Bhikkhu Bodhi

Il Nobile Ottuplice Sentiero

L'essenza dell'insegnamento del Buddha

 


 

INDICE

 

Prefazione
Introduzione

I. La via che conduce alla fine della sofferenza
II. Retta comprensione (samma ditthi)
III. Retta motivazione (samma sankappa)
IV. Retta parola, retta azione, retta vita (samma vaca, samma kammanta, samma ajiva)
V. Retto sforzo (samma vayama)
VI. Retta consapevolezza (samma sati)
VII. Retta concentrazione (samma samadhi)
VIII. Lo sviluppo della saggezza

 


 

PASSI SCELTI

 

V

RETTO SFORZO (SAMMÂ VÂYÂMA)

La purificazione della condotta attraverso i tre precedenti fattori costituisce la base per la seconda partizione del sentiero: quella della concentrazione (samâdhikkhandha). Questa seconda fase della pratica, che evolve dal comportamento etico all'educazione mentale vera e propria, comprende a sua volta tre fattori: retto sforzo, retta consapevolezza e retta concentrazione. Il termine che la designa esprime già lo scopo a cui tende: lo stato di concentrazione che sarà la base della terza partizione, la visione profonda/saggezza. La saggezza è lo strumento principale della liberazione, ma la visione profonda, che la saggezza appunto produce, si apre soltanto in una mente calma e raccolta. La retta concentrazione serve perciò a costruire la necessaria calma mentale, unificando l'attività mentale mediante la sua focalizzazione su un oggetto. Per potersi instaurare, la concentrazione ha bisogno del concorso dello sforzo e della consapevolezza. Il retto sforzo fornisce infatti l'energia indispensabile al lavoro, mentre la retta consapevolezza assicura la presenza costante dell'attenzione.

Un esempio molto semplice illustra l'interazione dei tre fattori all'interno della partizione della concentrazione. Tre bambini giocano in giardino. Vedono un albero fiorito e decidono di coglierne i fiori, che sono più in alto anche del bambino più alto. Il primo piega allora la schiena per far salire il secondo. Ma il secondo esita ad allungarsi, per paura di cadere. Il terzo allora gli offre come appoggio la propria spalla. Così, in piedi sulla schiena del primo e appoggiato alle spalle del terzo, il secondo riesce a raggiungere i fiori.

Il bambino che, sollevato, arriva ai fiori, simboleggia la concentrazione, la cui funzione è di unificare la mente. Per farlo, ha bisogno di aiuto: l'energia del retto sforzo, simboleggiato dal bambino che lo regge sulla schiena, e la stabile consapevolezza fornita dall'attenzione, simboleggiata dal bambino che gli fornisce appoggio. La retta concentrazione, costruita sul retto sforzo ed equilibrata dalla retta consapevolezza, raccoglie i fili sparsi del pensiero e fissa la mente sull'oggetto.

Il retto sforzo si basa a sua volta sul fattore mentale dell'energia (viriya), che può essere salutare o non salutare. L'energia può alimentare il desiderio, l'aggressività, la violenza e l'ambizione; oppure la generosità, la disciplina, la gentilezza, la concentrazione e la comprensione. L'impegno coinvolto nel retto sforzo è una forma di energia salutare che deve trasformarsi in una spinta ancora più specifica, andando ad alimentare gli stati di coscienza tesi alla liberazione dal dukkha. È un punto fondamentale. Perché l'energia, positiva per natura, diventi un fattore attivo del sentiero, deve venire incanalata dalla retta comprensione e dalla retta motivazione, lavorando in sinergia con gli altri fattori del sentiero. Diversamente, anche se salutare, non produrrà che effetti kammici benefici i quali matureranno all'interno del ciclo delle nascite e delle morti, ma non condurranno alla liberazione.

Il Buddha sottolinea infinite volte la necessità dello sforzo, della sollecitudine, dell'impegno e della perseveranza incrollabile. L'importanza dello sforzo è data dal fatto che ciascuno è responsabile della propria liberazione. Il Buddha indica il cammino ma tocca a noi percorrerlo, e questo richiede sforzo. Tutta l'energia va diretta all'educazione della mente, chiave di volta dell'intero sentiero. L'inizio del cammino è infatti una mente inquinata, contaminata e confusa; la fine è la mente liberata, purificata e illuminata dalla saggezza. Tra i due estremi opera lo sforzo perseverante per trasformare una mente inquinata nella mente liberata. Non è un compito facile, perché nessuno può farlo al nostro posto; ma non è impossibile. Il Buddha e i discepoli più avanzati costituiscono la prova vivente che il compito non è al di là delle nostre possibilità. Ci danno la certezza che la meta attende tutti alla fine del sentiero. Occorre però lo sforzo, la pratica affrontata con determinazione: “Non recederò dallo sforzo finché non avrò ottenuto l'ottenibile mediante perseveranza, energia e impegno”.

La natura del processo mentale determina una divisione del retto sforzo in quattro “grandi impegni”: prevenire l'insorgere di stati non salutari non ancora sorti; abbandonare gli stati non salutari già sorti; far sorgere stati salutari non ancora sorti; consolidare gli stati salutari già sorti. Gli stati non salutari (akusalâ dhammâ) sono gli inquinanti, i loro prodotti mentali (pensieri, emozioni e intenzioni) e le eventuali azioni in cui trovano sfogo. Gli stati salutari (kusalâ dhammâ) sono gli stati mentali non macchiati da inquinanti, specie quelli che inclinano alla liberazione. Entrambi sono da affrontare con una duplice strategia: per gli stati non salutari, prevenirne l'eruzione se latenti ed espellerli se già attivi; per gli stati salutari liberanti, indurne la nascita se non presenti e portarli a piena maturazione se già attivi. Vediamo in dettaglio le quattro strategie, dedicando speciale attenzione al campo di applicazione più fertile, cioè l'educazione della mente mediante la pratica meditativa.

 

1. Prevenire l'insorgere di stati non salutari non ancora sorti

Egli dirige la volontà a evitare l'insorgere di stati negativi non salutari non ancora sorti; ed egli esercita sforzo, suscita energia, impegnandosi esercita la mente.

Il primo movimento del retto sforzo è diretto a impedire l'instaurarsi di stati non salutari, avvelenati dagli inquinanti. In quanto ostacoli alla concentrazione, tali stati non salutari sono enumerati in una serie di “cinque impedimenti” (pañcanîvaranâ): desiderio sensuale, malevolenza, pigrizia e torpore, agitazione e preoccupazione, dubbio (kâmacchanda, byâpâda, thînamiddha, uddhaccakukkucca e vicikicchâ). Vengono definiti “impedimenti” perché ostacolano il cammino alla liberazione: invadono la mente e la sopraffanno opponendosi alla calma concentrata e alla visione profonda, i due principali strumenti di progresso. I primi due impedimenti, desiderio sensuale e malevolenza, sono i più potenti, la barriera più formidabile che si oppone alla crescita meditativa, e sono espressione di due mali radicali: avidità e avversione. I tre restanti, meno tossici ma ugualmente ostruttivi, germogliano dalla terza radice negativa: l'illusione, generalmente associata con l'avidità e l'avversione.

Il desiderio sensuale è interpretato in due modi. In senso stretto, come cupidigia per i “cinque elementi del piacere sensoriale”!: visioni piacevoli, suoni piacevoli, odori piacevoli, gusti piacevoli e contatti piacevoli. In senso lato, come brama in tutte le sue manifestazioni: di piaceri sensoriali, di ricchezza, potere, posizione, fama o di qualunque cosa possa esserne l'oggetto.

Il secondo impedimento, la malevolenza, è sinonimo di avversione. Comprende odio, ira, risentimento e repulsione, qualunque ne sia l'oggetto: se stessi, altri, oggetti o situazioni.

Il terzo impedimento, pigrizia e torpore, è duplice, composto da due forze ostruenti accomunate da pesantezza e scarsa prontezza mentale. Una è la pigrizia (thîna) che si manifesta come inerzia mentale; l'altra è il torpore (middha), come ottenebramento o forte inclinazione al sonno.

Di segno opposto è il quarto impedimento, costituito da agitazione e preoccupazione, ancora un composto di due membri accomunati da un fattore ansioso. L'agitazione (uddhacca) si esprime come irrequietezza o eccitazione che conduce la mente di pensiero in pensiero, impetuosamente e quasi con smania; la preoccupazione (kukkucca) è data dal rimorso per errori passati e dal timore di possibili conseguenze future.

Il quinto impedimento, il dubbio, segnala infine una cronica indecisione, una mancanza di fattività. Non si tratta assolutamente della facoltà di critica, atteggiamento che viene incoraggiato dal Buddha, ma di un'incapacità persistente di consegnarsi a una pratica spirituale a causa del protrarsi di dubbi nei confronti del Buddha, dell'insegnamento e del sentiero.

Il primo sforzo che si deve applicare per prevenire l'insorgere dei cinque impedimenti è conosciuto come “sforzo per contenere” (samvarappadhâna). Lo sforzo per tenere in scacco gli impedimenti è necessario sia all'inizio sia nell'intero sviluppo della pratica meditativa. Gli impedimenti distraggono infatti l'attenzione e oscurano la consapevolezza, a scapito della calma e della chiarezza. Gli impedimenti non provengono dall'esterno ma dall'interno della mente. Sono prodotti dell'attivazione di tendenze normalmente sopite nelle profondità del continuum mentale, in attesa dell'occasione per salire in superficie. Di solito, vengono innescati da un qualunque stimolo sensoriale. L'organismo psicofisico è dotato di cinque organi di senso, ognuno strutturato per percepire un messaggio specifico: l'occhio percepisce le forme, l'orecchio i suoni, il naso gli odori, la lingua i gusti e il corpo i contatti. Gli oggetti sensoriali percuotono senza soluzione di continuità i sensi, i quali trasmettono le informazioni ricevute alla mente che le elabora e le valuta per fornire una risposta adeguata. Il processo di elaborazione della mente può avvenire in modi diversi, dovuti specialmente al modo di appercezione e di valutazione. Ove la mente apprenda l'informazione senza un'adeguata attenzione, con discernimento non abile (ayoniso manasikâra), lo stimolo sensoriale tenderà a instaurare una risposta non salutare. La reazione può prodursi immediatamente, al momento dell'impatto, o in modo differito, lasciando nella memoria tracce che in un secondo tempo lieviteranno in forma di pensieri, immagini e fantasticherie inquinate. In linea generale, l'inquinante evocato corrisponde all'oggetto: oggetti gradevoli suscitano desiderio, oggetti sgradevoli avversione, oggetti indeterminati illusione.

Poiché la risposta istintuale allo stimolo sensoriale risveglia gli inquinanti latenti, per impedirne l'insorgere occorre evidentemente esercitare una forma di controllo sui sensi. Il Buddha, come lavoro sugli inquinanti, espone una pratica chiamata “controllo dei sensi” (indriyasamvara):

Percependo con l'occhio una forma, con l'orecchio un suono, col naso un odore, con la lingua un gusto, col corpo un contatto, con la mente un oggetto mentale, egli non ne ricerca né l'insieme né i particolari. Ed è sollecito a evitare ciò per cui avidità, turbamento e altri stati non salutari sorgerebbero se egli permanesse con sensi incontrollati; perciò veglia sui propri sensi e li controlla.

Controllo dei sensi non significa negazione dei sensi, non significa ritrarsi totalmente dal mondo sensoriale. Cosa impossibile ma, se anche fosse possibile, non risolverebbe il vero problema, in quanto le contaminazioni sorgono nella mente, non nell'organo sensoriale e tanto meno appartengono all'oggetto. La chiave della pratica è indicata nelle parole “non ne ricerca né l'insieme né i particolari”. L’insieme (nimitta, letteralmente “segno”) è l’apparenza generale dell'oggetto su cui viene costruito il pensiero inquinato; i particolari (anubyañjana) sono le caratteristiche secondarie. In mancanza di controllo sensoriale, la mente vaga a casaccio nel campo del sensibile. Dapprima si afferra all'insieme, mettendo così in moto gli inquinanti, quindi si lascia affascinare dai particolari, consentendo agli inquinanti di moltiplicarsi e prosperare.

II controllo dei sensi richiede di applicare ai processi sensoriali la consapevolezza e la chiara comprensione. La coscienza sensoriale procede per momenti successivi, in una sequenza di atti cognitivi aventi ciascuno un proprio speciale compito. I momenti iniziali sono funzioni automatiche: la mente contatta l'oggetto, lo apprende, lo accoglie, lo esamina e lo identifica. Immediatamente dopo l'identificazione si apre lo spazio per la valutazione, che trapassa nella scelta della reazione. In assenza di consapevolezza, gli inquinanti latenti che sono in attesa di un'opportunità di salire alla superficie, innescheranno una valutazione erronea. L'oggetto viene afferrato nel suo insieme, i suoi particolari vengono esplorati, e gli inquinanti possono emergere. Invece, sotto il fuoco della consapevolezza, il processo valutativo viene troncato sul nascere prima che possa stimolare gli inquinanti latenti. La consapevolezza li “tiene in scacco” mantenendo la mente a livello della nuda percezione sensoriale. Essa fissa l'attenzione sul semplice dato, impedendo alla mente di caricarlo di concetti radicati nel desiderio, nell'avversione e nell'illusione. Con la chiara consapevolezza come guida, la mente può continuare a conoscere l'oggetto nella sua realtà senza essere fuorviata.

 

2. Abbandonare gli stati non salutari già sorti

Egli dirige la volontà ad abbandonare gli stati negativi non salutari già sorti; ed egli esercita sforzo, suscita energia, impegnandosi esercita la mente.

Può succedere che il controllo dei sensi non basti. Se gli inquinanti emergono dal profondo, da sotto strati e strati di accumulazioni passate, per coagulare in pensieri ed emozioni non salutari, si rende necessario un diverso genere di sforzo: abbandonare gli stati non salutari che sorgono, chiamato appunto “sforzo per abbandonare” (pahânappadhâna).

Egli non trattiene pensieri di lussuria, malevolenza o danno, così come ogni altro stato non salutare già sorto; egli li abbandona, li discaccia, li recide e li porta a dissoluzione.

Come un abile medico dispone di medicine diverse per mali diversi, il Buddha propone antidoti diversi per i diversi impedimenti, alcuni generici e altri più specifici. In un importante discorso presenta cinque tecniche per contrastare i pensieri ostruenti. Il primo antidoto consiste nel sostituire un pensiero non salutare con un pensiero salutare, così come un falegname introduce un cuneo nuovo per rimuovere quello vecchio. Per ognuno dei cinque impedimenti c'è un antidoto specifico, una linea di meditazione appositamente destinata a scioglierlo e superarlo. Si può applicare l'antidoto in ogni momento in cui l'impedimento si presenta a disturbare la meditazione, oppure lo si può assumere quale oggetto primario per contrastare un impedimento che si rivela di ostacolo cronico alla propria pratica. Perché anche l'applicazione sintomatica ottenga il suo effetto, è comunque bene sviluppare una certa padronanza dell'antidoto assumendolo a oggetto primario di meditazione almeno per qualche periodo.

Antidoto generico al desiderio è la meditazione sull'impermanenza, che scalza la base stessa dell'attaccamento, cioè la convinzione implicita che gli oggetti a cui ci si aggrappa siano durevoli. Per quanto riguarda il desiderio sessuale, l'antidoto più potente è la contemplazione degli aspetti sgradevoli del corpo, metodo esposto più diffusamente nel capitolo seguente. L'antidoto alla malevolenza è la meditazione sull'amorevolezza (mettâ), che scioglie ogni traccia di ira e odio attraverso l'irraggiamento metodico del desiderio altruistico che vuole la felicità per tutti gli esseri. La sonnolenza e il torpore esigono uno sforzo particolare per ridestare l'energia; allo scopo vengono proposti metodi diversi: visualizzare una sfera luminosa, alzarsi per un periodo di corroborante meditazione “camminata”, riflettere sulla morte sempre incombente, determinarsi a proseguire con vigore. L'agitazione e la preoccupazione sono contrastate dal rivolgere la mente a un oggetto di meditazione molto semplice e di effetto calmante; la pratica universalmente consigliata è la consapevolezza del respiro, nel duplice moto di inspirazione ed espirazione. L'antidoto contro il dubbio è l'esame: investigare, porre domande e studiare finché un punto oscuro non chiarisca. Mentre questo primo dei cinque metodi per espellere gli impedimenti comporta un rimedio specifico per ogni impedimento, gli altri quattro operano in modo generale. Il secondo schiera le forze della vergogna (hiri) e del timore morale (ottappa) contro il pensiero indesiderato: il pensiero viene visto nella sua bassezza, oppure se ne considerano le conseguenze spiacevoli finché si innesca una ripugnanza interiore che discaccia il pensiero. Il terzo metodo implica uno spostamento deliberato dell'attenzione; al presentarsi di un pensiero non salutare che reclami a gran voce la nostra attenzione, invece di prestargli ascolto lo escludiamo spostando altrove l'attenzione, come quando si chiudono gli occhi o si distoglie lo sguardo per evitare una vista spiacevole. Il quarto metodo ricorre a un approccio opposto; invece di distoglierci dal pensiero indesiderato lo assumiamo deliberatamente a oggetto di meditazione, esaminandone le caratteristiche e investigandone le cause. Con ciò il pensiero si acquieta e infine scompare. Un pensiero non salutare, infatti, è come un ladro; è pericoloso solo se agisce di nascosto; posto invece sotto osservazione diventa innocuo. Il quinto metodo, da usarsi solo come estremo rimedio, è la soppressione, e consiste nel contrastare vigorosamente il pensiero non salutare con la forza di volontà, così come un uomo forte abbatte un uomo più debole e lo blocca col proprio peso.

Applicando questi cinque metodi con discernimento e intelligenza, afferma il Buddha, si padroneggiano tutti i percorsi del pensiero. Non più dominati dai pensieri, impariamo a dirigerli. Qualunque pensiero vogliamo pensare, quello penseremo; qualunque pensiero non vogliamo pensare, quello non penseremo. Se pensieri non salutari si presenteranno saltuariamente, sapremo come dissolverli, con la stessa rapidità con cui una pentola rovente fa evaporare le gocce d'acqua che casualmente vi cadano.

 

3. Far sorgere stati salutari non ancora sorti

Egli dirige la volontà a far sorgere stati salutari non ancora sorti; ed egli esercita sforzo, suscita energia, impegnandosi esercita la mente.

Parallelamente all'abbandono degli inquinanti, il retto sforzo richiede l’educazione degli stati mentali salutari, in due momenti successivi: lo sviluppo di stati salutari non ancora sorti, e il portare a maturazione gli stati già sorti. Il primo momento è conosciuto anche come “sforzo per sviluppare” (bhâvanâppadhâna). Gli stati da sviluppare sono molti (la calma e la visione profonda; i quattro fondamenti della presenza mentale; gli otto fattori del sentiero, eccetera), ma il Buddha pone particolarmente l'accento sull'enumerazione dei sette fattori di illuminazione (satta bojjhangâ): consapevolezza, esame dei fenomeni, energia, gioia, tranquillità, concentrazione ed equanimità.

Così egli sviluppa i fattori di illuminazione, fondati sull'isolamento, il distacco e la cessazione, che favoriscono la liberazione: il fattore di illuminazione della consapevolezza, dell'esame dei fenomeni, dell'energia, della gioia, della tranquillità, della concentrazione e dell'equanimità.

I sette “fattori di illuminazione” sono così denominati in quanto non solo conducono all'illuminazione, ma costituiscono essi stessi l'illuminazione. Inizialmente aprono la via alla grande realizzazione e infine si rivelano come gli elementi costitutivi della medesima. L’esperienza dell’illuminazione, comprensione perfetta e completa, consiste proprio in questi sette componenti che operano all'unisono per spezzare i ceppi e liberare definitivamente dal dukkha.

II cammino verso l'illuminazione comincia dalla consapevolezza, che prepara il terreno per la comprensione profonda portando alla luce i fenomeni qui e ora, nel momento presente, spogliati di ogni interpretazione soggettiva, commento e proiezione. Poi, dopo che la consapevolezza abbia presentato all'attenzione i nudi fenomeni, il fattore dell'esame interviene per investigarne le caratteristiche, le condizioni e gli effetti. Mentre la consapevolezza è fondamentalmente passiva, l'esame svolge un ruolo più attivo nel sondare e analizzare sollecitamente la natura dei fenomeni.

Il lavoro di investigazione richiede energia, terzo fattore di illuminazione, che si sviluppa in tre stadi. L'energia preliminare scuote l’apatia e stimola l'entusiasmo iniziale. Procedendo nella contemplazione, l'energia prende slancio e diviene perseveranza, che alimenta la pratica senza cedimenti. Raggiunto il culmine, l'energia diventa invincibilità, che supporta la contemplazione senza che alcun impedimento possa più opporvisi.

Con il crescere dell'energia prende vita il quarto fattore, la gioia, in forma di piacere tratto dall'oggetto. La gioia aumenta gradatamente fino all'estasi: onde di beatitudine attraversano il corpo, la mente si accende di contentezza, l'ardore e la fìducia si intensificano. Tali esperienze, benché incoraggianti, presentano un difetto: inducono uno stato di eccitazione difficile da placare. Perseverando nella pratica, la beatitudine si addolcisce stemperandosi nel quinto fattore, la tranquillità. La gioia permane, ma mitigata, e la contemplazione procede con composta serenità.

La tranquillità porta a maturazione il sesto fattore, la concentrazione o mente unificata su un punto. Con il rafforzarsi della concentrazione si fa sempre più dominante l'ultimo fattore, l’equanimità, stato di equilibrio interiore libero dai due opposti impedimenti dell'agitazione e dell'inerzia. Se c'è inerzia, si deve sviluppare lo sforzo; se c'è agitazione, la calma. Quando entrambi gli impedimenti siano stati vinti, la pratica procede da sola. La mente equanime viene paragonata all'auriga di un cocchio i cui cavalli procedono ad andatura costante; l'auriga non deve sollecitarli ne frenarli, può sedere tranquillamente e contemplare il paesaggio. L'equanimità ha il medesimo carattere di “spettatore”. Una volta che tutti i fattori di illuminazione siano perfettamente bilanciati, la mente assiste impassibile al gioco dei fenomeni.

 

4. Consolidare gli stati salutari già sorti

Egli dirige la volontà a consolidare gli stati salutari già sorti; non li porta a fine ma li accresce, li conduce a maturità e alla perfezione dello sviluppo; ed egli esercita sforzo, suscita energia, impegnandosi esercita la mente.

L'ultimo dei quattro retti sforzi consolida i fattori salutari e li porta a maturazione. Chiamato “sforzo per consolidare” (anurakkhanâppadhâna) viene definito lo sforzo di “mantenere saldo nella mente un oggetto salutare di concentrazione”.

La saldezza dell'oggetto fa sì che i sette fattori di illuminazione crescano in stabilità e in forza, sino a sfociare nella comprensione liberante. Quest'ultima rappresenta l'apice del retto sforzo, il fine in cui trovano coronamento tutti gli sforzi precedenti.

 

 


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