Seneca
Sulle comete
a cura di Franca Giachino

 


 

INTRODUZIONE

  

Quando alzava lo sguardo al cielo, l’uomo antico leggeva nei segni celesti il destino della propria vita. Vedeva nelle stelle fisse, ruotanti con uniforme regolarità intorno al suo capo, una garanzia di stabilità e di ordine. Scorgeva nelle leggi che governano la vita dell’universo la rassicurante certezza di un disegno protettivo da parte degli dèi, nonché la possibilità, da parte sua, di prevedere il futuro e di pianificare la propria esistenza in base a norme inderogabili, che lo mettessero al riparo da qualsiasi sorpresa.

È vero che c’erano, tra i corpi celesti, delle presenze inquietanti, come ad esempio la bianca Galassia, della cui natura filosofia e scienza non sapevano dare alcuna spiegazione. Ma l’esperienza insegnava che da essa non poteva venire alcun pericolo per l’uomo. Era l’innocua bizzarria di qualche dio minore, ansioso di lasciare nelle regioni del firmamento una visibile traccia del suo passaggio.

Maggiore ansietà destava l’apparire imprevisto di qualche presenza nuova nell’immutabile serenità celeste. Le meteore, le novae, le supernovae, e in particolare le comete, venivano con irregolare frequenza a turbare la fiducia umana nell’esistenza di un ordine e di una regola universalmente validi. La semplice osservazione del cielo metteva in discussione i principi logici su cui si fondava l’astronomia. La necessità e l’impossibilità di dare una spiegazione a questi fenomeni, almeno in base alle conoscenze scientifiche di cui si disponeva, inducevano spesso a valutazioni errate. Ma il bisogno di dare una risposta qualsiasi alla curiosità intellettuale è così forte e innato nell’uomo, che anche le risposte sbagliate sono spesso preferibili al dubbio e allo scetticismo. Per questo motivo nel II secolo a.C. Ipparco di Nicea, il fondatore della moderna scienza dell’astronomia, inventa una serie di ipotesi destinate a ricondurre le anomalie sotto il segno della norma, come gli epicicli, le eclittiche, la precessione degli equinozi, che avranno fortuna nel campo scientifico almeno fino al tardo Medioevo.

Esiste tuttavia, nella mente umana, una facoltà in grado di sostituire ogni altro strumento conoscitivo. Noi la chiamiamo - leopardianamente - immaginazione e ad essa è stato spesso affidato un compito importante nel campo del sapere. Questa facoltà era particolarmente sviluppata nelle età antiche, povere di conoscenze scientifiche, di motivazioni razionali e di strumenti adeguati di ricerca.

L’immaginario collettivo era pieno di dèi. La religione perciò, o per meglio dire il mito, aveva in serbo una risposta sicura ad ogni tipo di domanda, perché solo la regola e l’ordine, nella struttura dell’universo, potevano fornire agli uomini la prova decisiva dell’esistenza di un principio divino. Si trattava di risposte che riempivano, è vero, la mente di terrore: l’apparire di tali oggetti nel cielo, si diceva, era un ambiguo modo di parlare agli uomini da parte degli dèi, e annunciava quasi sempre sventure gravi, come guerre, fame, pestilenze e carestie, oppure sventure meno gravi, come la morte di qualche re o imperatore. Solo la scienza poteva liberare l’uomo dal timore degli eventi oscuri, diradando le tenebre del pregiudizio e dell’ignoranza. Per questo motivo l’attività dei primi scienziati appare finalizzata a scopi nobilmente filantropici.

In questo clima di filantropia si colloca anche l’attività scientifica di Seneca, il quale è filosofo prima ancora che scienziato, e seguace di quella filosofia stoica che più delle altre mette le risorse dell’ingegno al servizio dell’uomo. Ma lo stoicismo di Seneca, più che una dottrina, è una missione di vita. Perciò anche le sue opere scientifiche hanno innanzi tutto uno scopo pratico, in quanto vogliono liberare l’uomo dalla sua ancestrale angoscia, e fornirgli sia pure a piccole dosi il sapere come medicina contro le miserie della vita.

Perciò la sua piccola enciclopedia scientifica intitolata Naturales Quaestiones (Ricerche sulla natura), di cui fa parte il libro sulle comete, è animata da un grande spirito umanitario. L’autore prende in considerazione, nei sette libri in cui si divide l’opera, soprattutto i corpi celesti coi loro movimenti e variazioni, gli eventi atmosferici a partire da quelli più turbolenti come venti, nubi, fulmini, lampi, e le loro innumerevoli ripercussioni terrestri, le piene dei fiumi e i terremoti. Contemplare il regno della natura o indagare quale sia la sostanza dell’universo, secondo Seneca, insegna all’uomo a prendere coscienza dei suoi limiti terreni, della sua dignità e della sua piccolezza, e soprattutto a non temere la morte, per la quale tutti gli esseri viventi appaiono nati.

Il libro sulle comete costituisce la settima e ultima parte delle Naturales Quaestiones, l’opera che condensa il pensiero scientifico del filosofo e della sua età. In esso lo studio dei fenomeni del cielo e della loro varia influenza sul corso della vita umana è condotto nel solco di una tradizione che risale ai presocratici, a Platone e ad Aristotele. Sotto questo aspetto l’opera di Seneca costituisce una sintesi delle scoperte e delle intuizioni dei precedenti studiosi, e nello stesso tempo un severo esame critico del loro grado di validità.

Le comete in particolare, tra tutti i fenomeni celesti, avevano incuriosito gli uomini antichi per la loro forma così diversa da quella degli altri corpi celesti, e anche per la singolarità del loro movimento, non riconducibile ad alcuna regola o previsione. Ma la curiosità nei confronti di questo fenomeno si mescolava, come si è detto, a irrazionali terrori. Tutto ciò che non rientra nella norma e nella previsione, secondo la mentalità non scientifica, viene di solito considerato un presagio di cattivo auspicio. Era questo il motivo per cui nei tempi antichi l’apparizione di comete era un avvenimento particolarmente temuto. Seneca, in quanto filosofo, non condivide ovviamente la credulità popolare. Perciò, sebbene enumeri alcune delle comete apparse in concomitanza di avvenimenti luttuosi, fa osservare che apparvero comete anche in anni in cui non accadde alcun avvenimento di rilievo, come quella che fu vista in cielo nel 60 d.C. sotto l’impero di Nerone.

Per la sua educazione filosofica, il suo interesse per la scienza è di notevole indipendenza nei confronti delle opinioni correnti. Il suo scopo è informare il lettore sui risultati degli studi condotti in passato, scegliendo tra le varie soluzioni quelle più ragionevoli, che egli passa al vaglio del ragionamento logico, per arrivare a dare di ogni fenomeno una spiegazione razionale. Seneca esclude perciò deliberatamente le ipotesi fantasiose, le congetture improbabili, le favole, i miti, le ingenuità a cui si erano talora abbandonati gli studiosi del passato, non esclusi i filosofi stoici, i quali consideravano le stelle degli esseri divini, non escluso lo stesso Aristotele. A questo proposito egli persegue uno scopo che è nello stesso tempo scientifico e morale. Liberare l’animo dal timore dei fenomeni di origine sconosciuta significa combattere le superstizioni, che sono un prodotto dell’ignoranza collettiva e rendono l’uomo schiavo dei pregiudizi.

Seneca ricorda le scene di isteria collettiva che accompagnavano il verificarsi di altri eventi celesti inconsueti, come le eclissi di sole o di luna: «Le città - scrive - allora tumultuano, ognuno leva grida disperate, spinto a ciò da una vana superstizione». Le grida, come specifica Seneca stesso nella Medea, e come affermano altri scrittori latini, hanno la funzione di far cessare l’evento indesiderato rompendo l’incantesimo che ne è la causa. Perciò anch’esse, nella superstizione popolare, fanno parte del rituale magico. Solo la conoscenza razionale delle cause dei fenomeni, secondo lo scrittore, può liberare l’uomo dai suoi atavici terrori e indirizzarlo verso una vita moralmente sana.

Da ciò lo spirito di tutta l’opera, che è quello di un apostolo della scienza. Ma Seneca è convinto di essere solo un pioniere nello studio dei fenomeni celesti. Sa che la vita dell’uomo non è sufficiente per gettare luce duratura là dove si trovano soltanto ignoranza e tenebre, e che la scoperta del vero è il risultato del lavoro di molte generazioni: «Verrà il tempo in cui gli uomini si stupiranno che verità così evidenti siano state per lungo tempo ignorate, ma l’arco di una sola vita non basta a portare a termine una ricerca così lunga».

Seneca condivide perciò l’ottimismo dello scienziato, per il quale la conquista del vero in ogni campo del sapere è solo una questione di tempo. Ma è anche realisticamente persuaso che tale conquista sarà lenta, perché la maggioranza degli uomini si mostra indifferente alla ricerca scientifica. Altri scopi meno nobili hanno infatti su di loro un maggior potere di seduzione. Perciò la sua fiducia nel trionfo della scienza si tinge di amarezza: «della filosofia - conclude sconsolato - non c’è nessuno che si preoccupi».

A ciò si aggiunge un filosofico senso del limite, che circoscrive in modo netto l’àmbito di ciò che può essere conosciuto: «Non tutto Dio ha fatto per l’uomo. Solo una piccola parte di così grande creazione è alla portata della nostra mente». In altre parole, come aveva affermato Eraclito in un suo celebre aforisma, la natura «ama nascondersi» affinché non sia possibile all’uomo conoscerla per intero, oppure perché la conoscenza del vero non è un dono gratuito degli dèi, ma il premio di un immane sforzo intellettuale. Ma la cosa più importante è, per ciascun essere, perseguire il proprio fine, e il fine proprio dell’uomo è la scienza, intesa non come progresso tecnico, ma come conoscenza filosofica del mondo, per cui l’uomo trascende i limiti di ciò che è umano e si rende degno di entrare in una superiore sfera divina.

Al termine del suo trattato i due scopi dell’opera, quello scientifico e quello morale, finiscono per identificarsi perché secondo la filosofia stoica, che è quella di Seneca, la divinità è nello stesso tempo principio fisico e principio morale. Perciò anche la virtù ha il suo fondamento più sicuro nella conoscenza della natura. Ne consegue il dovere, da parte di ogni essere umano, di seguire fino in fondo il cammino della conoscenza, almeno in quei limiti stretti entro i quali il mondo del sapere è accessibile all’uomo.

 

 

 


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