INTRODUZIONE
La visione di Troia ridotta ad una distesa di rovine fumanti, per opera degli Achei, attraverso Euripide (V sec. a.C.), Ecuba e Troiane, Virgilio, Eneide, III, 3, «ed in ogni sua parte Troia da terra fuma», si è impressa nell’animo di Seneca, avvezzo a riflettere sull’instabilità delle cose umane, sui rapidissimi mutamenti cui esse sono soggette; e ricorre più di una volta nelle Troiane, una delle tragedie di Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.), culminando nel punto in cui le donne troiane, fatte prigioniere, che costituiscono il coro, pensano a quando, allontanandosi sulle navi dei vincitori verso la Grecia, si troveranno ormai in alto mare: non si vedrà più l’eccelsa sommità dell’Ida e i fanciulli mostreranno alle loro madri, le madri ai figli, solo una nuvola di fumo innalzantesi serpeggiando dal luogo in cui sorgeva un tempo la patria gloriosa. Dunque, per le donne troiane esuli, ormai sperdute nella deserta immensità del mare, cioè nella situazione più adatta a sentire tutta la desolazione di chi è vinto, altro non esiste all’infuori di un po’ di fumo che si disperde nel cielo. Oggi tocca loro sperimentare la nullità della potenza, della ricchezza, di tutto ciò per cui l’uomo s’affanna e in cui ripone ogni speranza: domani toccherà ad altri.
Questa è la lezione che Agamennone, in modo piuttosto brusco ma conforme al modo di procedere di Seneca, filosofo e moralista, oltreché poeta, impartisce con un lungo discorso al figlio di Achille, Pirro, il quale vuole ad ogni costo che sia reso onore al padre, svenando sulla tomba Polissena, figlia di Priamo: egli è tutto preso dall’orgoglio per la vittoria conseguita e non pensa che gli Achei sono bensì riusciti ad abbattere Troia, tanto ricca e potente, ma la stessa sorte potrebbe, in un avvenire più o meno lontano, essere riservata a loro.
Il condottiero dei Greci, pur essendo vincitore, non ragiona diversamente da Ecuba vinta, la quale, proprio all’inizio della tragedia, presenta se stessa come esempio insigne della precarietà del potere, della mutevolezza della «Fortuna», a cui deve guardare chi non vuole subire amare delusioni. Chi è troppo fiducioso nella «Fortuna», chi non teme la volubilità capricciosa degli dèi rifletta sulla condizione di Ecuba, sul destino di Troia. Agamennone è reso salutarmente timoroso della sorte toccata a Priamo: infatti, quanto più la «Fortuna», in determinate circostanze, ci arride o sembra arriderci, tanto più occorre sapersi moderare, guardarsi dai suoi mutamenti, temere «gli dèi troppo favorevoli»; la vittoria riportata rende Agamennone orgoglioso, sì, ma in pari tempo sgomento, anzi direi che lo sgomento prevale sull’orgoglio, poiché «la potenza può essere distrutta da un momento all’altro». Attraverso Agamennone, divenuto meditativo in seguito alla sua stessa vittoria e all’umiliazione subita dall’avversario, Seneca ci insegna ad anteporre la «ragione», la saggezza, alla passione, all’impeto cieco «vizio proprio dei giovani»; ed enuncia le norme cui deve attenersi chi detiene il potere, il quale non può essere esercitato validamente da chi non sa esercitarlo su se stesso, e non sa impedire, potendolo, agli altri di prevaricare. Tutti, vincitori e vinti, sono nella stessa condizione; chi oggi esulta per la vittoria conseguita «si trova sulla stessa sommità cinta di precipizi su cui si trovavano i vinti».
Ricorrono, qui, riflessioni esposte in altre opere di Seneca, ed in specie nel saggio Sulla tranquillità dell’animo: non esiste potere così saldo sul quale non incomba il pericolo della rovina: la gloria e l’ignominia non sono molto distanti l’una dall’altra; non si devono invidiare i potenti: ti sembravano altezze «e non sono che abissi paurosi».
Così nel saggio Sulla tranquillità dell’animo, come nella tragedia Le Troiane, la condizione del potente è assomigliata assai efficacemente, con pari evidenza espressiva, a quella di chi sta su di un culmine dal quale può precipitare quando meno se l’aspetta; e Troia caduta, Troia ridotta in cenere e fumo, un tempo tanto forte e baldanzosa, quale appariva a Seneca attraverso la poesia di Euripide e di Virgilio, diventa il simbolo dell’universale caducità e suggerisce quelle considerazioni rapide, incisive, particolarmente conformi al genio del filosofo-poeta romano, intorno alle quali si impernia la concezione generale de Le Troiane: una delle opere in cui si manifesta più chiaramente la tendenza di Seneca ad esprimere in forma drammatica le sue convinzioni etico-filosofiche sul significato della vita e delle vicende umane.
Questo senso della realtà, dominante nella tragedia Le Troiane, ci permette di comprendere e di spiegare più agevolmente il famoso coro, in cui è risolutamente affermata la mortalità dell’anima, il suo dissolversi come fumo nell’aria, come nuvola, gonfia per breve tempo, e tosto dispersa dal soffio impetuoso del vento, quasi a conforto di chi ha visto la patria distrutta e può scorgere nel suo destino un aspetto del destino che tutti attende: «il tempo nel suo scorrere veloce porta via l’uomo e le sue cose…». La voce delle donne nel coro risuona d’improvviso, severa, ammonitrice dopo che Calcante, l’interprete della volontà divina, ha detto che si deve immolare Polissena sulla tomba di Achille e che anche il nipote di Priamo, figlio di Ettore, Astianatte, deve morire in modo atroce per volontà dei fati: solo allora la flotta degli Achei potrà con vele spiegate riempire il mare! A questo proposito, per intendere con più precisione quanto il coro sembra enunziare in modo brusco ed inatteso riguardo al destino ultimo dell’uomo, conviene osservare che, nella tragedia di Euripide Le Troiane, Andromaca, per consolare Ecuba, che ha appreso la triste notizia riguardante la sorte assegnata alla figlia Polissena, afferma che la morte è equivalente al nulla perché fa sì che l’uomo, come se non fosse mai nato, non provi più alcun dolore; Polissena è nella condizione in cui sarebbe se non avesse mai visto la luce: non soffre più alcun male! Dal confronto di questo tratto della tragedia di Euripide con il coro di Seneca, che dal poeta ateniese suole prendere spunti variamente elaborandoli, risulta chiaro che l’affermazione recisa della mortalità dell’anima è fatta a scopo consolatorio, come in altre opere di Seneca (Consolazione a Marcia, Ep. LIV, a Lucilio). E tale consolazione è diretta a chi teme che, dopo la sofferenza della vita, altre sofferenze attendano l’uomo nel carcere sotterraneo, nella regione oppressa da eterna notte. La morte riguarda ugualmente il corpo e l’anima; e quanto si racconta del regno dei morti non è che «favola», pura invenzione della fantasia. A questo punto occorre osservare che, come l’Ep. CII, in cui si legge che l’ora della morte «non è l’ultima per l’animo, ma per il corpo», così le affermazioni d’ispirazione epicurea, contenute nel secondo coro de Le Troiane, non hanno valore assoluto. La posizione di Seneca di fronte alla morte mi pare espressa nel modo più conforme al carattere problematico del suo pensiero in Ep. LXXI, in cui si legge che la morte è passaggio ad una vita migliore o è ritorno nel tutto, con scomparsa della propria individualità.
L’interpretazione del secondo coro de Le Troiane, secondo cui esso è destinato a confortare chi si vede strappare le persone più care e nella vita non scorge più alcuna ragione di speranza, trova conferma nel fatto che il motivo fondamentale che lo ispira, la morte come «non essere» e quindi liberatrice dalle sofferenze connesse con la condizione umana, circola in tutta la tragedia e ne costituisce l’atmosfera: sia per bocca di Ecuba e del coro che accoglie l’invito di Ecuba «Felice è Priamo, proclamiamo tutte…», sia soprattutto per bocca di Andromaca, il personaggio nel quale si esprime la poesia più alta e più schietta della tragedia, che è poesia della solitudine, del disinganno, degli affetti disperati. Andromaca desidera soltanto morire e, resa forte da tale disposizione d’animo, può fronteggiare Ulisse minaccioso, anzi sfidarlo: «Se vuoi, Ulisse, costringere Andromaca impaurendola, rivolgile la minaccia di lasciarla in vita…»: solo la prospettiva di vivere, non già quella di morire può spaventare Andromaca; ed è questa una situazione eminentemente tragica, resa con grande efficacia mediante l’ossimoro, frequente in Seneca per esprimere quanto c’è di strano, di assurdo nella vita e nella condotta degli uomini: «vitam minare!». Tale è la condizione di Andromaca che, tra poco, dirà ad Astianatte quali ultime parole: «Orsù, va’ via libero, va’, vedrai liberi i Troiani!», insistendo sulla liberazione dai mali connessa con la morte; e consolerà Ecuba osservando che la loro sorte di prigioniere, non quella di Polissena morta, è compassionevole; essa ne è perfettamente convinta; tale convinzione si esprime incisivamente con l’anafora di «noi», con la ripetizione del vocativo «Ecuba»: «Noi, Ecuba, noi, noi, Ecuba, siamo da compiangere… Questa, Polissena, il caro suolo della patria ricoprirà!». La tragedia poi si conclude in modo assai significativo, con la disperazione della vecchia madre, Ecuba, che ha perduto la patria, il marito, la figlia, il nipote; e non sa chi piangere: unico suo desiderio, come per Andromaca, è quello di morire; e si duole che la morte a lei sola tema di avvicinarsi: «me sola sfuggi disdegnandomi!».
La concezione della vita per cui tutto è destinato a perire, individui e popoli, tuguri e splendidi palazzi, che si presenta a noi ne Le Troiane di Seneca, è triste, severa, ma conforme alla legge che domina l’Universo; e ad essa bisogna sottostare. Tale comportamento, con ciò che esso può facilmente avere di enfatico, di eccessivo, si trova ne Le Troiane, là dove il nunzio racconta ad Andromaca l’uccisione di Astianatte e subito dopo quella di Polissena: entrambi seppero affrontare la morte, loro inflitta dagli Achei, «con nobiltà», con coraggio. Astianatte, condotto da Ulisse, con passo rapido e sicuro sale sulla torre dalla quale deve essere precipitato e di lassù volge qua e là lo sguardo coraggioso e poi «balza di sua spontanea volontà» in mezzo alle rovine del regno di Priamo. Polissena accoglie «gioiosamente», data la sua situazione, la notizia della morte a lei decretata; e giunta sul tumulo di Achille, sul quale deve essere immolata, non indietreggia di un passo, si rivolge al colpo mortale fiera e quasi minacciosa, in atteggiamento di sfida; e attorno a lei «dalle guance splendenti», che tiene lo sguardo pudicamente abbassato, c’è ammirazione e compianto: tutti sono commossi dal fatto che la giovinetta non deve essere trascinata a forza alla morte, ma le va incontro liberamente.
Così Seneca ha saputo rappresentare quella sicurezza di fronte alla morte, quella ferma e serena accettazione del destino, che sta a dimostrare l’energia morale dell’uomo, il progresso da lui compiuto nel cammino della virtù; ed in pari tempo ha celebrato la grandezza dei vinti, che non sono più tali se l’animo non si è lasciato piegare dalle avversità, mentre i vincitori, se trasmodano, accecati dall’ebbrezza della vittoria, si avviliscono. Nella rappresentazione di Polissena, Seneca si attenne al modello euripideo dell’Ecuba, che gli offriva dei tratti ben conformi al suo ideale di comportamento nell’ora estrema, pur procedendo con libertà ed accentuando persin troppo la fierezza dell’«eroina», la quale, anche quando sta per spirare, mantiene intatto il natìo coraggio e sulla tomba di Achille cade in avanti con slancio pieno d’ardore e di veemenza, mentre in Euripide essa femminilmente si cura di cadere con compostezza.
Invece, nel raffigurare Astianatte, Seneca seguì esclusivamente la sua ispirazione: quando Andromaca sta per consegnare Astianatte ad Ulisse, il figlioletto, sì, è preso da sgomento, «invoca pietà» e si attacca al seno, alle mani della madre; ma tosto, con mutamento repentino, diventa impavido di fronte alla fine che lo attende: il drammaturgo non esita ad affidare ad un fanciullo la parte del saggio forte, intrepido, il quale non teme la morte, non si ribella al destino: «si sottrae alla necessità, volendo ciò che essa sta per costringerlo ad accettare» (Ep. LIV, 7).
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