Giacomo Leopardi
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani

a cura di Carlo Luigi Torchio

 


 

INDICE

 

Leopardi per un’etica nuova

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani

Postfazione: Leopardi e la «strage delle illusioni»

Indice dei nomi

 


 

PASSI SCELTI

 

LEOPARDI PER UN'ETICA NUOVA

Può restare deluso il lettore che si aspetti da Leopardi un discorso un po’ folcloristico sugli usi e sui costumi dell’Italia (o almeno di quella a lui contemporanea). Intanto il termine «costumi» ha un senso più ricco e profondo che non «abitudini» o «usanze» (che per lo più consistono in tradizioni ricevute dal passato e non definiscono, se non superficialmente, il carattere di un popolo), e designa piuttosto una cultura, una mentalità e un modo di essere, conseguenti al diverso sviluppo della civiltà e della cultura italiana in seno ai popoli europei, e vale quindi come regola morale o di comportamento, come condotta o modo di vivere.

Ma anzitutto non si dimentichi che alla base del discorso leopardiano, scritto nel 1824, sta la radicata convinzione che i popoli antichi erano superiori (e più felici) rispetto a quelli moderni. E ciò perché la civiltà ha distrutto le basi stesse della morale, e di conseguenza è preferibile una civiltà «media» che una evoluta. Perché il progresso (o meglio il pensiero filosofico e scientifico che ne sono la causa) distruggono la sorgente della sola felicità possibile che consiste nell’immaginazione. E ora tra i popoli europei quelli settentrionali si rivelano superiori in tutto (e non solo nella letteratura e nel pensiero filosofico) perché in loro è più fervida l’immaginazione.

«L’unione della civiltà con l’immaginazione è lo stato degli antichi»: in questa frase del saggio leopardiano c’è, per dirla manzonianamente, il «sugo della storia». Detto in altri termini, la filosofia (e la civiltà che essa ha prodotto, specie quella dei lumi) ha messo sotto gli occhi di tutti con tragica evidenza l’infelicità irrimediabile dell’uomo. Solo le illusioni che nascono dalla fantasia e dall’immaginazione sono in grado di rendere l’uomo, non diremo felice, ma meno infelice, cioè di alleviare la sua tristezza metafisica.

è chiaro che Leopardi, pur partendo da premesse illuministiche (e quindi sensiste e infine materialistiche), sviluppa poi un discorso contro la civiltà dei lumi, esaltando non la ragione, ma, romanticamente, la fantasia, come affermerà a più chiare lettere altrove e anche in poesia («A noi ti vieta/ il vero appena è giunto,/ o caro immaginar;/[…] allo stupendo/ poter tuo primo ne sottraggon gli anni;/ e il conforto perì dei nostri affanni.», Ad Angelo Mai, v.100-105). E anche qui, come spesso accade nel grande Poeta, ritornano i miti e i motivi fondamentali della sua speculazione e la disperata battaglia contro ciò che aggrava il desolato destino dell’umanità sulla terra.

Ma il Discorso sui costumi è anche e soprattutto un approccio leopardiano per costruire una morale laica. Il Poeta tenta di mettere in piedi un’etica, fondata sull’onore, o meglio sullo «spirito di onore», anche se sa bene quanto sia fragile questo fondamento (e lo riconosce apertamente).

Leopardi è ormai lontano dalla fede cristiana. E sente che «la morale […] è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chi sa fino a quando, e non se ne vede il modo». Ma, secondo il Poeta, le cause del male e dell’immoralità starebbero nella disperazione che nasce dalla coscienza della vanità delle cose e dall’inutilità della vita. Certo anche nel Discorso ricorrono con frequenza i ben noti temi leopardiani (caduta delle illusioni, vanità del tutto, riso disperato…), ma il Poeta si cimenta in un tentativo disperato per ritrovare le basi di una convivenza possibile, pur nell’orizzonte desolato di un mondo privo di Dio e dei valori che a quella fede erano legati. E lo fa affrontando un impegnativo discorso politico sulla situazione italiana, sulla psicologia di un paese profondamente diviso, ma in cui tuttavia avverte dei «fratelli» («perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a miei fratelli?»). E non sarà un caso se il termine «fratelli» ricorre ben due volte nel Discorso.

Di discorsi «politici» Leopardi ne ha affrontati o avviati parecchi nel suo Zibaldone di pensieri. Ma quelle erano le pagine di un diario segreto, di un «giornale dell’anima» non destinato, almeno così com’era, alla pubblicazione. Mentre le idee che il Poeta esprime nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani rivelano un impegno ben altrimenti costruttivo rispetto alle pagine satiriche della Batracomiomachia (dove non si salva nulla e nessuno) o a quelle stravolte dei Pensieri (dove la crudezza polemica non apre possibilità di dialogo, ma lo nega in partenza). Qui invece si respira già l’aria della Ginestra (1836), si avverte lo stesso spirito di fratellanza universale (quello che ci fa capire di quali aperture fosse capace Leopardi, senza i condizionamenti dovuti a un’infelice situazione storica e sociale).

L’analisi leopardiana è spietatamente lucida. L’Italia è un paese dove non si conversa o si discute pacatamente, ma si schernisce l’interlocutore; un paese in cui non si gareggia per l’onore, e da uomini di onore, ma ci si combatte all’ultimo sangue. L’Italia è una terra dove non c’è convivenza civile, ma forzata; una società in cui ci si sbrana anziché collaborare al bene comune; un paese senza amor patrio, dove lo scherno dell’avversario prevale su tutto. L’autore vede ben al di là dei facili patriottismi e delle euforie risorgimentali, quando sente che nella penisola mancano quei legami che fanno di una collettività una «società stretta» e una «società buona», cioè un popolo di «fratelli», dove sarebbe possibile una morale universalmente valida, fondata non sulla legge (perché è una base poco solida la paura delle pene minacciate da un codice), ma sul senso dell’onore che indurrebbe a fare il bene per meritare il plauso e a fuggire il male per non incorrere nel disonore.

Questo è tuttora il paese di cui parla Leopardi. Da ciò la terribile attualità di questo Discorso sui costumi degl’italiani, a due secoli dalla nascita del Poeta.


 

DISCORSO SOPRA LO STATO PRESENTE DEI COSTUMI DEGL’ITALIANI

In questo secolo presente, sia per l’incremento dello scambievole commercio e dell’uso de’ viaggi, sia per quello della letteratura, e per l’enciclopedico che ora è d’uso, sicché ciascuna nazione vuol conoscere più a fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di sventure che è stata fra’ popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l’altre nazioni parte per le vittorie, parte per l’aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d’Europa una specie d’uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo passato da’ tempi di Luigi XIV, cioè dall’epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava*; per qualcuna o per tutte queste cagioni le nazioni civili d’Europa, cioè principalmente la Germania, l’Inghilterra e la Francia stessa hanno deposto (forse anche pel progresso dei lumi e dello spirito filosofico e ragionatore che accresce i lumi e calma le passioni ed introduce uno abito di moderazione; e altresì per l’affievolimento stesso dell’amore e fervor nazionale, e generalmente di tutte le passioni degli uomini),* hanno, dico, deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell’animosità, dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature civiltà e costumi, quantunque si voglia differenti dai propri. E cresciuto il gusto di conoscerli insieme colla stima de’ medesimi e colla equità del giudicarli, infiniti sono i volumi pubblicati in ciascuna nazione per informarla delle cose dell’altre. Fra’ quali sono anche infiniti quelli pubblicati dagli stranieri e che si pubblicano tutto giorno sopra le cose d’Italia, fatta oggetto di curiosità universale e di viaggi, molto più che ella non fu in altro tempo, e molto più generalmente, e più ancora che alcun altro paese particolare. Nei quali libri però gli scrittori incorrono senza loro colpa e per natura del soggetto in due inconvenienti, l’uno che spesso errano, essendo impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente un’altra nazione, massime dopo non lunga dimora, l’altro che dicendo o il falso, o anche il vero, che sia alcun poco sfavorevole a quelli di cui parlano, benché il dicano senz’animosità veruna (non essendo più mezzo di farsi grato alla propria nazione il dir male dell’altre, ed odiandosi in tali libri l’animosità, sempre che si scuopre)* si concitano l’odio della nazione di cui scrivono. Il qual secondo male è più grave che mai ne’ libri che trattano degli italiani, delicatissimi sopra tutti gli altri sul conto loro: cosa veramente strana, considerando il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi. Cagione di ciò è sicuramente in gran parte che gl’italiani misurando gli altri da se medesimi (i quali camminando sempre addietro degli altri, non sono ancora così lontani da’ pregiudizi e dall’animosità verso gli stranieri, e certo li conoscono e studiano di conoscerli cento volte meno che essi non fanno verso loro) attribuiscono sempre ad odio e malvolenza e invidia ogni parola men che vantaggiosa che sia profferita o scritta da un estero in riguardo loro. Certo è nondimeno che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla Corinna in poi più opere favorevoli all’Italia, che non sono tutte insieme quelle pubblicate negli altri tempi, e nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto appena da noi medesimi. Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo di affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità. E ben si può dire che oggi, al contrario che pel passato, gli stranieri quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano in favor nostro che in disfavore. Contuttociò e la Corinna e tutte le altre siffatte opere sono guardate dagl’italiani con gelosia, e molte cose vere ed utili hanno dette e scritte gli stranieri sui nostri costumi, che per questa e per altre cause non ci sono di veruna utilità. Gl’italiani stessi non iscrivono né pensano sui loro costumi, come sopra niun’altra cosa che importi e giovi ad essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti, spirito in gran parte altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento o certo poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di pensare e vedere, benché questa niente affettata, sì per la sua decisa inclinazione a sparlare di tutto, e il suo carattere aspro e iracondo verso tutto, il più delle volte alieno dal vero. Oltre che i costumi e lo stato d’Italia sono incredibilmente cangiati dal suo tempo, cioè da prima della rivoluzione, al tempo presente. Allora, massime l’Italia meridionale, era quasi in quello stato di opinioni e di costumi in cui si è trovata fino agli ultimi anni ed ancora in grandissima parte si trova la Spagna. Ora per l’uso e il dominio degli stranieri, massime de’ francesi, l’Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli altri popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di cognizioni nelle classi popolari. Queste opinioni però operano sullo stato e sulla vita degl’italiani in maniera diversa che presso gli altri, per la diversità somma delle sue circostanze, e quindi ne risulta che con opinioni appresso a poco, e massime in buona parte della nazione, conformi, essa è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili. Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?

Non è da dissimulare che considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli, la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possano fondare i principii morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che il giusto e l’onesto paia ragionevole, e l’esercizio della virtù degno d’un savio, e da altra parte l’inutilità della virtù e la utilità decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzione delle presenti repubbliche; la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri. Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni. In questa universale dissoluzione dei principii sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del come elle possano durare a sussistere in avvenire, le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto. Questo principio è la società stessa. Le dette nazioni, oltre la società generalmente presa, cioè il convitto degli uomini per provvedere scambievolmente ai propri bisogni, e difendersi da’ comuni danni e pericoli, hanno quel genere più particolare di società che suole essere chiamato con questo medesimo nome ridotto a significazione più stretta, e consiste in un commercio più intimo degl’individui fra loro, e massime di quelli, che dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll’opera meccanica delle proprie mani alla loro e all’altrui sussistenza e forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono naturalmente nel secondo bisogno, cioè di trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando è disoccupata. Questa tal società che è principalmente fra questi tali uomini, ha per fine il diletto e il riempiere il vuoto della vita cagionato dalla mancanza de’ bisogni primi, e per causa ha i detti bisogni secondi, come quell’altro più largo e più comun genere di società ha per origine i primi bisogni e la naturale necessità. Per mezzo di quella società più stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente, l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione, un pascolo, un trattenimento alla vita di quelli, che senza ciò menerebbero il tempo affatto vuoto, e tali sono, rigorosamente parlando, tutti gli uomini, salvo gli agricoltori e quelli che ci proccurano il vestito di prima necessità. Coll’uso scambievole gli uomini naturalmente e immancabilmente prendono stima gli uni degli altri: cioè non già buona opinione, anzi questa è tanto minore in ciascuno verso gli altri generalmente, quanto il detto uso e quindi la cognizione degli uomini è maggiore; ma la stretta società fa che ciascuno fa conto degli uomini e desidera di farsene stimare (questa è propriamente la stima che si concepisce di loro) e li considera per necessarii alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde. Questo desiderio è quello che si chiama ambizione, vincolo e sostegno potentissimo della società, che non d’altronde nasce che da essa società ridotta a forma stretta, poiché fuor di essa l’ambizione non ha luogo alcuno nell’uomo, e l’amor proprio naturale non prenderebbe mai questo aspetto, che pur sembra totalmente suo proprio ed essenziale e sommamente immediato. L’ambizione può aver varie forme e vari fini. Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica e dallo stato politico delle società; perch’ella possa compatire collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente nella vita civile dalle dette cause; e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o è così raro, e dove anche sussiste è così debole e inefficace che non può esser principio di grandi beni alla società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran parte una volta. A’ nostri tempi, presso quelle nazioni che hanno l’uso di quella società intima definita di sopra, l’ambizione produce un altro sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita, posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama onore. è un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando, è cosa di niun conto*; ma egli è un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa che facilmente nasconde anche agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso la sua natura, per così dire, fredda e rimessa. Questa illusione però è potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l’uso di quella intima società da cui solo ella può nascere. E particolarmente in Francia, molti sono stati filosofi di opinione fino all’ultimo grado, e conoscitori intimi del vero in tutta la sua estensione, e hanno sentito la vanità e nullità delle cose e degli uomini, e molti hanno anche ne’ loro scritti mostrato di dispregiar l’opinione pubblica, e anche combattuta la stima forse eccessiva che se ne fa nella loro nazione e provatane l’irragionevolezza, e il danno eziandio non piccolo in varie cose. Ma nel fatto e nella vita è certissimo che nessuno di questi, non che degli altri francesi, dal tempo della origine della società francese fino al presente, ha mai potuto impetrar da se stesso, non solo di non curar veramente l’opinione pubblica, ma neppure di non metterla quanto all’effetto e quanto al fondo del suo animo, nella cima de’ suoi pensieri e de’ suoi fini, e di non volgere a quella il più delle sue azioni e delle sue omissioni. Questa stima della opinione pubblica, così piccola cosa com’ella è, è pur da tanto che quasi basta nelle dette nazioni (ciascuna delle quali ne partecipa a proporzione delle sue circostanze sociali) a rimpiazzare i principii morali ugualmente perduti appresso di loro, massime nelle classi non laboriose, e gli altri vincoli della società, gli altri freni del male e stimoli del bene, in luogo de’ quali resta si può dire esso solo, ed è pur sufficiente a servire alla società di legame. Piccolissima e freddissima cosa ella è, come ho detto, non v’ha dubbio. Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio, non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente. Qual cosa è più frivola in sé che il far conto di una buon’azione né più né manco che di un buon motto o di un bell’abito, esser sollecito della propria probità per la sola ragione per cui si ha cura di acquistare e conservare la bella maniera, evitare una mala azione come una brutta riverenza, e il vizio come il cattivo tuono? Ma bisogna pur confessare (che giova il parlar sempre dissimulatamente, e col linguaggio antico nelle cose affatto nuove?) che effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono è, non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi, e che i buoni costumi non sono esercitati per altro, generalmente parlando e delle classi civili, che per le ragioni per cui si esercita il buon tuono, e che dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi. Così nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati, che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di se medesima*.

Gl’italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi, cioè ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi il popolo, il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non è quello d’altra nazione alcuna. Voglio dire che quanto alla cognizione del nudo vero circa i principii morali, quanto alle credenze che a questi appartengono, quanto all’abbandono delle credenze antiche, la nazione italiana presa insieme e paragonando classe a classe conforme e corrispondente tra lei e l’altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque altra più civile e più istruita d’Europa o d’America. Per conseguenza da questa parte ella è priva come l’altre d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre di questo, a differenza delle dette nazioni, ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl’inclina naturalmente a vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia; queste cose non sono che le menome e le più facili a vincere tra le ragioni che producono il sopraddetto effetto. Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese non hanno che fare con quella società di cui parlavamo e che hanno le altre nazioni. Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia.

Conseguenza necessaria di questo è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso. Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di altre molte cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e ristringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé.

Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienze di società (bienséances). Mancando queste, e mancando la società stessa, non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono o lo mantengono e vi si conformano, è vaga e niente stringente. Ciascuno italiano è presso a poco ugualmente onorato e disonorato. Voglio dir che non è né l’uno né l’altro, perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta, essendo esso totalmente una idea prodotta da questa, e che in questa e per questa sola può sussistere ed essere determinata.

Benché gl’italiani, come ho detto, sieno incirca a livello delle altre nazioni nella conoscenza generale della realtà delle cose relativamente ai fondamenti dei principii morali, per quanto almen basta a influire e dar norma alla condotta pubblica e privata di ciascheduno; tuttavia è ben certo e da tutti gli stranieri, non meno che da noi, conosciuto e consentito che l’Italia in fatto di scienza filosofica e di cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania, considerando queste e quella generalmente. Ma contuttociò è anche certissimo, benché parrà un paradosso, che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni.

[…]

 

 


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