Prefazione
Trascrizione e pronuncia dei vocaboli sanscriti
Introduzione
PARTE PRIMA
FONDAMENTI TEORICI
Capitolo primo - Medicina e filosofia
Chiavi di lettura
Il Vaisheshika
Le categorie
Le sostanze: gli elementi
Il sé
La mente
Le qualità
Il karman: moto, atto morale, terapia
Gli universali, i particolari, l'inerenza
Il Sâmkhya
Sushruta e il Sâmkhya
Caraka e il Sâmkhya
La malattia come sostanza e come squilibrio
Capitolo secondo - Anatomia e fisiologia
La dottrina dei tre dosha
Definizione dei dosha
Varietà e funzione del vento (vâta, vâyu)
Varietà e funzioni della bile (pitta)
Varietà e funzioni del flemma (kapha, shleshman)
I dosha e gli elementi
I dosha e i guna
I dosha e le costituzioni (prakrti)
Dissezione e costituenti corporei (dhâtu)
PARTE SECONDA
APPLICAZIONI
Capitolo terzo - Medici e pazienti
Istruzione del medico
I congressi ayurvedici: i dibattiti pubblici
Medici veri e falsi
Pazienti, infermieri, case di cura
Capitolo quarto - Patologia, diagnostica e prognostìca
Le costituzioni individuali
Eziologia
Patologia
Diagnostica e prognostica
I segni nefasti nei testi medici e in quelli filosofico-religiosi
Capitolo quinto - Rivitalizzanti e afrodisiaci
Rivitalizzanti ed elixir di lunga vita (rasâyana)
Gli afrodisiaci (vajîkarana)
Capitolo sesto - Terapeutica
Princìpi generali
Farmacologia
Dietetica (âhâra)
Il pañcakarman
Igiene e comportamento
Chirurgia
Capitolo settimo - Embriologia, ostetricia, ginecologia
Concepimento e rinascita
Gravidanza e parto
Conclusione
Appendice
Bibliografia essenziale
Glossario dei fitonimi
Indice analitico
Abbreviazioni
PASSI SCELTI
La terapia âyurvedica è fondata su princìpi qualitativi e quantitativi. Non si fa molta differenza fra un certo cibo o una medicina: sono sempre sostanze, e qualunque sostanza esistente al mondo può diventare un farmaco, se impiegata nel modo giusto. Se i dosha sono in stato di squilibrio, bisogna riportarli alla loro quantità originaria. Abbiamo visto che ogni dosha ha determinate qualità: le sostanze che hanno qualità opposte li fanno diminuire, quelle che hanno le stesse qualità li accrescono. Per esempio, il vento è aggravato da sostanze fredde, secche, leggere, la bile da sostanze untuose, calde, liquide, il flemma da sostanze pesanti, fredde, soffici. Oltre ai dosha, nella terapia, come vedremo, entra in gioco non solo la già nota distinzione fra malattie curabili e incurabili, ma anche una serie di altri fattori come il tipo e la quantità del farmaco, il luogo in cui sarà usato, il tempo, la forza del malato, le condizioni del suo corpo, la dieta, il regime appropriato, la mente, la costituzione e l'età.
Una qualità molto importante, ai fini terapeutici è il sapore (rasa), di cui esistono sei varietà: dolce, acido, salato, pungente, amaro e aspro. Tutte le sostanze esercitano una certa azione sui dosha secondo il loro sapore: le sostanze dolci, acide e salate fanno diminuire il vento, quelle aspre, dolci e amare alleviano la bile, infine quelle astringenti, pungenti e amare diminuiscono il flemma. Viceverssa le sostanze che non fanno scemare i dosa, li accrescno: quindi il vento sarà aggravato da ciò che ha un sapore pungente, amaro e astringente, ecc.
Naturalmente questa teoria funziona finché si constata uno stretto legame fra il sapore di un alimento o di una droga e le altre sue qualità, e sullos cambio di queste qualità con i dosha e con il corpo: mettiamo che un cibo dolce sia considerato anche pesante: esso da una parte accrescerà il flemma, che è pure pesante, dall'altra comunicherà la sua pesantezza al corpo che diventerà più grasso. Tuttavia, nel momento in cui certe sostanze hanno un certo sapore, ma non hanno le qualità che ad esso per ipotesi si accompagnano, oppure suscitano nei dosha e nel corpo delle reazioni affatto dissimili da quelle che ci si aspetterebbe, occorre modifocare la teoria fondamentale. Questa operazione può essere compiuta in molto modi: si possono aumentare o diminuire o cambiare i sapori, oppure si possono combinare i sei sapori fondamentali, attribuendo alle loro combinazioni dei particolari effetti, o ancora aggiungere altre variabili.
Effettivamente la questione dei sapori deve avere suscitato molte discussioni. Nella Carasamhitâ viene descritto un simposio di dieci saggi che si riuniscono nel piacevole boschetto di Caitraratha, e si mettono a discutere dieci diverse tesi sui sapori. C'è chi dice, come Bhadrakâpya, che il sapore è uno solo è forma un'unica entità con l'acqua; c'è chi sostiene che i sapori sono due: uno che fa dimagrire, uno che tranquillizza e nutre (come dire: disgustoso e appetitoso). Pûrnaksha Maudgalya aggiunge a questi due un terzo sapore intermedio, mentre Hiranyâksha Kausika dice che i sapori sono quattro: buono e benefico, buono e malefico, cattivo e benefico, cattivo e malefico. Altri dicono che alla terra e agli altri elementi naturali corrisponde un sapore terroso, acquoso, ecc., oppure che i sapori sono le sei qualità della pesantezza, leggerezza, caldo, fresso, unto, secco.
Il numero dei sapori lievita gradualmente, passando da una tesi all'altra, fino ad arrivare a Kânkâyana, il miglior medico di Bâhlîka, secondo il quale vi sono infiniti sapori, perché le sostanze, le qualità (untuosità, pesantezza, ecc.) le azioni (aumentare o diminuire i costituenti corporei, ecc.) e le gradazioni di gusto sono infinite.
âtreya, maestro del maestro di Caraka, confura vivacenete tutte queste teorie, ma nello dtesso tempo le incorpora alla teoria principale dei sei sapori, modificandole parecchio. âtreya per esempio nega che l'acqua formi un tutt'uno con i sapori: essa è in realtà la loro origine (yoni), il loro sostrato causale, e, aggiunge Cakrapâni, possiamo constatare la differenza fra l'acqua e i sapori grazie alla stessa percezione diretta. Non è vero poi che ci siano un sapore dimagrante e uno calmante, ma tutti i sapori possiedono un'azione dimagrante e una calmante. Teoricamente i sapori, essendo qualità, non potrebbero avere azioni o moti; ma questa ed altre espressioni vanno consideratare metonimie, sostanze- contenitori designate con il nome della loro qualità-contenuto (anche noi diciamo: i dolci). Nominare le sostanze ogni volta che si parla di qualità e di azioni è una pignoleria eccessiva e talvolta persino lo scrupoloso Cakrapâni ci rinuncia. perciò il medico, quando dice che il sapore compie un'azione dimagrante, è perfettamente consapevole che in realtà le azioni vengono compiute dall sostanze che hanno quel sapore e non dalla qualità-sapore.
âtreya poi nega che esistano dei sapori buono e cattivi paragonabili al dolce, all'acido e agli altri sapori: la bontà o meno di un cibo è una valutzione soggettiva. Diverso è il discorso per i sapori benefici e malefici: tali sapori devono il loro effetto al prabhâva, di cui riparleremo fra poco. la tesi forser più difficile da confutare è quella secondo cui i sapori sono infiniti. Cakrapâni ricorre al classico esempio del colore bianco: il sapore dolce, pur avendo sede in tante sostanze diverse (riso sâli, mudga, burro fuso, latte, ecc.)è sempre lo stesso sapore, perché a esso inerisce l'universale «dolcezza», così come il colore bianco delle gru, del latte e del cotone è uno solo, perché a esso inerisce la «bianchezza». Quando alle infinite qualità e azioni che in qualche modo hanno a che fare con i sapori (perché una sostanza unta e pesante non ha lo stesso sapore di una secca e leggera), anche se di fatto i sapori si mescolano nelle sostanze, la loro commistione non dà origine a infinite qualità, o a infinite nature (prakrti) dei sapori stessi, ma le qualità e nature dei vari sapori si mescolano a loro volta. Se io prendo un filo blu e lo intreccio a un filo rosso, il risultato sarà un tessuto che mantiene le stesse qualità delle sue cause, cioè il rosso e il blu. Nello stesso modo, se io prendo una sostanza dolce e pesante, e la mescolo a una sostanza untuosa e fredda, la sostanza risultamte avrà gli stessi sapori e qualità delle sue cause. Quindi la Carakasamhitâ esclude che i sapori, mescolandosi, diano origine a qualità ed azioni diverse da quelle originarie (se non intervengono altri fattori). Allora come mai poco oltre troviamo un elenco di 63 sapori singoli o combinati che si possono trovare nelle sostanze? Perché per aiutare la memoria del medico è meglio ricordargli tutte le situazioni che può incontrare. Ci sono delle droghe che per natura hanno due sapori, come il mugda, che è aspro e dolce; altre hanno da tre a cinque sapori. Caraka non descrive alcuna sostanza con sei sapori ma altri trattati come la Hârîtasamhitâ dicono che li possiede la carne di antilope. Mentre la conoscenza delle combinazioni dei dosha serve a capire i sintomi di una malattia, perché qualsiasi sintomo è correlato a un insieme di dosha, la conoscenza delle combinazioni fra i sapori è finalizzata a vedere quale sostanza causa la malattia. Parlando delle combinazioni dei dosha, Caraka aveva ritenuto utile fare qualche esempio dei loro effetti; per le combinazioni di sapori invece non fa alcun esempio.
Una volta stabilito che i sapori non sono né più né meno che sei, e che la loro combinazione non produce ulteriori sapori, o effetti diversi da quelli dei singoli sapori,. resta solo una possibilità per giustificare tutte le deviazioni della teoria fondamentale che si constatano in pratica: introdurre altre variabili. Queste sono fondamentalmente quattro: l'anurasa, che chiameremo retrosapore per distinguerlo dal nostro retrogusto, il sapore post-digestivo (vipâka), la potenza (vîrya) e la facoltà speciale (prabhâva). Il retroapore non è un settimo sapore diverso dai sei sapori fondamentali, ma è uno di essi e viene descritto contrapponendolo al sapore: si definisce sapore quello che si percepisce di una sostanza secca o fresca all'inizio o alla fine del processo gustativo; il retrosapore invece non viene percepito, ma, essendo indefinibile, viene inferito dai suoi effetti. Il retrosapore non si manifesta in una sostanza che ha un solo sapore, ma soltanto quando vi è una mescolanza di sapori; oppure c'è un retrosapore anche quando si sente un solo sapore, ma è indefinibile. Se ci mettiamo a contare i sapori, i retrosapori e tutte le loro gradazioni, allora sì che sembrano innumerevoli, ma quel che conta alla fine della pratica terapeutica sono i sei sapori e le loro 57 combinazioni.
mentre il sapore delle sostanze viene accertato dalla loro congiunzione con il senso del gusto, il vipâka o sapore post-digestivo è determinato da ciò che accade dopo la fine della digestione. Dunque se il sapore è conosciuto per mezzo della percezione diretta, il sapore post-digestivo è inferito, come il retrosapore, dagli effetti che una certa sostanza causa nel corpo: il vipâka pungente diminuisce lo sperma, blocca le feci e l'urina, aggrava il vento; il vipâka dolce induce l'eliminazione di feci e urina, aumentando il flemma e lo sperma; infine il vipâka acido aumenta la bile, fa espellere le feci e l'urina e distrugge lo sperma. Evidentemente l'effetto da cui è inferito il retrosapore deve manifestarsi prima o durante la digestione, altrimenti retrosapore e sapore post-digestivo verrebbero a sovrapporsi.
Il sapore post-digestivo non viene però inferito ogni qual volta si ingerisce una sostanza, ma viene schematicamente fissato dallo stesso Caraka: le sostanze pungenti, amare e aspre hanno un sapore post-digestivo pungente; quelle acide l'hanno acido e quelle dolci e salate l'hanno dolce. Ci sono naturalmente delle eccezioni a questa regola, come il pepe, che è pungente ma ha il vipâka dolce, o il kulattha, che ha un sapore aspro e un vipâka acido.
Questa teoria dei sapori post-digestivi ha dato origine a molte discussioni, come quella dei rasa, ma, mentre sul numero e sull'identità dei rasa tutti gli autori classici sono d'accordo, riguardo al vipâka Susruta è di avviso diverso dagli altri: il dolce e il pungente sarebbero gli unici sapori post-digestivi.
la potenza o virya è una qualità che viene accertata sia quando la sostanza che la possiede entra in contatto con gli organi di senso, come avevamo visto che accadeva per il sapore e il gusto; sia quando questa sostanza è nel corpo, prima cche sia digerita. caraka afferma che la potenza può essere ottuplice: leggera, acuta, pesante, leggera, untuosa, secca, calda e fredda. Questi otto tipi di virya non sono eguali in tutti i testi: Susruta sostituisce visâda, chiaro, e picchila, mucillaginoso, a pesante e leggero; l'autore dell'Astângasamgraha sostituisce manda, debole, a mrdu, leggero. Cakrapâni dice che picchila e le altre qualità sono state sotintese parlando del sapore ecc., perché il loro effetto non è opposto a quello del sapore, mentre il virya soffice e gli altri prevvalgono sul sapore ecc.: p. es. il pepe (pippalî) ha un sapore pungente che dovrebbe aumentare molto la bile, ma quest'effetto è vinto dalla sua potenza soffice e fredda: ecco perché la pippalî diminuisce la bile anziché accrescerla. la potenza può anche essere considerata duplice: calda o fredda. Inoltre la potenza è in generale ciò che rende possibile qualsiasi azione, e ciò grazie a cui una sostanza può muoverso o agire. Per citare qualche esempio, la carne di animali che vivono iin luoghi umidi ha una potenzza calda, che si esplica fra l'ingestione e la digestione ed è inferita dagli effetti; il pepe nero (marica) ha una potenza «acuta», che è sia percepita con il gusto, sia inferita; la potenza acuta dellarâjikâ viene percepita dall'olfatto. certe potenze, come l'unto o la secchezza, si possono cogliere con la vista, oltre la potenza innata, naturale c'è anche quella artificiale, che si constata per esempio quando un cibo naturalmente leggero diventa pesante perché è stato cucinato in un determinato modo. Il concetto meno estensivo di vîrya, ha dunque la funzione di raccogliere alcune qualità, diverse dal sapore, dallealtre qualità sensoriali e da quelle meno usate in medicina (superiorità, inferiorità, ecc.); il vîrya serve più che altro per descrivere i cibi e i farmaci: quando una sostanza provoca un innalzamento della temperatura, ma il suo sapore non dovrebbe produrre questo effetto (si considerano riscaldanti i sapori salato, acido e pungente), si dice che ha un vîrya caldo.
La facoltà speciale o prabhâha è l'ultima variabile, ed è una specie di deus ex machina che dà ragione di tutto ciò che non si riesce a spiegare altrimenti. Svolge la funzione che nel Vaisesika è riservata all'adrsta, il «fattore invisibile» karmico che mette in moto gli atomi all'inizio della creazione, fa fiammeggiar il fuoco verso l'alto, ecc. Il medico si trova invece di fronte al problema di due droghe che hanno un sapore, un sapore post-digestivo e una potenza perfettamente uguali, eppure una produce un effetto ulteriore che l'altra non produce. Che fare? Caraka dice (al contrario di Susruta) che tali effetti sono stati provocati dalla facoltà speciale. Un esempio di ricorso a questo fattore esplicativo si ha nel caso del citraka e della dantî: queste due droghe sono pungenti sia nel sapore che nel sapore post-digestivo e hanno una potenza calda. tuttavia la dantîœ agisce come lassativo, il citraka no: si dirà dunque che l'effetto lassativo della danti è provocato dalla sua facoltà speciale. L'effetto terapeutico delle pietre preziose è dovuto al prabhâva; o ancora la capacità di un veleno di agire da antidoto è frutto del suo prabhâva. Questa è la facoltà speciale «inconcepibile», ma ce n'è anche una «concepibile» che è la normale capacità di una sostanzaa o di una qualità di produrre un effetto. Per questo Cakrapâni dicce che anche la facoltà speciale (come il viryâ) è definita potenza delle sostanze: il prabhâva non è una caratteristica (dharma) separata dalla sostanzza, bensì la sostanza stessa, la sua forma propria: non è una qualità o un'azione, perché se lo fosse dovrebbe essere collegata ai sapori o alla potenza seccondo gli schemi fissati. Dunque dev'essere inscindibile alla natura stessa della sostanza: è il suo poter essere una causa. Anche il Vaiseshika si è talvolta lasciato tentare dal costituire la categoria separata di «potenza»: ma questo tentativo è rimasto limitato al Dasapadârthasâstra di Candramati, tradotto in cinese e perduto nell'originale sanscrito, e non ha avuto seguito.
Come orizzontarsi in questo groviglio di dati, schemi e classificazioni? Non è per niente semplice, tanto più che qui non abbiamo esposto tutta la casistica delle variazioni dei rasa e tutta una serie di altro sottoschemi. E' evidente che al medico non basta, poniamo, conoscere la proprietà di una sostanza cruda: in seguito alla cottura essa può acquistare un altro sapore e diverse proprietà; e un frutto maturato in una regione non ha le stesse caratteristiche che altrove: lo sanno bene gli enologi...
Ma cerchiamo di non perderci nel mare delle enumerazioni e vediamo come funzionano in generale i criteri di classificazione che abbiamo citato. E' meglio dire subito che il retrosapore non ha una funzione di rilievo, e gli autori âyurvedici non ne parlano quasi mai. fra i quattro rimanenti, il più importante è senz'altro il rasa, perché è esposto per primo e con maggior dovizia di particolati. Il sapore post-digestivo è fissato automaticamente; la potenza di cui si fa spesso menzione è quella calda o fredda. Il prabhâva viene invocato solo quando è necessario.
Ora, il medico che si accosta al malato e ne diagnostica il morbo, deve decidere quale terapia adottare. caraka dice che le terapie possibili sono tre: quella religiosa, cche fa uso di preghiere, offerte agli dèi, digiuni, pellegrinaggi, ecc.; quella propriamente medica, che consoste nel somministrare farmaci, prescrivere diete, ecc.; e infine la cura psicologica, che si effettua con la conoscenza dell'âtman, lo studio dei trattati, la meditazione, il distogliere la mente dagli oggetti nocivi, ecc. Se, come prevedibile, deciderà per la seconda, avrà di nuovo la possibilità di scelta fra una terapia che purifichi il malato internamente, esternamente, oppure una terapia chirurgica.
naturalmente egli potrà anche fare uso contemporaneo di tutte e tre le terapie. prima, però, dovrà accertare le caratteristiche e la quantità dei dosha anormali, dei farmaci, del luogo da cui questi provengono, del tempo in quanto stagione e in quanto momento dell'assunzione dei farmaci, della forza, del corpo, degli elementi corporei del malato, della dieta, del sâtmya, della mente, della costituzione e dell'età del malato.
nell'àmbito dei farmaci e della dieta rientrano tutti quei criteri del sqpore, del sapore post-digestivo, della potenza e della facoltà speciale cui abbiamo accennato: ad essi il medico ricorre per scegliere una dieta e una cura adeguata. Spesso i testi danno già delle indicazioni al riguardo: la febbre flemmatica, p. es., richiede una dieta di dieci giorni a base di cibo leggero (come raktasâli o riso rosso), con zuppe acide o non acide, oppure con brodo di carne di animali che vivono in luoghi aridi; il febbricitante abituato a mangiare carne può essere nutrito con succhi e brosi di vari animani, fra cui la quaglia, la pernice grigia, l'antilope nera e la lepre, leggermente conditi con sostanze acide o privi di esse; inoltre, secondo alcuni medici le carni di altri animali come galli e pavoni non sono consigliabili pr chi ha la febbre, in quanto sono pesanti e calde.
Il medico non deve quindi, ogni volta che cura un malato, applicare ex novo i princìpi di classificazione delle droghe e poi prescrivere le cure: sarebbe come se uno dei nostri medici dovesse confezionare in laboratorio i farmaci per ciascun malato. In realtà è importante che i nostri medici conoscano la chimica e la biologia, ma nella pratica fanno uso di ricettari. Così pure i testi âyurvedici forniscono dei ricettari dettagliati e delle prescrizioni dietetiche per ogni affezione; ciò nonostante, prima di fare questo, espongono i princìpi di base ai quali sono stati compilati.
Dal momento che non vi è sostanza che non possa essere usata a fini terapeutici, sembrerebbe difficile in primo luogo tracciare un confine netto fra la farmacologia e la dietetica, e in secondo luogo riuscire a dar conto in modo sofddisfacente di un'enorme materia medica che ancora oggi non è stata studiata a fondo. Caraka dice che la medicina deve servire sia a curare il malato (e in questo caso si avvale di farmaci), sia a conservare la salute del sano, compito che può essere svolto da una buona dieta.
il problema principale che si pone a chi vuole studiare la farmacologia âyurvedica è l'identificazione dei semplici: ogni nome sanscrito può indicare una quantità di minerali,, piante o animali diversi, e certamente può essere molto pericoloso usare una ricetta i cui componenti siano diversi da quelli prescritti. se qualcuno volesse sperimentare un medicinale âyurvedico già preparato, potrebbe acquistarlo presso una farmacia indiana; ma è senz'altro più prudente farselo prescrivere da un medico qualificato, senza contare che vi sono dei medici i quali hanno dei laboratori specializzati che preparano appositamente i medicinali.
Quali sono i princìpi farmacologici indicati nei testi classici? Innanzitutto vengono individuate le sostanze animali, vegetali e minerali di impiego più frequente. fra quelle di origine animale vi sono miele, latte, bile, grasso, midollo, sangue, carne, escrementi, urina di pecora, capra, vacca, bufalo, elefante, cammello, cavallo e asino, pelle, sperma, ossa, legamenti, corna, unghie, zoccoli, capelli, peli. Fra i minerali, oro, rame, argento, stagno, piombo e ferro con i loro prodotti, arsenico rosso e giallo, gemme, sale. Infine tutte le parti delle piante, compresi le resine, il latticce, le ceneri, gli oli, le spine, i rizomi. Caraka menziona cinquanta gruppi di dieci piante, divise secondo il loro effetto, oltre a venticinque droghe che purificano le vie respiratorie, ventotto minestre curative, ecc.; Susruta riunisce trentasette piante in settecento gruppi, secondo le malattie per le quali sono indicate. Il farmaco ideale dev'essere abbondante, adeguato alla circostanza, preparato in diversi modi e potente: una droga può anche essere ottima per una certa malattia, ma se la quantità disponibile è troppo scarsa, è come se non ce ne fosse, perché non produce la guarigione. Inoltre per esere potente non dev'essere avariata, rovinata dai vermi o dall'umidità.
Un corretto impiego di queste sostanze dipende dal loro dosaggio e dal tempo in cui vengono somministrate, cioè dalla posologia; il successo della cura, a sua volta, dipende dall'impiego orretto della droga: Le preparazioni sono molto varie e talvolta assai complesse, ma sono presenti anche i sistemi più semplici di tipo erboristico. parlando dei purganti e degli emetici, Caraka dice lldldldfi sono cinque modi di elaborare le sostanze medicinali (kashâya: questo termine esclude le sostanze di gusto salato): si può spremere la pianta con un congegno, e usarne il succo fresco (svarasa); impastare la droga triturata e il suo succo e formare delle palline (kalka); poi vi sono il decotto (srta), l'infuso di una pianta schiacciata posta in acqua fredda, bollita in precedenza, che si lascia riposare per una notte (sîta), e l'infuso in acqua calda (phânta). Queste cinque preparazioni sono in ordine decrescente di efficacia, e vanno usate tenendo conto della forza della malattia e del malato: se il paziente è robusto e la malattia è grave, si può usare il succo della pianta, che è pesante e produce numerosi effetti; se invece l'infermo è debole e la malattia è leggera, è meglio non usare il succo, ma altre preparazioni meno potenti. Tuttavia bisogna badare anche ai gusti del malato: c'è chi odia le spremute e chi invece detesta gli altri tipi di preparazioni. Cakrapâni sconsiglia di prescrivere i medicinali totalmente aboriti dal paziente, perché fungerebbero da emetici o da anoresizzanti. Inoltre non tutte le droghe possono essere preparate nei modi suddetti, né la parte della pianta cche viene usata è la stessa: per esempio, della mandûkaparnî viene usato il succo fresco e ddella liquirizia (yastimadhuka) il lattice essiccato e polverizzato.
Vi è un'altra affermazione di Cakara nell'ambito farmacologico su cui vale la pena soffermarsi, perché da una parte rivela l'impostazione generale della sua opera, dall'altra mostra che l'âyurveda non è un sistema di conoscenze completamente chiuso: dopo ver illustratp i cinquanta gruppi di droghe, Caraka dice che la sua esposizione non è né troppo sintetica né troppo dettagliata, in quanto un'esposizione dettagliata non ha mai fine, mentre un'esposizione troppo sintetica non è adatta ai poco intelligenti. Quindi questi ultimi troveranno nelle sue parole quanto basta per esercitare la medicina; invece i medici intelligenti, abili nell'applicare l'inferenza, riusciranno a conoscere anche le cose che non sono state esposte. In questo senso l'âyurveda è infinito: sono sempre possibili nuovi sviluppi della conoscenza. E' difficile chiamare dogmatico che chiama stupidi quelli che si attengono alla lettera dei suoi insegnamenti, e intelligenti quelli che vanno avanti per conto loro!
Per quanto riguarda la dietetica, la regola aurea per una corretta nutrizione è condensata da Caraka in una brevissima formula: mâtrâsî syât, «ci si nutra in quantità adeguata». Questa regola, che verrà integrata dalle spiegazioni successive, non esprime affatto un generico buon senso, come superficialmente potrebbe sembrare, ma indica l'impossibilità di fissare rigidamente un regime valido per tutti e in tutti i casi. Si tratta di vedere cosa s'intende per «quantità adeguata». Innanzitutto bisogna tenere conto della abitudini individuali. Poi, mentre la quantità di farmaco che il malato deve assumere dipende, come abbiamo visto, dalla gravità della malattia e dalla forza del malato, la quantità di cibo da assumere dipende dalla capacità di digestione e assimilazione (agnibala, lett. «forza del fuoco»; a sua volta questa capacità aumenta o diminuisce secondo le stagioni e l'età del soggetto: sarà maggiore d'inverno e nei giovani, minore nella stagione delle piogge e nella vecchiaia. Come si fa a capire se la quantità di cibo ingerita è «adeguata»? lo si capisce ddal fatto che tale quantità viene digerita senza alterare i tre dosha né i sette dhâtu o costituenti corporei, in un tempo non troppo lungo (p. es. la digestione non deve continuare durante la notte). Poiché la capacità digestiva di una persona è diversa da quella degli altri, anche la quantità di cibo che ciascuno deve mangiare sarà diversa.
Però noi sappiamo che esistono dei cibi leggeri, come il riso sâli, e dei cibi pesanti, p. es. il sesamo (tila): che senso ha questa suddivisione, se anche questi devono essere consumati in quantità adeguata alla nostra capacità digestiva? Qualunque alimento leggero diventa pesante, quando se ne fa un'indigestione; viceversa, per fare un esempio tratto dalla nostra realtà gastronomica, una persona potrà anche non digerire un piatto di fagioli, m se mangia soltanto uno o due fagioli in una gran quantità di minestrone, difficilmente li troverà indigesti. tuttavia i cibi leggeri sono diversi da quelli pesanti, perché stimolano maggiormente l'appetito e anche se ingeriti in grande quantità non sono tanto perniciosi. L'âyurveda spiega questa loro caratteristica affermando che sono ricchi delle qualità del vento e del fuoco, e quindi non deprimono il «fuoco gastrico» (agni) che compie la digestione. I cibi pesanti abbondano invece di qualità terrose e acquose, e questa loro differenza di natura dall'agni fa sì che sconvolgano spaventosamente l'organismo, se mangiati a sazietà. come mai allora i portatori mangiano delle coe pesantissime e non ne risentono? Perché come vedremo, l'agni può essere accresciuto dall'esercizio fisico. E se chi non fa movimento volesse mangiare lo setsso dei cibo pesanti? Allora il segreto consiiste nel riempirsi solo fino a tre quarti o metà, nel non mangiare abitulmente questo genere di cose o nell'evitarle alla fine di un pasto.
Fra i cibi di cui Caraka sconsiglia l'assunzione abituale troviamo la carne secca, i vegetali pure secchi, i rizomi e gli steli di loto, la carne di un animale denutrito o morto di malattia, oppure di maiale, di vacca e di bufalo, il pesce, lo yogurth, il mâsa e il riso yavaka. fra gli alimenti che si possono mangiare tutti i giorni, il già citato riso sâli e quello sastikâ, il mugda, il salgemma, l'âmalaka, l'orzo (yava), l'acqua piovana, il burro fuso, la carne di animali che vivono in luoghi aridi e il miele.
Oltre ai cibi pesanti vi sono tre sostanze che non devono essere usate in eccesso: il pepe, l'alcadi e il sale. Il pepe è pungente, ha un sapore post-digestivo dolce, è pesante, non è né tropo untuoso né troppo caldo ed è utile come farmaco; se usato in poco ttempo e in piccola quantità, subito agisce positivamente; ma se è usato con regolarità, e a lungo, produce l'accumulo dei dosha: aggrava il flemma perché è pesante e deliquescente, la bile, perché è caldo, e non allevia il vento perché è troppo poco untuoso e caldo. Il pepe ha anche la proprietà di rafforzare l'effetto di altre droghe, p. es. gli afrodisiaci, i febbrifughi, ecc., ma dev'essere usato saltuariamente; le uniche eccezioni a questa regola sono l'impiego di pepe nelle cure per ringiovanire e le assunzioni gradualmente aumentate di pepe contro i tumori o i gonfiori.
L'alcali è caldo, acuto e leggero, deliquescente all'inizio e disidratante alla fine, ed è usato cone digestivo, caustico e dirompente. Se usato in eccesso, danneggia i capelli, gli occhi, il cuore e la virilità. Chi lo usa in continuazione soffre di cecità, impotenza, calvizie, canizie e mal di cuore (si tratta in particolare di popolazioni dell'India orientale e cinesi, questi ultimi chiamati da Caraka cîna).
Il sale è caldo e acuto, non troppo pesante, non ttroppo untuoso, deliquescente, può fungere da lassativo, rende il cibo appetitoso. Come il pepe, ha degli effetti positivo immediati solo se è usato nel modo giusto, vale a dire saltuariamente e in quantità scarsa, mentre se viene preso nel modo sbagliato produce l'accumulo del dosha: aggrava il flemma perché è pesante e deliquescente, la bile, perché è caldo, e non allevia il vento perché è troppo poco untuoso e caldo. Il pepe ha anche la proprietà di rafforzare l'effetto di altre droghe, p. es. gli afrodisiaci, i febbrifughi, ecc., ma dev'essere comunque usato saltuariamente, le uniche eccezioni a questa regola sono l'impiego di pepe nelle cure per ringiovanire e le assunzioni gradualmente aumentate di pepe contro i tumori o i gonfiori.
L'alcalì è caldo, acuto e leggero, deliquescente all'inizio e disidratante alla fine, ed è usato come digestivo, caustico e dirompente. se usato in eccesso, danneggia i capelli, gli occhi, il cuore, la virilità. chi lo usa in continuazione soffre di cecità, impotenza, calvizie, canizie e mal di cuore (si tratta in particolare di popolazioni dell'India orientale e cinesi, questi ultimi chiamati da caraka cîna).
Il sale è caldo e acuto, non troppo pesante, non troppo untuoso, deliquescente, può fungere la lassativo, rende il cibo appetitoso. Come il pepe, ha degli effetti positivi immediati solo se è usato nel modo giusto, vale a dire saltuariamente e in quantità scarsa, mentre se viene preso nel modo sbagliato produce l'accumulo dei dosha. E' usato per stimolare l'appetito, deliquescente e lassativo, Quando se ne assorbe troppo, esso provoca la spossatezza, la flaccidità e la debolezza del corpo. I popoli che lo usano in continuazzione sono fiacchi, hanno tessuti muscolari flaccidi e sangue debole e non sopportano le avversità: Si tratta dei Bâhlika, Saurâstrika, Saindhava e Sauvîraka (popoli del Kathiawar e della zona dell'Indo), che, a quanto dice caraka, mettono il sale persino nel latte. Chi usa troppo sale soffrirà di calvizie, canizie e rughe precoci. D'altra parte si osserrva che nelle regioni in cui il sale impregna il terreno, le le piante non crescono affatto o sono deboli. Ma se si è abituati ad insaporire il cibo con molto sale, come fare? Caraka consiglia di abbandonare gradualmente, con poco o nessun danno, questa cattiv abitudine, seguendo un metodo cche aveva indicato in generale per modificare qualunque habitus nocivo e acquisirne di salutari: a intervalli di uno, due o tre giorni si elimina un quarto dell'abitudine negativa e si introduce un quarto di quella positiva.
A parte i casi specifici di queste tre sostanze, quali sono i fattori di cui deve tenere conto il medico, per prescrivere una dieta? I fattori sono otto: la natura (prakrti o svabhâva) del cibo, vale a dire le qwualità che il cibo possiede di per sé (pesantezza, leggerezza, ecc.); la preparazione (karama o samskâra) degli alimenti, che può alterarne le qualità (comprende la diluizione, al cottura, la pulitura, ecc.); l'associazione (samyoga) di due o più sostanze, che possono acquisire nuove particolarità (p. es. il pesce mangiato insieme al latte è estremamente indigesto); la quantità (râsi) di cibo totale di ciascun ingrediente; il luogo (desa) dove le sostanze edibili sono state prodotte o sono cresciute (le piante himalayane sono di qualità migliore di quelle cresciute nel deserto); il tempo, sia come fattore soggettivo (età, ecc.), sia come fattore oggettivo (dieta stagionale); le regole dietetiche (upayogasamsthâ), soprattutto il non mangiare prima di aver completamente digerito il pasto precedente; e infine, il soggetto fruitore della dieta (upayoktr), che ha le sue abitudini alimentari di cui bisogna tenere conto.
particolarmente importanti sono quelle regole dietetiche che stabiliscono come si deve mangiare, e fnno del pasto un momemto di consapevolezza e attenzione per il proprio corpo: una specie di yoga del nutrimento. A parte le caratteristiche del cibo, è importante anche l'abmiebte confortevole in cui ci si alimenta, e la disponibilità di tutti gli accessori: se la mente è turbata da emozioni negative, la digestione viene alterata, e ci si sente più tranquilli in un posto gradevole. ma come dev'essere questo posto, e quali sono gli accessori? Gli esempi che fa Susruta sono da Mille e una notte: vasi d'argento per contenere i cibi liquidi, piatti d'oro per le carni, i frutti disposti su foglie e vini in terracotte, le bevande in freschi vasi di cristallo tempestati di gemme... Ecco gli accessori: non tanto le posate, che ancora oggi in India nin vengono adoperate negli ambienti tradizionali, ma i vasi e i piatti di materiali diversi per ciascun cibo. Il luogo in cui mangia colui che può permettere tanto lusso dev'essere solitario, piacevole, coperto magari da un baldacchino, pulito, cosparso di fiori profumati. Le sostanze dolci vanno mangiate per prime, poi quelle acide e salate infine le altre: chi oggi prescrive di mangiare prima la frutta e poi il resto conferma la validità di questa antica regola, come pure chi prende un amaro per digerire. Specialmente i cibi pesanti, come gli ssteli di loto e la canna da zucchero, vanno presi all'inizio del pasto, altrimenti è meglio non mangiarli per niente. caraka raccomanda che il cibo sia caldo e condito con grassi, per facilitare la digestione. Fin qui, nulla di difficile; ma uando si cerca di mangiare non troppo in fretta, non troppo lentamente, senza parlare e senza ridere, concentrando la propria mente solo sul cibo, seduti correttamente... ebbene, è un'attività che dal punto di vista âyurvedico va presa molto sul serio. D'altra parte la presa di coscienza del singolo di ciò che gli nuoce o gli fa bene, e del modo di mangiare, è essenziale alla salute: nessun medico può intervenire continuamente nelle scelte alimentari di un paziente, né può ingiungergli di mangiare più piano, se quello è predisposto all'acidità di stomaco, ma un richiamo al suo senso di responsabilità può servire moltissimo. Uno deve essere in grado di pensare; «Questo mi fa bene», oppure «Questo non mi fa bene», e adottare un regime conseguente.
Qualche considerazione a parte richiede il ruolo del fattore tempo nella dieta. Uno dei leitmotiv dei testi âyurvedici è che il cibo dev'essere scelto secondo le stagioni: questo pone qualche problema, perché non soltanto in India le stagioni sono piuttosto diverse dalle nostre e quindi risulta poco utile esporre qui in dettaglio le diete stagionali prescritte, ma essemdo l'India un subcontinente, sullo stesso suolo indiano si presentano nel medesimo periodo climi molto diversi. Caraka parla di sei stagioni: tardo inverno, primavera, estate , stagione delle piogge, autunno, primo inverno. In generale, quando fa freddo si possono mangiare sostanze pesanti, grasse, acide, salate, calde, mentre durante l'estate è meglio nutrirsi di sostanze dolci, fredde, liquide, untuose ed evitare gli alcolici. da notare che ciò che tqnto si raccomanda ai turisti che visitano l'India, il bere solo acqua bollita, non è un'indicazione estranea ai testi medici antichi: per lo meno nella syagione ddelle piogge. Caraka consiglia di non dissetarsi con l'acqua dei fiumi, ma con acqua piovana, o con acqua di pozzo o di stagno bollita o raffreddata.
Molto meno preoccupa gli autori âyurvedici un altro aspetto del tempo legato alla nutrizione, cioè il momento migliore per mangiare nell'arco della giornata, il numero dei pasti e la suddivisione delle sostanze in ciascun pasto. Forse perché un solo pasto al giorno viene considerato più che sufficiente: Caraka dice che chi mangia una volta al giorno ottiene la felicità. Cakrapâni oswserva che con questo Caraka non vuole proibire di mangiare due volte al giorno, perché con due pasti si raggiunge lo stesso la felicità e non si danneggiano né la propria capacità digestiva, né il sonno, né altro. Anche Susruta considera perfettamente normale mangiare una volta al giorno; lo si ricava da una sua affermazione circa il momennto da dedicare al pasto: nelle stagioni in cui la notte dura più a lungo, cioè durante il primo e il secondo periodo invernale, è consigliabile mangiare di mattina; d'estate e nella stagione delle piogge i giorni sono molto lunghi, dunque è meglio mangiare di pomeriggio; infine in autunno e in primavera, quando i giorni sono lunghi come le notti, il cibo si deve consumare a mezzogiorno. Il commentatore Pañjikâkâra conferma che questa regola vale per colui che mangia una volta al giorno; chi invece mangia due volte, deve prendere al mattino metà o un terzo del cibo, che dev'essere leggero e appetitoso; nel pomeriggio mangerà il resto. L'importante è che si mangi ad intervalli regolari, mai prima del tempo, e specialmente mai prima di sentirsi totalmente sgombri dal pasto precedente, ma neanche troppo tempo dopo l'ora cui si è abituati, altrimenti il vento provoca dei danni alla capacità digestiva.
E il dopopranzo? L'ideale è uno se ne stia seduto «come un re», aspettando che gli passi in senso di spossatezza dato dal pasto; poi può fare una passeggiatina di cento passi, e infine sdraiarsi sul fianco sinistro. Da ricercare le sensazioni gradevoli di qualsiasi genere, che aiutano la digestione, mentre le sgradevoli la bloccano e possono produrre il vomito. Un'eventuale siesta non deve durare a lungo: in genere i testi sconsigliano di dormire di giorno, a meno che non sia estate. ma bisogna pensare che in molte regioni dell'India le estati sono roventi e il caldo ostacola ogni attività: Caraka consiglia di dormire durante il giorno in una casa fresca, e di notte, dopo aver cosparso il corpo di pasta di sandalo, godersi il fresco sul tetto.
Strettamente cconnesse ai problemi dell'alimentazione sono le cure per gli obesi e i troppo magri, vale a dire le diete dimagranti e ingrassanti. Caraka dedica quasi tre capitoli a questo argomento.
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