oltretutto, sono sempre contemporaneamente presenti: così ogni oggetto, pur presentandosi in un’unica forma determinata, contiente in sé, in ogni momento, le tracce di ciò che era e di ciò che diventerà.

 

L’attività mentale

Questa incessante trasformazione del cosmo è motivo di sofferenza. Essa infatti comporta l’inevitabile continua distruzione di tutte le strutture alle quali il nostro vero Io - il purusha - si sente legato, dal momento in cui si identifica con processi (buddhi, ahamkâra ecc., fino al corpo) puramente materiali, che gli sono in realtà sostanzialmente estranei. Occorre quindi scindere questo legame che, come abbiamo già detto, si estende ben al di là della singola esistenza individuale, al di là delle stesse cicliche distruzioni del cosmo, in cui l’attività della prakriti è solamente sospesa. In questo senso, uno dei principali ostacoli alla liberazione è l’ignoranza (avidyâ), intesa come una fondamentale incomprensione della vera natura della realtà.

Secondo Patañjali, la separazione tra il purusha e la mente si verifica quando questa è in grado di riflettere nella sua purezza il purusha e può così rendersi conto della sua sostanziale alterità, superando l’illusoria identificazione che è all’origine del legame, il quale perciò viene sciolto.

La mente, perciò, deve essere purificata; devono essere interrotte le «funzioni mentali» (citta-vritti), e arrestata l’attività del citta, un termine con cui gli Yoga-sûtra indicano il complesso, per dir così, psico-sensorio di ogni essere vivente, includendovi buddhi, ahamkâra, manas, indriya e prâna, ovvero il dinamismo che ne anima le funzioni vitali.

Il citta permea l’intero corpo e, dopo la morte, trasmigra in un altro essere, recando con sé impressioni inconsce (samskâra), tendenze e istinti (vâsanâ) e «azioni» (karman) accumulate durante l’infinita serie di esistenze trascorse e che ora intervengono a condizionare la nuova forma (uomo, serpente, dio, ecc.) e il suo destino. Ogni atto, fisico o mentale, lascia infatti nella coscienza dell’uomo una traccia che prima o poi genererà delle conseguenze condizionando in vario modo il suo destino, in questa esistenza o nelle successive. Per di più, ogni esperienza suscita la formazione di tendenze inconsce (vâsanâ), normalmente incontrollabili, che affiorano costantemente alla vita cosciente, influenzando a loro volta l’azione. Perciò uno dei compiti dello yogin è quello di distruggere l’enorme quantità di vâsanâ accumulate nel corso delle precedenti esistenze, e di fare in modo di non produrne altre.

In questa ricerca, il corpo fisico ha una fondamentale importanza, dal momento che la vita biologica è strettamente connessa a quella mentale, di cui è l’immediato riflesso.

 

Lo Yoga di Patañjali

Un’altra espressione con la quale ci si riferisce allo Yoga di Patañjali è «Yoga degli otto membri» (ashtânga-yoga), dal numero di stadi che la pratica ascetica da lui teorizzata prevede. I primi cinque sono anche definiti «esterni» perché riguardano soprattutto il corpo e il comportamento da adottare; gli altri, «interiori», in quanto costituiti da tecniche meditative.

Il primo passo consiste nell’attenersi alle seguenti norme di condotta che impediscono di accumulare le più comuni impurità e «distrazioni» della mente:

1. yama (astinenze): non recare danno alle creature viventi, non mentire, non rubare, astenersi dai rapporti sessuali, astenersi dall’avidità;

2. niyama (osservanze): purezza (corporea e mentale), equanimità, ascetismo, studio, devozione.

Vi sono poi quelle pratiche intese a rallentare l’attività biologica e mentale fino al limite dell’arresto completo, intervenendo a livelli sempre più «profondi»:

3. âsana (posture), la cui corretta esecuzione riduce l’influenza del corpo e del mondo esterno sull’attività psichica, facilitando la concentrazione mentale: come infatti precisano gli Yoga-sûtra (che, diversamente dai trattati di hatha-yoga, accennano soltanto a questo aspetto della pratica), l’âsana deve essere «stabile e confortevole» e indurre nello yogin uno stato di insensibilità verso gli stimoli del mondo esterno5;

5 Yoga-sûtra II, 46, 48.

4. prânâyâma (controllo del soffio): consiste principalmente nel progressivo rallentamento del ritmo respiratorio, fino al limite della «interruzione di inspirazione ed espirazione»6 e, parallelamente, dell’attività mentale. Le tecniche del prânâyâma permettono di condizionare volontariamente i propri stati psichici e sono perciò il complemento insostituibile delle fasi più espressamente spirituali dello Yoga;

6 Ibid. II, 49.

5. pratyâhâra (ritrazione dei sensi). In questa fase, le «funzioni sensorie» (indriya) sono distolte dai loro oggetti. La tecnica più impiegata a tal fine consiste nel fissare l’attenzione su un particolare oggetto, fino a che ogni impressione comunicata dai sensi non venga avvertita. Non ricevendo più dati dal mondo esterno la mente è posta in condizione di rispecchiare con maggior chiarezza i contenuti e le strutture della vita psichica profonda (in primo luogo le vâsanâ), che, come abbiamo visto, coincide con l’essenza stessa della realtà cosmica.

Seguono quindi i tre stadi spirituali:

6. dhâranâ (concentrazione): da questo punto in poi lo yogin cessa di conoscere intellettualmente e di avere esperienze nel senso comune del termine. Il suo conoscere coincide, ora, con un divenire che procede verso i livelli più alti dell’essere grazie al dissolversi degli schermi individualizzanti. La dhâranâ si esegue fissando l’attenzione su un oggetto determinato - che può essere, per esempio, una parte del corpo - con tale intensità che tutte le facoltà dello yogin ne sono assorbite (ricordiamo che, grazie al pratyâhâra, egli è completamente isolato dal mondo esterno), e la sua mente (più precisamente il manas) viene immobilizzata e, per così dire, disattivata;

7. dhyâna (meditazione): questo livello si distingue dal precedente per la continuità dell’attenzione verso l’oggetto di meditazione, realizzata senza alcuno sforzo cosciente;

8. samâdhi (enstàsi, unificazione), la completa identificazione tra il soggetto e l’oggetto, che non è più concepito come un qualcosa di distinto dalla mente. Si distinguono vari gradi di realizzazione del samâdhi, in relazione, dapprima, al modo di manifestarsi dell’oggetto contemplato (a livello di mahâbhûta o di tanmâtra) e infine, per così dire, alla quantità di soggettività ancora presente nei processi mentali. La definitiva scomparsa di quest’ultima segna l’ingresso dello yogin nell’inconcepibile dimensione dell’essere (la buddhi) in cui il cosmo non si è ancora manifestato nella sua varietà. A questo punto, il purusha si riflette senza alcuno schermo riduttivo sull’intelletto (buddhi), che, realizzata la sua assoluta separatezza da quello, rientra nella prakriti, lasciando il purusha in uno stato di assoluto isolamento (kaivalya).

 

Il tantrismo

Un momento importante dell’evoluzione dello Yoga è rappresentato dalla diffusione del tantrismo, una corrente filosofica e religiosa documentata a partire dal IV secolo d.C., che modifica la sensibilità religiosa dell’induismo, indipendentemente dalle divisioni settarie, e che si denomina da Tantra, dal nome della categoria di trattati che ne contengono le teorie e le pratiche.

Il tantrismo si propone come la via mistica di redenzione più idonea alla decaduta sensibilità religiosa dell’uomo del Kali-yuga. Esso non si oppone pertanto alla religiosità tradizionale, ma ritiene doveroso integrarla.

Anche se il contenuto dei Tantra è eterogeneo, le sezioni prevalenti sono generalmente quelle dedicate alla ritualistica - dal carattere spesso magico ed esoterico - e allo Yoga, entrambi fondati su una metafisica incentrata sul concetto di Shakti, l’Energia creatrice divina operante nel cosmo a ogni livello e con la quale il fedele può entrare in contatto e, al limite, identificarsi.

Al di là delle problematiche che l’interpretazione di questa vasta e complessa corrente ha suscitato (la sua origine, i rapporti con la cultura «ufficiale» espressa nella letteratura in sanscrito, ecc.) possiamo rilevare innanzitutto che in esso viene non solo confermata, ma sviluppata fino alle sue estreme conseguenze la funzione della pratica rituale e ascetica (arricchita di svariati elementi dal carattere esoterico: formule, invocazioni, costruzione di immagini sacre, ecc.) come mezzo per ottenere la «liberazione». Viene anche ripresa e ampliata l’antica nozione dell’organicità e profonda unità dell’universo, per la quale esso è organizzato secondo modelli che sostanzialmente si ripetono nei vari livelli dell’essere. Alla luce di questa nozione, l’azione rituale e le tecniche meditative acquistano un’efficacia di portata cosmica.

Dal punto di vista filosofico, il tantrismo, erede, in questo, del Vedânta (uno dei più importanti sistemi filosofici indiani), recupera gran parte dell’articolazione cosmologica del Sâmkhya (cioè la serie dei tattva esposta precedentemente), integrandola però in una metafisica fortemente unitaria, nella quale la «natura» (prakriti) finisce per coincidere con l’attività dell’«Energia» divina (Shakti). Un’«Energia» iconograficamente vista come la compagna del dio supremo (Shiva o Vishnu), ma filosoficamente ridotta a suo attributo, dal momento che, come si ripete in più luoghi, la Potenza (Shakti) e il detentore di questa Potenza (Shaktimân) sono praticamente indistinguibili.

Il principio assoluto, chiamato anche Brahman, è qualificato in termini di essere, coscienza e beatitudine (rispettivamente: sat, cit e ânanda): una coscienza che è assoluta in quanto priva di oggetto e coincidente in questo senso con il puro essere; una beatitudine che deriva dalla pienezza di questo essere, che riposa in sé, senza avvertire la necessità di proiettarsi verso qualcosa che sia altro da sé.

Nelle speculazioni metafisiche sviluppate in seno agli ambienti shivaiti, la dimensione or ora descritta prende anche il nome di Paramashiva (Shiva supremo). Il primo sviluppo nel senso della creazione dell’universo è costituito dalla comparsa della Shakti, che inizialmente è indistinguibile da Shiva. Seguono poi il «principio» (tattva) detto Sadâshiva (Shiva eterno), in cui comincia a definirsi una separazione tra soggettività e oggettività; e, sempre nella direzione di una maggiore differenziazione, il «principio» chiamato Îshvara (il Signore), dopo il quale appaiono le tre forme divine Brahmâ, Vishnu e Rudra, che determinano rispettivamente la creazione, il mantenimento e la distruzione dell’universo.

La manifestazione vera e propria del cosmo inizia a svilupparsi a causa del comparire della mâyâ, la modalità dell’Energia che è responsabile della separazione tra soggetto e oggetto e di un mondo in cui la pienezza dell’essere è frantumata in infiniti oggetti. La mâyâ agisce infatti, da questo punto di vista, come la prakriti del Sâmkhya, generando al suo interno le categorie che costituiscono la soggettività (buddhi, ahamkâra e manas) e quelle dell’oggettività (tanmâtra e mahâbhûta).

In essa, inoltre, sono contenuti tutti i samskâra e le vâsanâ prodotti dalle azioni (karman) compiute durante le precedenti esistenze del mondo.

L’elemento cosmico Terra è l’ultimo a essere emanato dalla Shakti, la quale poi riposa in esso nella sua potenzialità.

L’idea dell’Energia riposante nella sua potenzialità è espressa dall’immagine di un serpente arrotolato su se stesso: da qui gli appellativi Kundalinî (da kundala, «spira») o Bhujanginî («serpente femmina»), che si riferiscono a questa forma della Shakti. I testi tantrici distinguono tra una «grande Kundalinî», la Shakti prima della manifestazione cosmica, e Kundalinî, semplicemente, che è la forma con cui essa è presente in ogni uomo e che è compito della prassi ascetica - il sâdhana - «risvegliare», con le conseguenze di cui si dirà più avanti.

 

Teorie fonetiche e mantra

Un aspetto importante di questa concezione cosmologica è costituito dalle teorie fonetiche, che danno al suono (e soprattutto quello articolato) una dimensione in parte autonoma e parallela rispetto a quella del mondo dell’esperienza.

Anche il suono articolato, infatti, viene visto come una espressione della potenza creatrice (Shakti) che, come ogni altro fenomeno, ha attraversato, prima di assumere la forma con cui si presenta in questo universo, vari livelli ontologici.

Così, l’emergere dell’Energia nell’immobilità della Coscienza divina è accompagnato da una sorta di «vibrazione» che viene definita shabda-brahman, il «suono (o la Parola, shabda) assoluto». Questo suono primordiale è detto anche anâhata, «non percosso», perché, diversamente dai suoni percepiti dai sensi, chiamati dhvani («risonanza»), non è provocato da cause materiali.

Successivamente, al livello di Sadâshiva, si manifesta il nâda, indistinta e inconcepibile sonorità in cui sono compresenti nomi, idee e oggetti; e poi, nel «principio» di Îshvara, il bindu, il «punto» (che nella grafia del sanscrito corrisponde alla nasalizzazione), il quale esprime l’idea di un intero universo presente alla coscienza in modo non spaziale. In questa «categoria», infatti, la divinità ha coscienza dell’emergere di un oggetto; ma quest’oggetto non è avvertito come un qualcosa distinto da sé e perciò, appunto, non ha estensione spaziale.

In questo bindu è presente Kundalinî in forma ancora potenziale e strettamente congiunta con Shiva, l’altro principio divino. I testi, per differenziare questa forma dell’Energia da quella individuale, la indicano come «la grande Kundalinî».

L’oggetto (la cosa concreta), la sua rappresentazione mentale e il nome che lo designa, hanno quindi tutti una medesima origine. Da questo punto di vista tutte le potenzialità e i princìpi dell’universo hanno un equivalente nelle cinquanta lettere dell’alfabeto sanscrito; equivalente che non è da ricercarsi nei suoni concreti ma nella loro forma trascendente, ossia appartenente a una dimensione dell’essere più elevata di quelli. In questa forma, detta anche bîja («seme») esse sono distribuite nel «corpo sottile» - di cui si dirà fra poco - e possono essere variamente impiegate da chi è in grado di suscitarne la potenza. Una singola lettera o una formula più o meno complessa impiegata in questa prospettiva, cioè al fine di richiamare lo stesso potere insito nei suoni, prende il nome di mantra.

Quindi, secondo questa concezione filosofica, non solo la materia e la mente - intesa in senso lato - sono sostanzialmente omogenei, in quanto prodotti da un’unica causa, l’Energia (Shakti), ma sono entrambi a loro volta riconducibili a uno stesso principio trascendente - la suprema Coscienza - in quanto l’Energia è appunto uno dei suoi modi di essere.

Lo stesso principio trascendente è poi presente all’interno dell’uomo, di cui costituisce il sé (âtman) in una forma limitata dal corpo individuale. L’anima individuale, perciò, non è che transitoriamente (illusoriamente, secondo alcuni) molteplice, ossia lo è fino al momento della liberazione, nella quale, liberatasi dai legami che la vincolano, recupera la sua dimensione universale.

Una prima considerazione da fare, a questo riguardo, è che questa concezione comporta una rivalutazione della realtà dell’esperienza, nella quale non si vede più un peso inerte da cui separarsi, ma un campo d’azione di forze divine da cogliere nella loro reale portata e da valorizzare.

Un’altra considerazione è che esiste una stretta correlazione tra tutti i livelli della realtà (materiale, mentale, spirituale) e tra gli elementi di uno stesso livello (per esempio, tra l’elemento Fuoco e l’elemento Acqua).

 

Il corpo sottile

Il corpo umano, in particolare, è una sintesi e un modello del cosmo: non tanto il corpo inteso come forma concreta, la cui conformazione è soggetta alle leggi del karman e quindi alle infinite contingenze dei destini individuali, ma piuttosto il cosiddetto «corpo sottile» (sûkshma-sharîra), una struttura che contiene la sfera psichica e la complessa «memoria» delle infinite reincarnazioni precedenti, che ha vissuto rimanendo sempre identico a se stesso, benché rivestito di corpi materiali differenti.

In questo modello, i testi tantrici - e quelli di hatha-yoga in particolare - individuano sia gli omologhi dei luoghi del cosmo (per esempio, il monte Meru, asse dell’universo nella cosmografia indiana, coincide con la spina dorsale), sia gli elementi e le forze che agiscono nella natura. Queste equivalenze cosmiche del corpo umano costituiscono lo sfondo esoterico delle tecniche descritte nei testi di hatha-yoga.

Tra queste, un posto di particolare rilievo è occupato dal prânâyâma, il «controllo del soffio». Il prâna, in questo contesto filosofico, non è più concepito come un dinamismo comune alla mente e alle funzioni sensorie, ma come una sorta di «fluido», o di energia che pervade l’universo determinando ogni forma di attività; esso permea così anche gli organismi, dando loro vitalità e regolandone tutte le funzioni. In questo senso, il prâna non abbandona mai il corpo se non al momento della morte, e la funzione della respirazione non è tanto quella di immettervelo, quanto di stimolarne la circolazione7.

7 Cfr. J. Varenne, op. cit., p. 111.

Il prâna è inoltre il principale elemento di raccordo tra il corpo materiale e quello «sottile». La circolazione del prâna avviene in quest’ultimo attraverso dei condotti «sottili» (nel senso, ripetiamo, di non percepibili dai sensi), le nâdî, formanti una rete fitta come quella delle vene e delle arterie. Il loro numero è pressoché incalcolabile: la Shiva-samhitâ, per esempio, afferma che esistono 350.000 nâdî e ne elenca quattordici8.

8 Cfr. Shiva-samhitâ, II, 13-15.

Le nâdî più importanti sono tre:

1. sushumnâ, che corre parallelamente alla spina dorsale, dal mûlâdhâra-chakra, fino al «foro di Brahmâ» (brahma-randhra), un passaggio mistico in cima al cranio;

2. idâ, che procede con andamento sinusoidale dal mûlâdhâra-chakra, incrocia la sushumnâ presso ogni chakra (o, secondo alcuni, al loro interno) e sfocia nella narice sinistra;

3. pingalâ, speculare alla nâdî precedente e collegata con la narice destra.

Lungo la sushumnâ sono disposti i chakra, «cerchi», «centri» (detti anche padma, o «loti»), che sono le zone più importanti del «corpo sottile» perché maggiore è in essi la concentrazione delle forze cosmiche e delle funzioni vitali dell’organismo.

Sotto questo profilo, i chakra principali, sette di numero, possono essere suddivisi in tre settori:

1. il primo, comprendente i cinque chakra inferiori, dal mûlâdhâra al vishuddha, è in relazione con la parte più materiale, sensibile, della creazione, formata dai cinque elementi cosmici;

2. il secondo, comprendente principalmente l’âjñâ-chakra (e altri chakra minori che si trovano al di sopra di esso, che non sempre vengono ricordati), corrisponde alla struttura mentale;

3. il terzo, infine, costituito dal sahasrâra-chakra, posto alla sommità del capo (o, secondo alcuni, poco al di sopra), corrispondente al non-luogo della trascendenza e dell’unità dell’essere.

Nel seguente elenco riportiamo in forma schematica le principali caratteristiche dei sette chakra più noti, indicando le loro connessioni con alcuni fenomeni della creazione, di cui fanno parte, come si è accennato poco fa, anche le forme divine:

1. mûlâdhâra-chakra:

- localizzazione: tra i genitali e l’ano, all’inizio della colonna vertebrale (e della sushumnâ);

- principio: elemento cosmico Terra;

- colore dell’elemento: giallo;

- mantra dell’elemento: lam;

- bîja-mantra: vam, sham, sham, sam;

- divinità: Brahmâ, tradizionalmente associato alla funzione della creazione, rappresentato con quattro braccia e altrettanti volti.

- funzioni organiche: odorare, camminare;

- simboli: un loto rosso con quattro petali rivolto verso il basso. Sul pericarpo di questo loto sono raffigurati un quadrato giallo, simbolo dell’elemento terra, e un triangolo equilatero con il vertice rivolto verso il basso, chiamato kâmarûpa, (simbolo della yoni, organo genitale femminile e rappresentante la matrice universale). All’interno di questo triangolo, è raffigurato un linga, simbolo fallico del dio Shiva, a sottolineare la compresenza dei due princìpi universali, Shiva e Shakti. Quest’ultima è soprattutto presente in forma di Kundalinî attorcigliata attorno al suddetto linga, in modo da formare tre spire e mezza. Il capo di Kundalinî chiude l’apertura della sushumnâ, detta brahma-dvâra (porta di Brahmâ).

2. svâdhishthâna-chakra:

- localizzazione: alla base degli organi genitali;

- principio: elemento cosmico Acqua;

- colore dell’elemento: bianco;

- mantra dell’elemento: vam;

- bîja-mantra: ba, bha, ma, ya, ra, la;

- divinità: Vishnu;

- funzioni organiche: gustare, toccare;

- simboli: loto di colore rosso vivo, con sei petali, sul cui pericarpo sono una candida mezzaluna bianca, simbolo dell’elemento Acqua. Al di sopra della sillaba vam figura il dio Vishnu sul mitico uccello Garuda.

3. manipûra-chakra:

- localizzazione: all’altezza dell’ombelico;

- principio: elemento cosmico Fuoco;

- colore dell’elemento: rosso;

- mantra dell’elemento: ram;

- bîja-mantra: da, dha, na, ta, tha, da, dha, na, pa, pha;

- divinità: Rudra;

- funzioni organiche: vedere, evacuare.

- simboli: un loto blu scuro con dieci petali recanti altrettante lettere; un triangolo rosso, simbolo dell’elemento Fuoco.

4. anâhata-chakra:

- localizzazione: all’altezza del cuore;

- principio: elemento cosmico Aria;

- colore dell’elemento: grigio;

- mantra dell’elemento: yam;

- bîja-mantra: ka, kha, ga, gha, na, cha, ja, jha, ña, ta, tha;

- divinità: Îshvara;

- funzioni organiche: toccare, generare;

- simboli: loto con dodici petali dorati; all’interno della corolla sono due triangoli sovrapposti in modo da formare una «stella di Davide». Al centro di questa figura un triangolo, altro simbolo della Shakti.

5. vishuddha-chakra:

- localizzazione: all’altezza della laringe;

- principio: elemento cosmico Etere;

- colore dell’elemento: bianco;

- mantra dell’elemento: ham;

- bîja-mantra: am, âm, im, îm, um, ûm, rim, rîm, lim, lîm, em, aim, om, aum, la nasalizzazione m, e l’aspirata ah;

- divinità: Sadâshiva;

- funzioni organiche: udire, parlare;

- simboli: loto con sedici petali, di colore rosso scuro, sul cui pericarpo è un cerchio bianco, all’interno del quale è raffigurato un elefante.

6. âjñâ-chakra:

- localizzazione: tra le sopracciglia;

- princìpi: manas, ahamkâra e buddhi;

- colore: bianco;

- bîja-mantra: ha, ksha (con cui terminano i cinquanta fonemi dell’alfabeto sanscrito);

- mantra principale: om;

- divinità: Paramashiva;

- simboli: loto con due petali bianchi; sul pericarpo, ugualmente bianco, è un triangolo bianco con il vertice rivolto verso il basso (simbolo della yoni). Al centro di questo triangolo si trova la sillaba om.

7. sahasrâra-chakra:

- localizzazione: alla sommità del capo; nel «foro di Brahmâ» (brahma-randhra), coincidente con la fontanella;

- principio: nessuno, poiché corrisponde alla dimensione che è al di là della creazione;

- bîja-mantra: tutte le sillabe dell’alfabeto sanscrito, ripetute venti volte;

- simboli: loto con mille petali, capovolto, e una Luna piena con inscritto un triangolo. Quest’ultima immagine, la Luna (Soma), ha un particolare significato simbolico, che deriva da antiche concezioni delle forze rigeneratrici del cosmo, documentate non solo nella cultura indiana. Nell’antica religione vedica il soma (l’equivalente sanscrito di «Luna» è maschile) era una pianta da cui veniva ricavata una bevanda allucinogena, usata nei rituali solenni; e si immaginava che la Luna periodicamente se ne riempisse per lasciarla poi cadere sulla Terra, dove costituiva la linfa vitale per piante, uomini e dèi.

Nella fisiologia mistica dello hatha-yoga - per non citare che uno dei tanti sviluppi di questa simbologia - il soma, detto anche amrita («immortalità», «ambrosia») è contenuto nella «Luna» presente nel sahasrâra-chakra, da dove fluisce per essere consumato dal fuoco del manipûra-chakra. Secondo altre interpretazioni9 questo fuoco (chiamato kâlâgni, come il fuoco che nella mitologia indù distrugge ciclicamente l’universo) è situato nel mûlâdhâra-chakra ed è connesso con la Shakti, che qui, come abbiamo visto, risiede nella sua forma potenziale.

9 Cfr. S. D. Dasgupta, Obscure religious cults, Calcutta, 1969, pp. 237-238.

La distruzione di quest’ambrosia provoca la decadenza del corpo; viceversa, il controllo dei due princìpi - quello della distruzione e quello della permanenza - permette di rigenerare perpetuamente il corpo.

Ricordiamo, a questo proposito, che, secondo l’etimologia tradizionale, il termine hatha del composto hatha-yoga significa «unione di Sole (ha) e Luna (tha)», i quali sono assimilati alle due nâdî pingalâ e idâ, ai due «soffi vitali» prâna e apâna e ad altri elementi del corpo sottile.

 

Il risveglio di Kundalinî

L’unificazione suprema è comunque quella tra la Shakti e l’Assoluto, perché corrisponde, come abbiamo visto, all’ineffabile livello dell’essere che è al di là di ogni possibile determinazione.

Per realizzare in sé questa dimensione, lo yogin deve risvegliare con apposite tecniche la propria Kundalinî e farla ascendere attraverso la sushumnâ fino al chakra superiore. In quest’ascesa la Shakti perfora i chakra inferiori esaltandone dapprima le potenzialità (e aumentando, di conseguenza i «poteri» dello yogin) e poi, procedendo verso l’alto, riassorbendole in sé.

Si compie così il processo inverso a quello che ha portato alla manifestazione dell’universo e l’asceta sperimenta quindi una totale «dissoluzione» (laya), dopo la quale egli, se pure continua a esistere in questo mondo, non appartiene più a esso, poiché il suo sé individuale si è integrato definitivamente nell’Assoluto.

 

Il sâdhana della Gheranda-samhitâ

Cerchiamo ora di descrivere brevemente il percorso ascetico delineato dalla Gheranda-samhitâ e da essa chiamato ghatastha-yoga, «Yoga del corpo».

La parola ghata («brocca») è in questo contesto usata per designare l’organismo umano in tutta la sua complessità, in quanto costituito dal corpo materiale e da quello sottile, e che deve essere «purificato» (cfr. Gheranda-samhitâ I, 8) da una pratica yoghica articolata in sette «adempimenti» (sâdhana), corrispondenti, nel testo, ad altrettanti capitoli.

Ogni «adempimento» è finalizzato all’acquisizione di una determinata qualità o di un livello spirituale. Nell’ordine abbiamo:

1. shatkarman (sei pratiche): purificazione (shodhana);

2. âsana (posture): forza (dridhatâ);

3. mudrâ (sigilli, gesti): fermezza (sthiratâ);

4. pratyâhâra (ritrazione dei sensi): quiete (dhîratâ);

5. prânâyâma (controllo del soffio): leggerezza (lâghavâ);

6. dhyâna (meditazione): percezione immediata del Sé (pratyaksha);

7. samâdhi (enstàsi): distacco (nirlipta).

Questa articolazione ricorda solo in parte gli «otto membri» (ashtânga) di cui parlano gli Yoga-sûtra di Patañjali. Le differenze più rilevanti, quelle che risaltano a una prima, anche superficiale, analisi sono:

1. l’assenza di yama (astinenze) e niyama (osservanze);

2. la comparsa di mudrâ e shatkarman;

3. l’assenza della dhâranâ (concentrazione) come momento autonomo e, come vedremo, la sua inclusione tra le mudrâ, in una forma totalmente rielaborata e tipicamente tantrica (quella della pañcha-dhâranâ) e in una posizione precedente rispetto quella del prânâyâma (ma la successione delle fasi elencate non deve essere intesa in senso strettamente cronologico);

4. il pratyâhâra precede (e non segue) il prânâyâma.

A proposito dell’assenza di yama e niyama osserviamo che nel testo non mancano, comunque, indicazioni sul comportamento e l’atteggiamento mentale dello yogin. Si pensi, per esempio, alla condanna dell’egoismo nel quarto verso del primo capitolo e alle indicazioni sul luogo e il tempo in cui praticare lo Yoga contenute nel quinto capitolo. La Gheranda-samhitâ quindi non sottovaluta i risvolti etici dello Yoga, ma tende a sottolineare che la prassi ascetica è un elemento insostituibile nella ricerca della verità (cfr. I, 5).

L’espressione shatkarman indica delle pratiche di pulizia e dei lavaggi interni, destinati a purificare l’organismo nel senso più ampio del termine. Si tratta di norme che hanno non soltanto un valore igienico, ma, in alcuni casi, anche mistico. Per esempio, la pulizia delle «aperture auricolari» (I, 32) può portare lo yogin a una delle massime esperienze realizzabili, l’ascolto del «suono interiore».

Gli âsana sono uno dei «membri» dello Yoga di Patañjali, ma a differenza di quest’ultimo, i trattati di hatha-yoga vi dedicano un’attenzione particolare. Generalmente, essi affermano che le posture rivelate dal dio Shiva ammontano a 8.400.000; in realtà, il numero di quelle descritte nei testi è di gran lunga inferiore: nella Gheranda-samhitâ ne compaiono trentadue, parte delle quali sono comuni anche alla Hathayoga-pradîpikâ, che ne descrive quindici. Nella traduzione del secondo capitolo, dedicato agli âsana, così come in quelli dedicati alle mudrâ e al prânâyâma, abbiamo fatto riferimento a quest’ultimo testo, per offrire, dove necessario, eventuali integrazioni e segnalare le maggiori differenze, senza con questo avere la pretesa di esaurire la comparazione tra i due «metodi».

Le mudrâ, il terzo gradino del sâdhana della Gheranda-samhitâ, sono tecniche tipiche dello hatha-yoga, che le impiega soprattutto nella pratica del prânâyâma. Poiché uno dei vari significati del termine mudrâ è «sigillo», secondo un’etimologia corrente sono indicate con questo nome quelle posizioni del corpo e quelle contrazioni muscolari che «sigillano» all’interno del corpo il soffio vitale (prâna) e provocano così il risveglio di Kundalinî. Assieme a esse vengono enumerati i bandha, «legamenti», contrazioni muscolari, il cui nome richiama anch’esso la capacità di «legare», cioè trattenere, il soffio vitale.

Tra le mudrâ, inoltre, la Gheranda-samhitâ inserisce anche la «quintuplice concentrazione» (pañcha-dhâranâ), una tecnica meditativa alquanto complessa, che implica un’eccezionale padronanza del prânâyâma. La pañcha-dhâranâ si esegue infatti «indirizzando» il «soffio vitale» e la mente sulle zone del corpo sottile connesse con i cinque elementi cosmici (terra, acqua, fuoco, aria, etere), ognuno dei quali è connesso con uno dei cinque chakra. Queste concentrazioni, grazie alle quali lo yogin ottiene potere sull’elemento di volta in volta meditato, sembrano preludere all’ascesa di Kundalinî.

Segue poi il pratyâhâra (ritrazione dei sensi). Come si è già accennato, il pratyâhâra, diversamente da molte altre consimili articolazioni della pratica yoghica, occupa una posizione anteriore rispetto al prânâyâma. Questa precedenza è probabilmente motivata dalla grande importanza attribuita dalla Gheranda-samhitâ al prânâyâma, del quale infatti fanno parte non solo pratiche respiratorie e di controllo del «soffio», ma anche tecniche meditative particolarmente elevate. è anche vero, tuttavia, che la successione degli «adempimenti» non deve essere intesa in modo troppo rigido e che, soprattutto a certi livelli, solo l’esperienza di un guru è in grado di suggerire al praticante le tecniche più adeguate. Le indicazioni della Gheranda-samhitâ, a proposito del pratyâhâra, sono estremamente scarne, benché si tratti di una pratica di non facile realizzazione. Il pratyâhâra segna il superamento del livello più propriamente materiale, corporeo, dell’ascesi e l’inizio di pratiche che coinvolgono direttamente la sfera del corpo sottile.

In effetti, il «soffio» che è oggetto del prânâyâma, il successivo stadio secondo la Gheranda-samhitâ, non deve essere inteso, lo ricordiamo, nell’accezione puramente materialistica di «aria», ma soprattutto in quella di una sottile forma di energia cosmica veicolata dal respiro. Questo «soffio» deve essere, in un primo momento, espanso per tutto il corpo - donde l’importanza della purificazione delle nâdî - e infine sospinto nella sushumnâ attraverso la «porta di Brahmâ» (brahma-dvâra) del mûlâdhâra-chakra.

L’ingresso del prâna - o, più precisamente, di prâna e apâna, i due «soffi» più importanti - nella sushumnâ, avviene a condizione che Kundalinî, che è immaginata ostruirla con il capo, venga «risvegliata». Di conseguenza, il «soffio» e l’Energia risalgono questa nâdî assieme perforando i vari chakra, con gli effetti di cui si è detto. Contemporaneamente anche la mente, partecipe essa pure del dinamismo del «soffio», rallenta la propria attività e dà allo yogin la possibilità di realizzare tecniche meditative sempre più elevate.

L’ascesa di Kundalinî è uno dei principali risultati che lo yogin può conseguire, anche se, come si ripete in più luoghi, il fenomeno può verificarsi casualmente, benché in tal caso - e se l’individuo è impreparato - oltre ad essere inefficace dal punto di vista del progresso spirituale, può avere effetti nocivi.

Per tutti questi motivi la Gheranda-samhitâ introduce proprio a questo punto una ricca serie di indicazioni sul luogo, il tempo e la dieta più idonei per chi si accinge a praticare il prânâyâma.

Nello hatha-yoga, in genere, indipendentemente dalle differenze tra i «metodi» particolari, l’importanza del prânâyâma è tale che in più luoghi si afferma che tutti i successivi progressi, ossia la realizzazione di pratyâhâra, dhâranâ (che, lo ripetiamo, per lo più sono successivi al prânâyâma), dhyâna e samâdhi, non sono che esecuzioni sempre più perfette e complete delle sue tecniche.

Il dhyâna (meditazione) è, nella Gheranda-samhitâ, suddiviso in tre fasi a seconda dell’oggetto visualizzato.

Nel primo stadio, l’oggetto di meditazione è la «divinità d’elezione» (ogni adepto, così come, in genere, ogni devoto indù, ha una divinità personale cui rende un culto particolare) associata a immagini più o meno concrete, dal valore fortemente simbolico. Nel secondo è visualizzata una fiammella, concepita come l’immagine del sé individuale e dell’assoluto (Brahman), i quali vengono così identificati. La terza forma implica il passaggio di Kundalinî, congiunta con il sé individuale, oltre l’âjñâ-chakra: preludio al definitivo riassorbimento dell’essere individuale nell’assoluto, posto nel sahasrâra-chakra.

Questa esperienza di profonda unità dell’essere è il samâdhi (enstàsi), definito anche «Yoga regale» (râja-yoga), per la sua eccellenza spirituale rispetto a tutti gli altri momenti dell’ascesi. Di esso, la Gheranda-samhitâ descrive in modo molto sommario (trattandosi in effetti di esperienze ineffabili) sei modalità connesse con mudrâ, con tecniche del prânâyâma o ancora con momenti della meditazione (dhyâna). Conseguenza del samâdhi è il «distacco» (nirlipta) ossia la «liberazione» dalla schiavitù alle leggi e ai limiti della natura.

 

Il testo e le principali edizioni

La Gheranda-samhitâ (lett. «La collezione di Gheranda») contiene gli insegnamenti impartiti da Gheranda al discepolo Chandakâpâli, due nomi che non compaiono altrove e ai quali non è possibile attribuire alcuna datazione. Il maestro, peraltro, è ritenuto da Briggs un vishnuita di origine bengalese10; il discepolo reca un nome che in qualche modo richiama l'antica setta shivaita dei kâpâlika («portatori del teschio»), così chiamati dalla loro usanza di portare un teschio come ciotola, le cui pratiche presentano effettivamente punti di contatto con quelle dei gorakhnâthî 11.

10 G. W. Briggs, Gorakhnâth and the Kânphatha Yogis, Calcutta, 1938 (rist. Delhi, 1982), p. 254.
11
Su questo argomento vedi D. N. Lorenzen, The Kâpâlikas and Kâlâmukha: two lost shaivite sects, Berkeley and Los Angeles, 1972.

Per quanto riguarda la datazione dell’opera, M. L. Gharote, curatore dell’edizione di Lonavla, propone la fine del XVII o l’inizio del XVIII secolo.

Questa ipotesi si basa essenzialmente su un confronto tra la Hathayoga-pradîpikâ e la Gheranda-samhitâ. Le due opere, infatti, presentano numerosi versi comuni; ma le tecniche descritte nella Gheranda-samhitâ sono più numerose, e questo potrebbe indicare la sua appartenenza a una fase più progredita della ricerca ascetica, e quindi cronologicamente posteriore all’epoca di redazione della Hathayoga-pradîpikâ, compresa tra la metà del XIV secolo e la metà del XVI. D’altra parte, poiché il più antico manoscritto della Gheranda-samhitâ in nostro possesso risale al 1802, se noi ipotizziamo un arco cronologico di circa un secolo intercorrente tra l’elaborazione dell’opera e la sua fissazione in manoscritto, otteniamo effettivamente questa datazione.

Tuttavia, lo stesso editore considera che entrambi i testi, la Gheranda-samhitâ e la Hathayoga-pradîpikâ, potrebbero aver attinto a fonti comuni e in questo caso verrebbe invalidato il termine più basso della datazione.

 

Segnaliamo infine le seguenti edizioni della Gheranda-samhitâ:

- The Gheranda Samhitâ, translated into English by R. B. S. Chandra Vasu, Allahabad, 1914-15 (rist. New Delhi, 1980).

- R. Schmidt, Fakire und Fakirtum in alten und modernen Indien, Berlin, 1921.

- Gheranda Samhitâ. Ed. by Swami Digambarji and M. L. Gharote, Lonavla, 1979 (edizione critica stabilita sulla base di quattordici manoscritti e sei testi a stampa).

- The original Yoga: as expounded in Shiva-samhitâ, Gheranda-Samhitâ and Pâtañjala Yoga-Sûtra, original text in Sanskrit translated, edited and annotated with an introduction by S. Ghosh, New Delhi, 1980.

- Pure Yoga: a translation from the Sanskrit into English of the tântric work, the Gherandasamhitâ, with a guiding commentary by Yogî Pranavânanda, ed. with intr. by Tony Rodriguez, Kanshi Ram, Delhi, 1992.

 


 

CAPITOLO SECONDO

 

1. «Le posture (âsana), in complesso, sono numerose come le specie viventi; ottomilioniquattrocentomila sono state esposte da Shiva.

Il numero riportato nel testo è, letteralmente, «84 laksha» (un laksha corrisponde a centomila) e si tratta, evidentemente di una cifra simbolica. Il numero 84 ha un particolare valore mistico nella mitologia e nel folklore del mondo indiano; tanti sono, ad esempio, i siddha, misteriose figure di asceti che, grazie allo Yoga, hanno acquistato immortalità e poteri magici e le cui leggende sono correnti in diversi contesti culturali «tantrici» di India, Nepal e Tibet.

2. Ottantaquattro tra queste sono le principali, e trentadue, in questo mondo, le propizie.

3. Siddha, padma, bhadra, mukta, vajra, svastika, simha, gomukha, vîra, dhanus,

4. mrita, gupta, matsya, matsyendra, goraksha, pashcimottâna, utkata, samkata,

5. mayûra, kukkuta, kûrma, uttânakûrma, uttânamanduka, vriksha, manduka, garuda, vrisha,

6. shalabha, makara, ushtra, bhujanga, yoga: queste sono le trentadue posture che, in questo mondo, donano la perfezione.

 

Siddhâsana (la postura perfetta)

7. Si comprima la regione perineale con un tallone e si appoggi l’altro tallone sopra il pene; si porti il mento contro il petto; immobile i sensi controllati, si guardi fissamente tra le sopracciglia. Questa è la postura siddha, che abbatte le porte della liberazione.

Secondo la Hathayoga-pradîpikâ (I, 36) questo âsana si può anche eseguire sovrapponendo, al di sopra dei genitali, il tallone destro a quello sinistro. Inoltre, sempre secondo lo stesso testo, questa postura viene anche chiamata vajra-, mukta- o guptâsana. Tuttavia, il commentario di Brahmânanda al versetto I, 37 spiega che questi termini si riferiscono ad altrettante varianti dei siddhâsana, ossia: nel vajrâsana il tallone del piede sinistro è contro il perineo, quello del piede destro contro i genitali, nel muktâsana entrambi i talloni, sovrapposti, sono appoggiati al perineo (e quindi sotto i genitali); nel guptâsana i talloni, sono portati al di sopra dei genitali.

Come si può notare, nella Gheranda-samhitâ solo il muktâsana corrisponde all’omonima postura descritta dalla Hathayoga-pradîpikâ per il vajra- e il guptâsana, invece, il nostro testo riporta delle descrizioni differenti.

 

Padmâsana (la postura del loto)

8. Si appoggi il piede destro sulla coscia sinistra e il sinistro sulla coscia destra; con le mani si afferrino strettamente, da dietro la schiena, gli alluci; si abbassi il mento sul petto e si volga lo sguardo alla punta del naso. Questo è detto padmâsana, distruttore di ogni malattia.

Il nome più corrente di questa postura è baddha-padmâsana (baddha = «legato»). La Hathayoga-pradîpikâ (I, 45-48) descrive anche una variante di questa postura, in cui le palme delle mani, reciprocamente sovrapposte e rivolte verso l’alto, sono appoggiate fra le cosce; e al jâlandhara-bandha, che si esegue portando la lingua contro il palato. La Shiva-samhitâ descrive invece solo quest’ultimo tipo di padmâsana.

 

Bhadrâsana (la postura fausta)

9. Si uniscano i talloni, rivolti in avanti, sotto lo scroto e si afferrino gli alluci con le mani incrociate dietro la schiena.

10. si esegua il jâlandhara-bandha e si fissi lo sguardo sulla punta del naso. Questo è il bhadrâsana, distruttore di ogni malattia.

Nella Hathayoga-pradipîkâ (I, 53-55) questa postura è anche chiamata goraksha.

 

Muktâsana (la postura libera)

11. Si ponga il tallone sinistro alla base del perineo e sopra questo il tallone destro; il busto e il capo eretti. Questo è il muktâsana, che conduce alla perfezione.

Vedi le osservazioni relative al siddhâsana.

 

Vajrâsana (la postura del diamante)

12. Si rendano i polpacci duri come un diamante e si portino i piedi ai due lati dell’ano. Questo è il vajrâsana, che conduce gli yogin alla perfezione.

Vedi le osservazioni relative al siddhâsana.

 

Svastikâsana (la postura propizia)

13. Quando lo yogin, sedendo con il busto eretto, porta la pianta di ciascun piede tra coscia e ginocchio della gamba opposta, questa postura viene detta svastika.

Lo svastika (da su-asti, «ben-essere»), anche noto in Occidente col nome di “croce uncinata”, è un simbolo di buon auspicio, suggerendo l’immagine del cosmo rotante attorno al suo asse (i segmenti disposti perpendicolarmente ai bracci della croce alludono appunto a questa rotazione. Esso è anche simbolo del Fuoco e, in quanto tale, è talvolta rappresentato, in forma stilizzata, nel manipûra-cakra 1. Il fatto, poi, che sia riferito alla postura qui descritta, potrebbe essere spiegato con la posizione incrociata delle gambe.

1 Cfr. J. Varenne, op. cit., p.168 e R. Guénon, Il simbolismo della croce, Milano, 1973, pp. 99-103.

 

Simhâsana (la postura del leone)

14. Si appoggi sul suolo la sommità degli stinchi, portando sotto lo scroto le caviglie incrociate e rivolte verso l’alto, e le mani sulle ginocchia;

15. si fissi lo sguardo sulla punta del naso eseguendo il jâlandhara-bandha con la bocca spalancata. Questo è il simhâsana, distruttore di ogni malattia.

 

Gomukhâsana (la postura del muso di vacca)

16. Seduti con il busto immobile, si portino ai lati della schiena i piedi distesi sul suolo. Questa è la postura gomukha, che ha l’aspetto di un muso di vacca.

La Hathayoga-pradîpikâ (I, 20) precisa che le gambe devono essere incrociate in modo da portare la caviglia destra contro il fianco sinistro, e viceversa.

 

Vîrâsana (la postura dell’eroe)

17.Si ponga un piede su una coscia, appoggiata sull’altro piede volto all’indietro. Questo è detto vîrâsana.

Il commentario di Brahmânanda al consimile verso I, 21 della Hathayoga-pradîpikâ afferma, invece, che la coscia sotto la quale viene posto uno dei piedi deve essere quella a esso opposta. In questo caso, quindi, le gambe vengono incrociate.

 

Dhanurâsana (la postura dell’arco)

18. Si distendano sul suolo le gambe, dritte come un bastone afferrando saldamente i piedi con le mani dietro la schiena e si tenda il corpo come un arco. Questo vien detto dhanurâsana.

La Hathayoga-pradîpikâ (I, 25) ci informa che sono entrambi gli alluci a essere afferrati; ma non dice che ciò deve avvenire dietro la schiena, e questo autorizza un’altra interpretazione della postura, nella quale uno dei piedi è portato all’orecchio, dal proprio lato, mentre la gamba opposta rimane distesa. Questa variante è attualmente nota con il nome di âkarnadhanurâsana (o «dell’arco teso fino all’orecchio»).

 

Mritâsana (o shavâsana, la postura del cadavere)

19. Giacere supini per terra, come un morto, è lo shavâsana; lo shavâsana elimina la fatica e rasserena la mente.

 

Guptâsana (la postura nascosta)

20. Si nascondano entrambi i piedi ponendoli tra ginocchio e coscia opposti, e ci si sieda sopra. Questo si chiama guptâsana.

Vedi le osservazioni relative al siddhâsana.

 

Matsyâsana (la postura del pesce)

21. Si esegua un padmâsana “libero” (ossia senza incrociare le braccia dietro la schiena) e ci si sistenda supini circondando la testa con i gomiti. Questo è il matsyâsana, distruttore delle malattie.

 

Matsyendrâsana (la postura di Matsyendra)

22. Si spinga indietro lo stomaco e lo si mantenga contratto senza sforzo, si pieghi la gamba sinistra al di là del ginocchio destro.

23. Si appoggi su quella (cioè sulla gamba sinistra) il gomito destro, e il mento della mano destra. Questa postura è chiamata matsyendra.

Secondo un’altra interpretazione del testo, la torsione del busto deve essere molto accentuata, sì che l’addome “assomigli alla schiena”.

Inoltre la Hathayoga-pradîpikâ (I, 26), precisa che il piede destro deve essere portato all’attaccatura della coscia sinistra, e le mani devono afferrare i piedi a esse opposti (la mano sinistra il piede destro, e viceversa).

Matsyendra ("Signore dei pesci”) è una figura leggendaria che, secondo alcune tradizioni avrebbe ricevuto questo nome per aver udito, in forma di pesce, gli insegnamenti sullo Yoga direttamente da Shiva mentre questi li comunicava alla dea Pârvatî 2.

2 Cfr. G.W. Briggs, op. cit., p. 182.

 

Gorakshâsana (la postura di Goraksha)

24. Si inseriscano i piedi, con le piante rivolte verso l’alto, tra la coscia e il ginocchio opposti; si coprano le caviglie con le mani rivoltate;

25. si contragga la gola e si fissi lo sguardo sulla punta del naso. Questo, che chiamano gorakshâsana, conduce gli yogin alla perfezione.

Nella Hathayoga-pradîpikâ (I, 55) gorakshâsana non è che un altro nome del bhadrâsana, che è peraltro descritto in modo diverso da quello della Gheranda-samhitâ.

Goraksha (o Gorakhnâth) è il nome di un asceta leggendario, che avrebbe per primo divulgato gli insegnamenti dello hatha-yoga.

 

Pashcimottânâsana (la postura dell’estensione dorsale)

26. Si distendano sul suolo le gambe, dritte come un bastone, la fronte china tra le ginocchia e, con le mani, si afferrino energicamente i piedi. Questo è il pashcimottânâsana.

Semplificando ho tradotto con “ginocchia” il termine citi che dovrebbe indicare - ma non è certo - i condili tibiali3.

3 Cfr. A. Rosu, «Les marman et les arts martiaux indiens», in Journal Asiatique, CCLXIX (1981), 3-4, p. 422.

La Shiva-samhitâ (III, 92-93) offre una descrizione leggermente diversa di questa postura, anche detta ugrâsana (la postura terribile), nella quale le gambe dello yogin sono divaricate e le mani afferrano la testa.

 

Utkatâsana (la postura sollevata)

27. Sostenendoci sugli alluci, si sollevino i talloni e si appoggi su questi l’ano. Questo è noto come utkatâsana.

 

Samkatâsana (la postura contratta)

28. Si distenda a terra lo stinco sinistro, lo si circondi con la gamba destra e si appoggino le mani sulle ginocchia. Questo è il samkatâsana.

 

Mayûrâsana (la postura del pavone)

29. Si appoggino le palme delle mani per terra, si pongano i gomiti ai lati dell’ombelico e si sollevi il corpo in aria, dritto come un bastone. Questa è la posizione che chiamano mayûra.

30. Essa consuma completamente il cibo indigesto o eccessivo, stimola il calore addominale, fa digerire i veleni, guarisce rapidamente da ogni male (tumori intestinali, febbri, ecc.); certo, l’eccellente mayûra è una postura priva di difetti.

 

Kukkutâsana (la postura del gallo)

31. Eseguito il padmâsana con le braccia inserite tra polpacci e cosce, stare sollevati in aria appoggiandosi sui gomiti è il kukkutâsana.

 

Kûrmâsana (la postura della tartaruga)

32. Si uniscano i talloni incrociandoli al di sotto dello scroto, tenendo il busto e il capo eretti. Questo è detto kûrmâsana.

 

Uttânakûrmâsana (la postura della tartaruga sollevata)

33. Stando in kukkutâsana, afferrare il collo con le mani è la postura uttânakûrma, una postura simile a una tartaruga sollevata.

Secondo alcune interpretazioni, questa postura si eseguirebbe poggiando a terra la schiena, donde la traduzione di uttânakûrma con “tartaruga rovesciata”; secondo altri, il punto d’appoggio sarebbe la sola regione lombare, il che renderebbe più appropriata la resa di uttâna con “sollevata”.

 

Mandukâsana (la postura della rana)

34. Con le piante dei piedi contro i glutei, si esegua il mandukâsana congiungendo gli alluci dietro la schiena e separando le ginocchia.

 

Uttânamandukâsana (la postura della rana sollevata)

35. Restando in mandukâsana si stringa la testa tra i gomiti. Questo, che ricorda una rana sollevata, è l’uttâmanduka.

 

Vrikshâsana (la postura dell’albero)

36. Si porti il piede destro alla base della coscia sinistra e si resti, poi, immobili come un albero nella terra. Questo è chiamato vrikshâsana.

 

Garudâsana (la postura di Garuda)

37. Si premano sul suolo le cosce e gli stinchi, si stabilizzi il corpo per mezzo delle ginocchia e si pongano su queste le mani.

Questo è detto garudâsana.

Garuda è, nella mitologia indù, un gigantesco rapace, dalle forme parzialmente antropomorfe, associato al dio Vishnu, di cui è la cavalcatura.

 

Vrishâsana (la postura del toro)

38. Si appoggi l’ano sulla caviglia destra e si distenda sul suolo l’altro piede, rivolto all’indietro dalla parte sinistra. Questo è il vrishâsana.

 

Shalabhâsana (la postura della locusta)

39. Coricati a terra, proni, con le mani all’altezza del petto, puntando sulle palme delle mani, si sollevano i piedi di una spanna. Gli Indra tra i silenziosi chiamano shalabha questa postura.

Indra è un’antica divinità vedica, la cui importanza, massima in origine, decrebbe con l’affermarsi dell’induismo, pur senza perdere le essenziali caratteristiche di regalità ed eroismo guerresco. Il nome del dio qui ricorre, però, in funzione puramente antonomastica.

 

Makarâsana (la postura del coccodrillo)

40. Ci si distenda poggiando il petto a terra; si divarichino le gambe e si circondi la testa con le braccia ripiegate. Questo è il makarâsana, che aumenta il calore corporeo.

Oltre che “coccodrillo” makara designa un mitico animale marino, che ha la testa di drago, o di tapiro, e corpo di pesce, o di uccello.

 

Ushtrâsana (la postura del cammello)

41. Ci si distenda proni, si afferrino saldamente con le mani i piedi, incrociati sulla schiena, e si contraggano insieme addome e guance. Gli asceti chiamano ushtra questa postura.

 

Bhujangâsana (la posizione del serpente)

42. Ci si distenda a terra, volgendo il volto verso il basso, la parte inferiore del corpo, dagli alluci all’ombelico; poi, puntando a terra le palme delle mani, si sollevi in alto il corpo, proprio come un serpente.

43. La pratica costante del bhujangâsana aumenta il calore corporeo, distrugge tutte le affezioni e risveglia Kundalinî.

 

Yogâsana (la postura dello Yoga)

44. Si portino i piedi, con le piante rivoltate, sulle ginocchia opposte e si appoggino le mani sul suolo, con le palme rivolte verso l’alto;

45. si inspiri e si fissi con lo sguardo la punta del naso. Questa è la postura prediletta dagli yogin per la pratica dello Yoga”.

Questo è il secondo insegnamento, denominato “pratica delle posture”, nel dialogo tra Gheranda e Chanda sullo Yoga del corpo, nella Gheranda-samhitâ.

 


 

CAPITOLO SESTO

 

1. «Il dhyâna (meditazione) è triplice: concreto (sthûla-dhyâna), luminoso (jyotir-dhyâna) e sottile (sûkshma-dhyâna). Viene detto concreto il dhyâna che ha per oggetto un’immagine della divinità; vengono detti luminoso e sottile quelli che hanno per oggetto, rispettivamente, una fiamma e il bindu (che è il Brahman e Kundalinî, suprema divinità).

Nella speculazione tantrica il bindu («punto», «goccia») identifica un momento della creazione in cui l’Energia divina, la Shakti, appare contenere in sé, in forma contratta, non spaziale, il futuro sviluppo dell’universo. In genere si distingue tra il bindu superiore, che segue immediatamente la comparsa dell’Energia divina, e il bindu inferiore, prodotto dalla scissione del primo e che è la causa materiale della creazione.

La fisiologia mistica localizza nel sahasrâra-chakra il bindu superiore, che rappresenta l’unione del dio Shiva e della sua Energia. Sul Brahman v. introd. p. 18.

 

Sthûla-dhyâna (meditazione concreta)

2. Contempli, lo yogin, un immenso oceano d’ambrosia e, in quello, un’isola di gemme, la cui sabbia è di fulgide gemme;

3. e ai quattro lati alberi kadamba in piena fioritura: fitti boschi di alberi kadamba, come un recinto,

4. e piante di mâlatî, mallikâ, jâti e kesara, champaka, pârijâta e loti, che effondono il loro profumo per ogni dove;

5. e nel mezzo immagini lo splendido albero Kalpa con i quattro rami - che sono i quattro Veda - eternamente carichi di frutti e fiori,

L’albero Kalpa è una mitica pianta che cresce nel cielo del dio Indra e ha la proprietà di esaudire tutti i desideri.

Veda («sapere») è il nome con cui viene indicato un corpus di testi sacri redatto in un sanscrito arcaico (detto, appunto, vedico) tra il II e il I millennio a.C. Nella sua accezione più ristretta il termine è riferito alle seguenti quattro «raccolte» (samhitâ): Íg-veda (Veda degli inni), Sâma-veda (Veda delle melodie), Yajur-veda (Veda delle formule sacrificali) e Atharva-veda (Veda delle formule magiche»)1.

1 Cfr. S. Piano, L’India antica e la sua tradizione, Messina-Firenze, 1981, pp. 21-22.

6. e ivi api che ronzano, cuculi che cantano. Contempli colà, con mente salda, un grande padiglione ingemmato,

7. e immagini in esso un magnifico seggio, sul quale contempli la divinità d’elezione (ishta-devatâ) come ha insegnato il Maestro (guru).

L’ishta-devatâ è la divinità cui lo yogin tributa un culto speciale e dalla quale riceve protezione. Sul guru v. supra V, 38 comm. Il testo sembra far riferimento a un chakra di otto petali posto al di sotto dell’anâhata-chakra (e talvolta identificato con lo stesso cuore), il cui nome è, in alcuni testi, ânandakanda-padma. Questo chakra è, appunto, generalmente descritto come la sede dell’anima individuale (jîvâtman), e della «divinità d’elezione».

Le immagini di questa forma di meditazione si trovano anche associate a un un loto di dodici petali (su cui cfr. i versi successivi), disposto sul pericarpo del sahasrâra-chakra, di cui parla il Pâdukâ-pañchaka, un breve testo tantrico. J. Woodroffe ricorda - sulla base del commentario sanscrito - che l’oceano di ambrosia è la Coscienza infinita, l’isola la dimensione al di sopra di tale Coscienza, il seggio la stessa divinità.

8. Viene detta sthûla quella meditazione in cui si contemplano fissamente forma, ornamenti e veicolo della divinità.

Il «veicolo» (vâhana) è l’animale che funge da cavalcatura alla divinità e che, come i suoi ornamenti, ne esprime le caratteristiche individuali.

9. Si immagini nel centro del pericarpo del grande loto dai mille petali (sahasrâra-padma) un loto

10. di colore bianco, fulgido, con dodici petali, contrassegnati da dodici sillabe-seme disposte in questa successione: ha, sa, ksha, ma, la, va, ra, yum, ha, sa, kha, phrem.

11. e, nel pericarpo di questo loto, un triangolo rosso sui cui lati vi sono le lettere a, ka, tha, e sui vertici le lettere ha, la, ksha e al centro il pranava.

Il triangolo con le lettere a-ka-tha ai vertici simboleggia il dispiegarsi dell’universo, colto sotto l’aspetto fonico, a partire dal bindu situato al vertice. Esso rappresenta quindi la stessa Shakti.

Il pranava è il mantra om, assimilato al nâda, il suono primordiale.

12. Si contempli uno splendido seggio in forma di nâda e bindu su cui vi è una coppia di hamsa: i sandali.

La «forma» del nâda è una mezzaluna aperta verso l’alto, quella del bindu è un punto. Su questi due termini v. introd. p. 19.

13. Si contempli colà il Maestro (guru), dio dalle due braccia, dai tre occhi, dio vestito di bianco, cosparso di candido unguento profumato,

14. con corolle di fiori bianchi; accanto all’Energia (Shakti) di colore rosso. Lo sthûla-dhyâna si realizza contemplando in tal modo il Maestro.

La divinità - il «Maestro» - cui fanno riferimento i due versi precedenti è Shiva.

 

Jyotir-dhyâna (o tejo-dhyâna, meditazione luminosa)

15. Ti ho esposto lo sthûla-dhyâna; ascolta ora la meditazione sulla favilla (tejo-dhyâna). Con la meditazione su quella si realizza il fine dello Yoga, che è la visione del Sé.

16. Nel mûlâdhâra vi è Kundalinî che ha la forma di una serpe. Colà risiede il Sé dell’uomo, simile a una fiammella: si contempli il Brahman in forma di favilla (tejas). Eccelso è il tejo-dhyâna.

17. Si contempli tra le sopracciglia quella favilla, che è al di là della mente, la cui essenza è il pranava circonfuso di fiamme. Questo è invero il tejo-dhyâna.

Sul pranava v. supra il comm. al verso 11 di questo capitolo.

 

Sûkshma-dhyâna (meditazione sottile)

18. Hai udito il tejo-dhyâna o Chanda: ascolta il sûkshma-dhyâna. Quando, per buona sorte, Kundalinî si risveglia,

19. in unione con il Sé oltrepassa le orbite oculari, e accede al sentiero regale, invisibile a causa delle sue vibrazioni.

Il «sentiero regale» è il brahma-randhra («foro di Brahmâ»), apertura mistica coincidente con la fontanella dei neonati, attraverso la quale Kundalinî esce dal corpo.

20. Lo Yoga è coronato da successso per mezzo del dhyâna e della shâmbhavî-mudrâ. Questo sûkshma-dhyâna, arduo per gli stessi dèi, deve essere ben custodito.

Sulla shâmbhavî-mudrâ v. supra III, 53-56.

21. Il tejo-dhyâna è cento volte superiore allo sthûla-dhyâna; il sûkshma-dhyâna, l’eccelso, è centomila volte superiore al tejo-dhyâna.

Viste in una prospettiva unitaria queste tre forme di meditazione sembrano implicare dapprima la visualizzazione della propria «divinità d’elezione», che risiede nell’ânandakanda-padma (v. comm. al verso 7); della Shakti (cfr. la seconda forma di meditazione concreta) e del sé individuale (lo hamsa del verso 12). Questi tre sono, nei versi che concludono la descrizione dello sthûla-dhyâna, visualizzati insieme e, in qualche modo, identificati.

Nella «meditazione luminosa» il sé individuale è contemplato in forma di fiammella nel mûlâdhâra-chakra (dove risiede Kundalinî) ed è identificato al Brahman: anche in questo caso si effettua una triplice identificazione. Nel verso 17, il sé individuale è poi visualizzato nell’âjñâ-chakra, dove hanno sede le strutture psichiche. Infine, con la «meditazione sottile, il sé, unito a Kundalinî, giunge al chakra superiore, il sahasrâra-chakra, dove guadagnerà la sua dimensione universale, realizzando il samâdhi.

22. Ti ho così esposto, o Chanda, il dhyâna-yoga estremamente arduo, superiore a ogni altro perché offre la diretta esperienza del sé.»

Questo è il sesto insegnamento, denominato «Yoga della meditazione», nel dialogo tra Gheranda e Chanda sullo Yoga del corpo, nella Gheranda-samhitâ.

    

 

 


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