Giacomo E. Carretto
Viaggio di un turco in Italia

 


 

PASSI SCELTI

 

Introduzione

Un’ideologia simile a quelle dell’odierno mondo mediterraneo nel quale viviamo, preoccupazioni, già pronte a mutarsi in terrori per tante cose, dalla situazione politica all’inquinamento, unite a un profondo fastidio per il turismo di massa, i prodotti di serie, la burocrazia, e troviamo perfino l’attrazione per l’occulto e qualcosa di simile a un nuovo modo di considerare gli altri animali, nostri fratelli: sono idee, sentimenti comuni ai nostri giorni, meno comuni in un anziano signore molto tradizionale, che non sopporta il «popolo», frequenta con piacere solo gli ambienti aristocratici e già nel 1920 ha modi e aspetto antiquati. Ma su tutto, su parole e sentimenti che le dettano, su ogni impressione domina una Palermo ammirata e respinta, troppo familiare e lontana, nei riguardi della quale non è possibile, e non si vuole, chiarire a se stesso le proprie sensazioni.

Bisogna dire che il signore, dai sentimenti che abbiamo appena accennati, era musulmano, un turco, Yusuf Samih e si firmava Asmai, ossia con il nome di un famoso filologo arabo di Basra vissuto fra il 741 e l’828 circa. L’antico Asmai viaggiava spesso nel deserto, per raccogliere il materiale linguistico a lui necessario e si dice che un giorno incontrasse, fra i beduini, alcune povere ragazze che gli rivelarono meravigliosi segreti mistici dell’amore di Dio.

Il moderno Asmai invece che nel deserto viaggiava nella nostra Europa, infastidito dagli studiosi occidentali dell’Islam, eccetto il grande Michele Amari, ostile a ogni colonialismo, trovando, invece di mistiche rivelazioni, un’ambiguità fra interesse e repulsione, attrazione e rifiuto per quella civiltà che ormai pervadeva il mondo, l’unica civiltà per alcuni innovatori musulmani, per altri il nemico da combattere.

Fra il dicembre 1920 e il gennaio 1921 accompagnò la principessa-scrittrice egiziana Qadriyyah Husayn in un viaggio in Sicilia, dopo una breve sosta a Napoli. Asmai alla fine del XIX secolo aveva già pubblicato i suoi ricordi di viaggio in Europa, specie in Inghilterra e nel 1922, al Cairo, pubblicava un nuovo diario con il titolo Siqilliya - Ricordi di Sicilia (Siqilliya - Sicilia Hatïrasï); era stato subito recensito in Italia dal nostro maggior turcologo, Ettore Rossi: brevissima e infastidita recensione nella quale si faceva notare come all’autore non andasse bene niente. Oggi a distanza di tanto tempo possiamo leggere questo diario, anche se ci tratta abbastanza male, con serenità e con qualche divertimento, anche perché è certamente utile alla comprensione del mondo mediterraneo del quale noi tutti facciamo parte.

Al tempo del viaggio siciliano di Asmai e della principessa, il 1920, l’Italia in Tripolitania cercava ancora una via pacifica, sostenendo il capo della Confraternita dei Senussi, il Sayyid Idris, e ad Asmai sembrava che i popoli islamici accettassero passivamente il proprio declino politico. Solo in Anatolia Mustafa Kemal, il futuro Atatürk, il Padre dei Turchi, aveva iniziato la guerra di liberazione nazionale. I Turchi erano l’unico baluardo di un Islam in pericolo, e Mustafa Kemal sembrava agire in nome di questo Islam, perché ancora non aveva rivelato le sue intenzioni per una laica modernizzazione di tipo occidentale. In quegli anni era tutto incerto, in Anatolia le prime grandi vittorie turche avverranno fra il 6 e il 10 gennaio 1921, e sembra che non giungano notizie ad Asmai.

Nel nostro Occidente, in quegli anni, a molti l’Islam appariva come un’incognita misteriosa, come una forza in attesa solo di chi sapesse unificarla e impiegarla. I Turchi, eredi degli Ottomani, sembravano l’elemento unificante, e la guerra di liberazione ancora incerta si presentava come il prototipo per la rivolta dei popoli oppressi contro il colonialismo europeo.

Molte cose sono accadute da allora, ma i sentimenti del vecchio ottomano li ritroviamo sulle rive del Mediterraneo d’oggi. Asmai è l’erede della civiltà ottomana, componente essenziale nella formazione del nostro mondo, troppo spesso dimenticata o ignorata. Una civiltà che, nel secolo scorso, sembrava aver dato origine a un particolare tipo umano, in risposta all’invadenza della nostra civiltà tecnologica, avvertita come aggressione culturale. Ascoltiamo le parole del primo grande romanziere turco moderno, Yakup Kadri:

A Istanbul vi furono due periodi, il primo dell’istanbulina, il secondo della redingote. Gli Ottomani non furono mai così eleganti, puliti, gentili, come nel periodo dell’istanbulina. […] Questo abbigliamento aveva dato vita a un nuovo tipo d’uomo e i Turchi, così abbigliati, apparivano per la prima volta, fra l’Asia selvaggia e la rude Europa, come una comunità del tutto particolare. Questa gente, nei modi di vita e nel vestire più semplice e pulita dei popoli nordici, per i sentimenti e l’intelletto riassumeva in sé tutte le civiltà del Mediterraneo… Turchi dai pantaloni bianchi, gilè bianchi, scarpine luccicanti, dalla silhouette slanciata e dalle linee delicate. […] Erano come persone spaventate dalla forza e dalle durezze degli altri, con il viso pallido e un fazzoletto di seta avvolto intorno al collo; si ritraevano dagli uffici pubblici per essere solo padri di famiglia e padroni di ville eleganti, equilibrati e onesti nelle collere e nei piaceri. […] Poi venne il tempo della redingote e nella redingote crebbe una generazione a metà di servi e a metà di impiegati, falsa e banale. […] Venne perso ogni stile di vita, di pensiero e di abbigliamento, non vi erano più tradizioni, ogni mente fu avvolta in un desiderio art nouveau e rococò, privo di gusto e di fondamento. Divennero rococò la nostra morale e la nostra istruzione, e lo divennero gli edifici, gli oggetti, le vesti. Non rimase traccia di quel serio, elegante, segretamente tradizionale essere ottomani del tempo di Abdülmegid.

Anche queste sono parole del 1922, dal romanzo Kiralïk konak e si riferiscono agli anni fra il 1839 e il 1861, il sultanato di Abdülmegid, ma a lungo, in seguito, qualcosa rimase di quello stile di vita anche se, per chi quei mutamenti viveva, era più difficile comprenderlo. Se le vesti, l’aspetto e il tempo facevano di Asmai un uomo della redingote, era come se il suo spirito vestisse quella raffinata variante della stessa redingote che era l’istanbulina, come se avesse avvolto al collo quel fazzoletto occidentale, erede della moda romantica. Dopo la prima guerra mondiale quel mondo sopravviveva ancora nei suoi testimoni, e se guardiamo bene oltre le apparenze, ne ritroviamo lo stile in molti dei principali attori, sulla scena delle nuove nazioni nate dall’Impero ottomano. Ma dopo la seconda guerra mondiale sembrerebbe tutto dimenticato, e non ci sono più principesse egiziane per dare a un segretario la possibilità di esprimere pensieri comuni al suo ambiente

La principessa Qadriyyah Husayn (nella pronuncia turca Kadriye Hüseyin) era figlia di Husayn Kamil che durante la Grande Guerra, fra il 1914 e il 1917, era stato il primo Sultano del moderno Egitto. Discendeva, quindi, dal grande Muhammad Ali, un ottomano d’origine albanese inviato in Egitto dal Sultano d’Istanbul durante l’avventura orientale di Napoleone. Muhammad Ali si era impossessato del potere, iniziando un’opera di occidentalizzazione che spesso anticipava quella della stessa Istanbul, facendo del Cairo la rivale della capitale ottomana. La famiglia della principessa era dunque di cultura turco-ottomana e aveva antichi rapporti con il nostro paese.

Ismail, il nonno della principessa, aveva guidato l’Egitto con il titolo di khedive, ancora formalmente sotto la sovranità ottomana, ma nella sostanza indipendente. Aveva tentato, primo fra i moderni governanti islamici, di svolgere un’autonoma politica da grande potenza con l’apertura del Canale di Suez e un’espansione coloniale verso l’Etiopia, il Sudan, la regione dei Grandi Laghi. Un comportamento naturalmente inaccettabile per il colonialismo europeo, e la Gran Bretagna, aiutata dai debiti di Ismail, lo costrinse all’esilio nel 1879.

Furono i Sovrani d’Italia, Umberto e Margherita, ad accoglierlo con la sua famiglia, ospitandolo in una villa borbonica, la Favorita, e lì visse fino al 1888, quando poté recarsi a Istanbul e morirvi in esilio, senza rivedere l’Egitto. Husayn Kamil, che già era stato nel nostro paese per motivi diplomatici, lo aveva accompagnato nell’esilio italiano. Un altro figlio di Ismail, Fuad che sarà il primo re dell’Egitto, doveva studiare a Napoli, poi nella Regia Accademia Militare di Torino dove frequentò il corso del 1885-1888 e si ambientò talmente bene da parlare in piemontese. Sottotenente del 13° artiglieria, doveva completare a Roma la sua formazione frequentando la famiglia reale e considerando la regina Margherita come la sua seconda madre, dopo l’amatissima Ferial Hanïm d’origine circassa.

La famiglia regnante d’Egitto conosceva e frequentava il nostro paese, ma Qadriyyah non era mai stata nel meridione e il viaggio, guidato da Asmai, doveva colmare quella lacuna. Una mancanza avvertita dalla principessa come tanto più grave in quanto si trattava di un’antica terra d’Islam. Insieme ad Asmai trovava, in Italia, quella cultura occidentale che affascinava ma che, allo stesso tempo, si presentava ai loro occhi come un tutto unitario, confuso e privo di contorni. Nel diario di viaggio non sono quasi mai nominati gli artisti, quando sono nominati appaiono evidenti confusioni, e se si ascolta la musica o si guardano i balletti russi, l’ammirazione non arriva al punto di sopportare fino alla fine.

A Napoli e a Palermo anche questi viaggiatori orientali trovano un meridione da criticare, incerti fra il richiamo di quel comune mondo mediterraneo e il desiderio di giudicare come moderni rappresentanti di una più settentrionale Europa. Trovavano ciò che trovano, oggi, e che in fondo si aspettano molti viaggiatori italiani in ogni Oriente e in ogni Meridione. è Napoli a venire trattata peggio, proprio perché, priva del passato islamico, può essere più liberamente criticata, così al termine di questo volume, nell’Appendice, si cercherà di rimediare.

Che poi nelle parole di Asmai tutti, Americani e Inglesi, Olandesi, Italiani e naturalmente gli occidentali studiosi dell’Islam, vengano più o meno maltrattati, è cosa abbastanza naturale. Lo vedremo sorpreso e quasi offeso quando un antiquario definirà «bandito» Tepedenli Ali Pascià: in realtà era un potente locale, la cui personalità aveva affascinato e ispirato Lord Byron, e che si era costruito un piccolo regno intorno a Gianina, in Albania, quando sembrava a molti osservatori che l’Impero ottomano dovesse frantumarsi in brevissimo tempo. Un bandito, dunque, per chi riteneva essenziale il mantenimento d’ogni ordine costituito, ma oggi vi è chi lo rivaluta, come esempio di un possibile, diverso sviluppo unitario in un Impero non centralizzato. Certo Asmai, che ammetteva la guerra santa solo in difesa degli oppressi, si sarebbe trovato male nelle tragedie successive, e non avrebbe compreso quelle dei nostri giorni.

Il suo libro sulla Sicilia, di 280 pagine, oltre a un diario di viaggio doveva presentare il profilo storico dell’Islam siciliano, basato sulla lettura dei soli testi arabi pubblicati da Michele Amari, perché Asmai non cita la prima edizione della Storia dei musulmani di Sicilia. Tralascio questa parte storica, riprendendo solo il diario, scritto in un turco ottomano che, proprio in questi commenti personali, diviene spesso elaborato, prolungandosi in periodi labirintici nei quali un lettore d’oggi può facilmente perdersi o stancarsi. Chi legge l’originale, in caratteri arabi, deve anche combattere contro il tipografo arabo che compone in turco e che, probabilmente, era aiutato da un apprendista ignaro di questa lingua, mentre lo stesso autore è portato ad usare vocaboli arabi mai entrati nella lingua turca.

Chi scrive qualcosa perché sia pubblicata chiede la collaborazione degli altri, perché la sopravvivenza di ogni scritto dipende da ciò che sapranno trovarvi, in epoche successive, gli eventuali lettori. è un po’ come gettare una bottiglia in mare con un messaggio per qualcuno che non conosciamo. Chi legge porta, nell’interpretazione, tutte le sue conoscenze, i sensi che hanno per lui quelle parole impiegate che, nelle sue esperienze, si sono caricate di nuovi valori. In ogni periodo si stabiliscono percorsi di lettura comuni, per le opere più note, e comuni chiavi di lettura per interpretare. Ogni lettore ha un suo testo, che si sovrappone a quello originario, lo fa vivere per quella singola esperienza e contribuisce alla formazione di quei percorsi comuni. Ma il testo, da cui quella sempre rinnovantesi esperienza si muove, rimane ignoto, anche quando chi legge presenti, per altri lettori, la propria interpretazione.

Bisogna portare alla luce queste pagine non scritte, e non solo nelle traduzioni. Qui potrete leggere uno fra i possibili testi del diario di Asmai, parafrasi nella quale l’antico autore, già prevenuto verso di noi, avrebbe certo trovato una inaffidabilità tutta occidentale, ma che permette di comprendere quello e solo quello che il nostro Ottomano, oggi, ha da dire per il mio tramite. Il primo interesse da me provato per Asmai è nato da una strana somiglianza con un nonno dal mio stesso nome, un Giacomo Carretto che veniva dalle Alpi liguri e si sentiva uomo dei monti, dei «nostri monti» come era solito dire. Strana somiglianza, perché quel fedele servitore del giovane stato italiano sembrava non avere nulla in comune con il nazionalista pan-islamico infastidito dalla gente comune, deluso dalla mancata applicazione degli ideali di libertà e democrazia, intravisti a Occidente.

Quando Giacomo nel 1888 venne inviato a fare il pretore nel centro della Sicilia, passando da Napoli, le usanze napoletane, conosciute durante il viaggio, generarono in lui violente reazioni, naturalmente solo verbali. Si ricordò di un amico straniero che qualche anno prima gli aveva scritto, in un fantasioso italiano: «Napoli è una città singulara. Mi sento come nel paradiso e come nel inferno». Così compresi come la somiglianza avvertita derivasse dalle reazioni di un «uomo del nord», stranamente simili a quelle di Asmai che, nella sua serietà ottomana, amava l’Europa settentrionale. Ancora un principe, Sabahaddin, questa volta ottomano, nel tramonto dell’Impero aveva indicato la civiltà nord-europea come unico modello per la possibile salvezza.

Giacomo Carretto era uno di quei settentrionali mandati a «comandare» in Sicilia, come dirà Sciascia. Spesso gente seria, onesta, ma che non aveva alcuna preparazione per affrontare quel mondo tanto diverso. Sarà, la loro, una difficile iniziazione priva di guide o maestri, lasciati soli a risolvere i propri e gli altrui problemi, ma spesso avranno anni per giungere alla comprensione, come dimostra la vita successiva di Giacomo. I nostri viaggiatori musulmani non ebbero il tempo sufficiente, ma a Palermo accendevano candele a Santa Rosalia, così posso sperare che Qadriyya e Asmai, giunti nella Luce del Dio Unico, perdonino un Occidentale tornato a considerare, quasi come fatti di famiglia, una loro dimenticata avventura terrena.

 

* * *

 

Il diario di Asmai

Napoli, 15 dicembre 1920

Siamo a Napoli da quindici giorni. Veniamo da Roma. Dicono che l’albergo in cui ci siamo fermati, sul bordo del mare, sia di prima categoria: non lo è certo la sua cucina. è l’Excelsior. Non posso parlare dei suoi prezzi, perché se parlassi potreste udire solo un lamento e sareste obbligati a rinunciare alle nostre impressioni di viaggio sulla bella Napoli.

Davvero! Napoli è veramente bella, come lo sono i suoi dintorni e le isole. è piena di monumenti antichi e moderni, bellissimi. è piena anche di mendicanti e imbroglioni. Qui bisogna tenere gli occhi spalancati. Da noi, se non vogliamo dare l’elemosina, basta dire: “Dio ti aiuti”, ma qui è inutile e la porta dell’albergo è come quella di una chiesa.

Non ci stanchiamo mai di guardare Napoli da un luogo elevato. Il vulcano, al quale hanno dato il nome di Vesuvio, di giorno e di notte presenta spettacoli diversissimi. Fiamme di notte, fumo di giorno hanno dato al poeta italiano Dante Alighieri il modello per il suo Inferno.

La gente del popolo è molto sporca. è anche troppo chiassosa e rissosa. Senza alcuna necessità parla troppo e completa le sue parole con tanti movimenti delle mani, degli occhi, delle sopracciglia. Che buffo! Tutti, in tutta Italia, accompagnano le loro parole con qualche movimento delle mani e del volto, ma solo qui a Napoli tre quarti della conversazione si svolge a gesti. Se uno straniero guardasse da lontano due napoletani che parlano tra loro, penserebbe di assistere a un incontro fra muti e sordi.

La gente del popolo, inoltre, si ubriaca e ama smodatamente il gioco della tombola, illudendosi di arricchire: questo denota un’assenza di morale che possiamo ritrovare in tutte le altre usanze, tanto che non si può dare alcuna fiducia ai mercanti quando lodano le loro merci. Vogliono solo svuotare il nostro portafoglio, perciò dobbiamo scoprire quale rapporto vi sia fra i loro giuramenti e la realtà delle cose.

Sulla spiaggia di Posillipo c’è un locale famoso per il caffè e i cibi e, visto che ci lamentavamo della cucina, la Principessa ci ha invitato tutti a pranzare. Per essere sicuri siamo anche andati laggiù in avanscoperta, senza preoccuparci del prezzo, ma riguardo alla cottura dei cibi abbiamo fatto tante raccomandazioni al padrone. Il giorno dopo ci presentiamo, a mezzogiorno in punto, in quella trattoria e ci accolgono subito consigliandoci di avere un po’ di pazienza. Alla fine riescono a farci accomodare intorno a una lunga asse di legno, qui chiamata tavolo da pranzo, dove veniamo abbandonati a guardare tovaglioli, forchette, coltelli sporchi e macchiati. Ancora attesa, poi gli viene in mente di stimolarci l’appetito con un antipasto. Ma che antipasto! Pensate… olive verdi accompagnate da volgari sardine, tutto troppo piccante e salato: siamo in sette, e due di noi non trovano neppure il coraggio di assaggiare. Finalmente i famosi maccheroni, che noi chiamiamo maqarna, e naturalmente tutti ci riempiamo il piatto, ma ci attende una nuova sorpresa, perché sono d’un brutto colore, scuri, conditi addirittura con olio d’oliva e, come tocco finale, crudi! A questo punto ci manca anche il coraggio di guardarci in viso l’un l’altro…

Speriamo nelle pietanze e ci portano pesci e polpi arrostiti, sempre tutto infestato dall’olio di oliva. Insistono con la gallina bollita, poveri denti e coltelli, e perfino nell’insalata ci perseguita il terribile olio. Non ho niente di particolare da dire su frutta e formaggi, forse perché a questo punto la fame me li fa accettare. E infine il conto: giuste giuste trecento lire italiane. Ringraziamo Dio che il cambio, favorevole alla lira egiziana, ci dà una mano.

Anche a Napoli, come da noi, le strade non vengono pulite, così ci appaiono sporchissime e piene di buche. Ho chiesto se fossero le conseguenze della Grande Guerra, ma hanno detto di no. Forse il Comune è povero? Nuovo diniego, anzi è molto ricco. E allora? Il problema sono gli stipendi dei dipendenti comunali che assorbono l’ottanta per cento delle entrate, lasciando solo il venti per cento per tutto il resto: ma quanti saranno questi dipendenti, o quanto sono alti i loro stipendi?

La città è piena di gente nobile e ricca, e fra questa e il popolino c’è un abisso. Un tempo era la capitale di un grande reame, ed è naturale che vi siano tanti conti e contesse, tanti duchi e duchesse. Ho sentito dire che quando il Re d’Italia compie una visita ufficiale a Napoli, il numero dei nobili invitati arriva a novecento. Abbiamo incontrato alcuni di questi nobili e ci siamo accorti che sono persone eccellenti e colte. Né i modi né la voce ricordano la loro origine napoletana.

A Napoli non nevica e non ghiaccia mai, perché l’aria è sempre tiepida, ma vi è tanta pioggia che in poco tempo ti può fradiciare: ci siamo, purtroppo, accorti che non bisogna dimenticare mai l’impermeabile o il parasole! E restando in albergo è tanto poetico contemplare dal balcone della propria stanza il paesaggio segnato dalle macchie del sole. Dal promontorio di Teresina dell’hotel Bertolini è impossibile saziarsi di questa vista. Certo che a vedere il golfo di Napoli, fino a Sorrento e a Capri, mi sembra di stare nella nostra Istanbul con le isole e la costa d’Asia.

Di sera musicisti girovaghi fanno divertire gli ospiti, nei saloni degli alberghi, suonando la famosa tarantella, ma certo le canzoni napoletane hanno uno strano suono per le orecchie di noi stranieri. Nella spaventosa babele dei dialetti italiani quello di Napoli, per essere realmente compreso, vuole che l’ascoltatore sia nato e cresciuto in questa città. Solo per fare un esempio, i napoletani come gli arabi dicono b invece di p, mentre pronunciano la l come gli Inglesi. In questo strano linguaggio vengono anche pubblicati divertenti giornali e ne ho comprato qualcuno, fiducioso nelle mie capacità linguistiche. Devo confessare che, malgrado i miei sforzi e qualche aiuto esterno, ne ho capito solo il cinquanta per cento.

Il napoletano è pieno di parole ed espressioni locali, ma anche d’infinite bestemmie e insulti impiegati dal popolo in ogni occasione. Perfino i rozzi scherzi degli innamorati sono pieni di parole sporche. Un anziano signore mi ha detto che dalle statistiche ufficiali si può vedere che a Napoli l’85% delle persone è analfabeta, tuttavia, come in ogni luogo e paese, anche qui si può trovare il bene e il male. La cosa migliore, per chi voglia conoscere usi e costumi, moralità e immoralità di questo popolo, è leggere Il paese di Cuccagna scritto dalla proprietaria del quotidiano il Giorno, Madame Matilde Serao.

Napoli è piena di cose da vedere. Se non vi accontentate di contemplare il Vesuvio da lontano, potete arrivare facilmente fino al suo cratere, e in un giorno visitare Pompei. Potete visitare l’Antiquario in via Nazionale, aperto tutti i giorni meno la domenica, e il Giardino Reale con i suoi animali, divertente e istruttivo. A Posillipo si va in automobile o in carrozza e comodamente si visitano «Castello Mare», Sorrento, Amalfi, Capri. Vi ho già detto che siamo stati a Napoli quindici giorni. La nostra meta è l’isola che chiamano Sicilia, ossia Siqilliya, famosa fra i viaggiatori per le sue bellezze, la pulizia e la dolcezza del clima: abbiamo deciso di passare l’inverno a Palermo.

Intanto cerchiamo di sfruttare in modo piacevole e utile gli ultimi giorni della nostra permanenza a Napoli. Andiamo nella più importante libreria della città per comprare una bella mappa della Sicilia molto dettagliata, divisa in sette carte e pubblicata dal Touring Club Italiano. Compro anche due pubblicazioni illustrate, un libro francese dal titolo Palermo e Siracusa, con molte notizie artistiche e storiche, e un bell’album italiano dal titolo Le città d’Italia. Infine una guida in inglese dedicata a «Palermo e i suoi dintorni». Ormai passo le sere nella mia stanza a studiare queste pubblicazioni.

La conoscenza! Prende forma piano piano come il lavoro di chi fa la calza. Leggere quei libri, accompagnando la lettura con lo studio della mappa, ha eccitato la mia fantasia e non desidero altro che andare in Sicilia e specialmente a Palermo per vedere quello che resta del suo periodo islamico. Intanto devo accontentarmi di quello che ho, ma per fortuna ho portato con me anche due manoscritti turchi di storia dove ho trovato qualche notizia, ma in arabo c’è molto e mi hanno detto che a Palermo, nella Biblioteca Nazionale, troverò tutto quello che voglio: aspetto con impazienza.

Abbiamo chiesto qual è la strada più comoda per raggiungere Palermo. Per ferrovia è troppo lungo perché bisogna traghettare i vagoni e cambiare treno tre volte, così ci vorrebbero 21 ore di viaggio; troppo faticoso anche per chi non ama il mare e dice: “Bisogna guardare l’acqua nel bicchiere, la nave dalla terraferma”.

La via più breve è, dunque, quella del mare e se questo è calmo con un vapore postale si arriva in undici ore. Inoltre ogni giorno alle sette e mezzo di sera c’è un postale in partenza e all’alba ci apparirà Palermo illuminata dal sole. Pensando che passeremo la parte noiosa del viaggio dormendo, abbiamo prenotato le nostre cabine sul vapore Città di Trieste in partenza domani. Abbiamo anche telegrafato al direttore di Villa Igiea, l’hotel di prima categoria più bello di Palermo, per prenotare le stanze e trovare le carrozze necessarie al nostro sbarco. E il premuroso direttore ci confermò di essere pronto a riceverci.

Non crediate che nel raccontare questi particolare io mi dimostri eccessivamente pignolo. Parlo per evitare agli altri viaggiatori molti fastidi, sperando che si comportino come noi e chiedano una sicura conferma delle loro prenotazioni, altrimenti poveretti! Potrebbe capitargli quello che mi capitò a Milano, ossia di mendicare una stanza alle porte di tutti gli alberghi e infine, spendendo una follia, sentirmi trasformato in pollo, rinchiuso in una camera grande come una stia, e infine costretto a sprofondarmi in ringraziamenti per questa metamorfosi.

Chi vuole viaggiare senza problemi deve avere il minor bagaglio possibile. Bisogna avere il bagaglio che si è in grado di portare e in Italia non più di una borsa da viaggio. In questo strano paese non hanno eliminato le dogane interne, così non vi lasceranno mai uscire dalla stazione se prima non avranno messo sottosopra tutto il contenuto di tutte le vostre valige.

(continua)

 

 

 

 


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